Ci manchi, Jeff Buckley

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Citando James Baldwin, “Se la strada potesse parlare”, -il titolo originale “If Beale Street Could Talk”- ci racconterebbe della mattina del 4 giugno 1997, quando, impigliato nei rami di un albero sotto il Beale Street Bridge, fu ritrovato il cadavere di Jeff Buckley.

Dal 29 maggio si erano perse le sue tracce. In quel periodo Jeff si trovava a Memphis per realizzare  il follow up della sua venerata opera prima, “Grace“, però, quella dannata sera di fine maggio, mentre con il suo roadie e amico Keith Foti si stava dirigendo allo studio di registrazione, decise di fermarsi sulle rive del Wolf River per farsi una nuotata.

Non era la prima volta per Jeff, ma fu l’ultimo atto della sua breve ma intensa vita che lo catapultò di diritto nel Club dei 27.

“My sweetheart the drunk”, questo il titolo da lui scelto, non venne mai completato, ed infatti l’album postumo pubblicato dalla Columbia il 26 maggio del 1998, conteneva gli abbozzi del progetto “Sketches for My Sweetheart the drunk”.

Sono trascorsi ventisei anni dalla scomparsa di “una goccia pura in un oceano di rumore” e questa frase dichiarata da Bono Vox a MOJO -nel numero di agosto 1997-  non ha perso nulla della sua rilevanza.

Pensando a Jeff non possiamo tralasciare la sua rilettura dell’Hallelujah di Cohen, capace di “competere” con l’originale; non possiamo fare a meno di soffermarci sulla bellezza e, nomen omen, “Grace” del suo debutto discografico; non possiamo non rimanere ammaliati dalla sua capacità di rivelarsi in tutta la sua vulnerabilità suonando e cantando; infine non possiamo pensare alla sorte, beffarda, che ha deciso di porre fine alle sue sofferenze, lì, ai piedi di un affluente del Mississippi, fiume del Blues e madre delle nostre inquietudini.

Ci manchi Jeff.