I migliori album per (ri)scoprire gli anni Dieci (2010-2019)

Per quanto sia impossibile stilare una classifica musicale per un intero decennio, è personalmente utile cercarne i filoni auriferi, risalendo i fiumi dell’ascolto. Unica guida quella mappa interiore, traccia di esperienze costruita nel tempo sopra il dna di ognuno di noi.

Lo sforzo non può che essere quello di ritrovare, anno per anno, ciò che ha lasciato un tatuaggio percorribile tra le sinapsi che formano il nostro presente.

Dal 2010 al 2019, per non perdere la strada di casa, ho sparso le briciole di pane per terra come Pollicino, presto divorate dagli uccelli rapaci dell’introspezione, smarrendomi nel bosco della trasversalità dei generi e dell’abbondanza spotifyana che spersonalizza.

2010

Decennio che si apre col testamento di Gil Scott Heron, il padre del rap. L’intenso e documentale I’m New Here più che ricucire col passato, traccia un solco definitivo col periodo in cui The Revolution Will Not Be Televised, aprendo ad un decennio riflessivo e psichedelico.

Tra Cosmogramma, il rinnovato debutto di Flying Lotus nipote di Alice Coltrane, e la gemma di Four Tet, There is Love In You, urge sicuramente rendere omaggio a Max Richter.

Infatti appena prima della poderosa riscrittura di Vivaldi e anni dopo il suo capolavoro The Blue Notebooks del 2004, Infra conduce inesorabile in una convergenza spazio-temporale, tra l’incanto di lirismi classicheggianti e disturbi di frequenza, una sonda che sembra trasmetterci messaggi vitali da marte.

Max Richter - Journey 1 [Infra]

2011

Se da quella magnifica terrazza Beyoncé imperversa al massimo della sua forma con Love On Top, c’è chi cammina sui sentieri meno battuti dell’intimità come Bon Iver che si conferma col suo omonimo sognante realismo magico; e schizofrenicamente gli M83 dalla Francia svelano il fascino di un’elettronica avvolgente, voce di un’umanità irrimediabilmente urbana, smarrita e felice nella malinconia (“city is my church“) delle città a mezzanotte (Midnight City).

La stessa umanità persa negli incantevoli synth di St Vincent e nella grazia del suo Strange Mercy.

La mia ultima segnalazione di inizio decennio ha la pretesa del viaggio e si posa su un lavoro straordinario: è il pianista americano Vijay Iyer che dopo Solo del 2010 esce con Tirtha, disco crudo ed intimo, moderno e ancestrale, centro di un trittico esemplare che si perfezionerà in Accelerando l’anno dopo.

Abundance

2012

Parziale e scorretto, nel mio cuore quest’anno c’è posto solo per il debutto di Frank Ocean con channel ORANGE. Talento assoluto, giovane maestro di scrittura e di soul, surrealismo ed eleganza assoluta. Riferimento.

Keepin’ it surreal, whatever you like
Whatever feels good, whatever takes you mountain high
Keepin’ it surreal, not sugar-free

Frank Ocean – Sweet Life
Sweet Life

Per lui passano in secondo piano cose egregie come gli Spiritualised di Sweet Heart Sweet Light, felice anomalia dream pop in maggiore, il cosmopolita omonimo del Portico Quartet per la Real World o il poderoso Luxury Problems di quel costruttore di imponenti impalcature sonore che è Andy Stott: importante per comprendere l’architettura sonica di questi anni, non me ne voglia se non ho messo lui in primo piano.

2013

La chitarra funky di Nile Rodgers ovunque: è Get Lucky dei Daft Punk a firma Pharrell Williams, entusiasmante tormentone del 2013. Ma non basta.

È l’anno dell’incantevole Virgins di Tim Hecker: ambientale, ancestrale, puro. Una pietra miliare.

È l’anno del potente disincanto di Kanye West: un pugno nello stomaco. Suoni eviscerati, spietati, nuovi. Con Yeezus è rifondazione, persino morale, mentre dal lato opposto della grande casa hip-hop r’n’b James Blake ci sussurra le preziose impressioni di Overgrown.

Ma è soprattutto l’anno del ritorno, dell’ultima uscita in assoluto dei Boards of Canada. E non resta semplicemente che prenderne atto, in gratitudine, umiltà e devozione.

Boards of Canada - Reach for the Dead (from Tomorrow's Harvest)

2014

Anno di ritorni eccellenti vede Fennesz lasciarci (ancora una volta) incantati dalle sue vette con la struttura avvolgente e sontuosa di Bécs, a cui risponde degnamente Flying Lotus mantenendo altissima l’attenzione sulla propria opera con un lavoro più straight e post-jazz come You’re Dead!.

Guerra fra titani, e come se non bastasse D’Angelo torna sulle scene con l’impegnato Black Messiah, dove la patina neo soul scolora a favore di sonorità più funky roots dallo splendido risultato.

Impossibile stavolta non fare una scappata nel mondo delle sonorità heavy ricordando i Godflesh, padri del metal industriale, che dopo più di un decennio di silenzio escono con un disco perfettamente nei tempi, potentissimo e visionario: A World Lit Only By Fire.

Il primo piano di questa annata di passaggio è però da dedicare ad una eccellente opera prima. Ballerina e soprano di eccelsa vocalità e precognizione, FKA twigs, l’inglese Tahliah Debrett Barnett classe 1988, entra nel mondo dei grandi artisti con la forza di una capacità di lettura musicale altissima. Col suo LP1 lascia tutti senza fiato. Miscela immersa in una personalità artistica tale da creare un “genere dei generi”, un puro prodotto artistico, una performance figlia dei tempi senza nessun debito da scontare”.

2015

In linea col ritorno dei Godflesh l’ambiente estremo vede l’anno successivo un’altra uscita di lusso e di sostanza: i Napalm Death collocano Apex Predator – Easy Meat direttamente tra i lavori migliori della loro discografia, colonna del grindcore/death dal primo Scum del 1987. Notevole.

Ma sono soprattutto due lavori electro-pop-dance che nel 2015 si sono impressi nel mio incarnato auricolare: il canadese Daniel Victor Snaith, aka Caribou con Our Love e il debutto del londinese James Thomas Smith, conosciuto come Jamie XX con l’EP In Colour. Difficile rendere senza l’ascolto, la classe e la raffinatezza compositiva di questa elettronica intelligente, che vira ora al pop, ora alla dance, senza mai del tutto farsene assorbire.

In ambito squisitamente pop dance, obbligatorio segnalare l’evolutivo intarsio di Skrillex: ascoltare Where Are You Now, in Skrillex and Diplo present Jack U.

Ma a mio giudizio l’anno va risolto in chiave black music moderna, così come supportata dal manipolo di fuoriclasse a marchio Brainfeeder, l’etichetta di Flying Lotus. Impreziosito dagli interventi del sassosfonista Kamasi Washington, che proprio in quest’anno esce con il bellissimo The Epic, e del bassista Thundercat, il podio non può che essere di Kendrik Lamar. To Pimp a Butterfly è lavoro persino complesso, che fa di alcune canzoni strabilianti punti di forza inattaccabili e vanta un lavoro sui testi da lasciare il segno.

Kendrick Lamar - King Kunta

2016

L’anno dei giganti e dei lutti che divorano la scena. David Bowie, Leonard Cohen e i Radiohead tornano con tre lavori superbi. Ma per Bowie e Cohen si tratta del loro ultimo saluto prima del grande viaggio.

A Moon Shaped Pool stracarico di aspettative, ci offre i Radiohead in versione classicheggiante, tra archi e raffinati arrangiamenti elettrici, ma pieni di ispirazione e canzoni. Un bellissimo ritorno.

Dal lavoro di Cohen filtra come non mai un’intensità lirica accecante. Testi e atmosfera da “meditatio” e “ruminatio” di biblica concezione. La confezione dell’opera, tramite l’assemblaggio del figlio Adam, rende il tutto splendidamente scarno, amplificando il messaggio. You Want It Darker come testimoniato largamente dalla stampa, diventa un Classico e come tale degno di rimanere nella nostra memoria.

E ormai è inutile parlare di Blackstar perché fin troppo è stato detto. Resta indelebilmente uno dei suoi dischi migliori, avendo per di più l’ingrato compito di rimarcare il vuoto creato da uno degli artisti più importanti mai esistiti. Non ci resta che accettare con gratitudine il suo testamento e la sua opera.

David Bowie - Blackstar (Video)

2017

Smaltita la sbornia delle pesanti dipartite e dei pesanti ritorni, il 2017 rinnova le energie con Four Tet (New Energy), album di grande maturità per una electro-world music priva di debolezze new age che attinge a sonorità dense, antropologiche, legate ai luoghi, dal respiro davvero planetario e contemporaneo.

Operazione che fa da contraltare all’ennesimo gioiello ambient di Willam Basinsky per cui Shadow in Time è implosivo, chiuso nella profonda bellezza dei suoi riferimenti, della lavorazione personale. Il titolo della prima delle due sequenze è For David Robert Jones, ed è dedica a quel signore inglese in arte Bowie, a marcare una linea decisa nello scorrere del tempo.

Ancora poi LCD Soundsystem e Mogwai, antiteticamente posti nella tavola degli elementi musicali, a donare lavori intensi, esteticamente di grande livello e nel caso di Every Country’s Sun degli scozzesi, un post-rock di alta ispirazione ed emotività che porta ancora evidenti tracce di introversione, proprio a 20 anni dal loro debutto.

Se poi proprio vogliamo rintracciare importanti trame in questo secondo decennio, possiamo guardare fiduciosi alla creatività e all’intuito di Steve Ellison (aka Flying Lotus), dal suo personale repertorio e dalla sua scuderia con base a Los Angeles, la Brainfeeder.

Già a supporto di Kendrick Lamar l’etichetta stavolta sforna un lavoro solista che ha svecchiato e rilanciato una scena pop-rnb seduta sulle ormai stanche membra del neo soul: è il genio di Thundercat a sorprendere con Drunk, un LP ricco, vivace, virtuoso e geniale frullatore della pop culture degli ultimi decenni, tra humor, caos organizzato, psichedelia e lampanti doti compositive. Macchiato a jazz-fusion ed elettronica è al servizio di un pop synth-funk rinfrescante, dal cui calice video-testuale traboccano generose dosi di cultura (trash) e ironia.

Thundercat - 'Friend Zone'

2018

Ci sono i dischi importanti, le conferme dei grandi, le delusioni e le sorprese. Il mio 2018 è iniziato con una di quelle piacevoli, con Chrome Sparks, ovvero tal Jeremy Malvin da Brooklin e l’omonimo debutto. Elettronica synth ariosa e senza la benché minima pretesa culturale. Scorrevole, strapiena di idee e aperture, di intelligenza, alla ricerca di una propria perfezione estetica (O, My Perfection).

La perfezione estetica che ritroviamo in Emerald Rush di un John Hopkins, dall’approccio cosmico, oggi più universale (di successo) e sempre di intensa ambientazione. La ricerca di Hopkins evolve verso una felice destrutturazione dal dichiarato obiettivo di una maggiore fluidità nel confessare i contenuti interiori.

Restiamo in ambito electro, ma spostandoci verso i club berlinesi dai quali arriva l’inevitabile sentenza di DJ Koze con Knock Knock, che cavalca l’onda della sua costante ascesa di produttore e ribadisce la sua pesante influenza sui dancefloor europei e internazionali. Intelligenza produttiva, certezza di un linguaggio basico e creativo al contempo. Una firma unica, dagli ingredienti collaudati, dall’ascolto che trascina e affascina.

In ambito soul sicuramente Negro Swan di Blood Orange segna dei bei punti a bordo ring. Ricerca dell’io e funky soul raffinato, spesso incline all’hip hop, confermano che la frontiera della black music è la rielaborazione di sé e delle proprie radici.

Tra tanta elettronica e black music (la) spunta un’opera quasi gospel, accorata e disperata, autorale tra art rock, art pop e venature folk che appoggiano sulla vibrante emotività di Florence (and The Machine) che incanta con High As Hope, secondo me miglior lavoro di questa annata per intensità e personalità: esistenziale e speranziale, tra vette di preghiera e abissi di umanità.

Florence + The Machine - Hunger

2019

Florence and The Machine aprono la strada ad una fine decennio caratterizzata a mio personale sentire, da uno strapotere femminile.

Tra Lana Del Rey oramai inarrivabile e la sublime FKA twigs, fino a Caterina Barbieri passando per Billie Eilish e Solange Knowles: i migliori album del 2019 sono (quasi) tutti femminili! E rimando al mio best 2019 qui di seguito…

Tra i colleghi uomini esemplare conferma di Michael Kiwanuka con Kiwanuka e dall’ambiente death americano i Blood Incantation da Denver con un lavoro futuristico e classico in un sol colpo: Hidden History of the Human Race può segnare un momento evolutivo del genere.

Chiuderei con Bon Iver (i,i), che non cede al tempo e continua a sorprendere, a crescere, senza intaccare minimamente la sua altissima poetica. Nuovo Maestro di introspezione, umile e profetico folk-singer di questo primo ventennio degli anni 2000.

Bon Iver - Faith - Official Video

Qui sotto una wannabe-esaustiva playlist per chi volesse rivivere il decennio appena concluso.

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