L’Ufficiale e la Spia: Roman Polanski e il caso Dreyfus

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Questo articolo rivela elementi importanti della trama e della spiegazione de L’ufficiale e la Spia di Roman Polański, svelandone il significato, gli eventi e le prospettive migliori per apprezzarne i pregi. Se ne suggerisce dunque la lettura solo ed esclusivamente dopo aver visto il film, e non prima, per evitare di perdervi il gusto della prima visione.

L’aspetto più sorprendente di un film come L’Ufficiale e la Spia è che, cinquantasette anni dopo il suo esordio con Il coltello nell’acqua (sessantaquattro considerando anche i cortometraggi di inizio carriera), un Roman Polanski ormai più vicino ai novant’anni che agli ottanta continua a dimostrare al mondo di essere uno dei più grandi cineasti mai esistiti e riesce a farlo anche con un’opera che sì, rischia probabilmente di passare in secondo piano (nel senso che difficilmente verrà posta nella “metà alta”) durante un’analisi retrospettiva di una carriera così densa di capolavori immortali, ma che allo stesso tempo si rivela impeccabile tanto nella forma quanto nella sostanza, nonché profondamente marchiata in ogni sua sequenza dallo stile inconfondibile del suo autore.

Il 2019 è stato un anno importante per Polanski, non solo per quanto riguarda il suo ventiduesimo lungometraggio: abbiamo visto prendere vita una sua versione alternativa, tra l’altro piuttosto antipatica (interpretata da Rafal Zawierucha), nel bellissimo C’era una volta… a Hollywood di Quentin Tarantino, che rivive tra la cronaca e la favola il momento storico in cui Polanski era il regista più importante del mondo (“Rosemary’s fucking Baby!” esclama incredulo Leonardo Di Caprio a Brad Pitt, rivelando tutto l’amore di Tarantino per l’opera più importante del regista polacco); abbiamo assistito al riemergere degli aspetti più controversi del suo passato grazie ad una nuova accusa di violenza sessuale e, infine, lo abbiamo visto trionfare a Venezia con L’Ufficiale e la Spia, grazie al quale ha portato a casa il Leone d’argento nonostante le polemiche sollevate dalla regista Lucrecia Martel, presidente di giuria. Un anno impegnativo, durante il quale il regista ottantaseienne è riuscito a dirigere e completare un dramma storico da ventidue milioni di euro di budget con la rapidità, la precisione e l’efficienza che lo hanno sempre contraddistinto e che non lo hanno abbandonato nemmeno con l’età avanzata.

Il fulcro di L’Ufficiale e la Spia è l’arcinoto Affaire Dreyfus, ovvero lo scandalo che vide coinvolto l’ufficiale dell’esercito francese Alfred Dreyfus, di origine ebraica, accusato ingiustamente di spionaggio ed alto tradimento, degradato con disonore ed imprigionato per anni sull’Isola del Diavolo, prima di essere scagionato con grande clamore mediatico. Polanski è stato ossessionato per anni da questa storia, che porta sullo schermo con una sceneggiatura scritta a quattro mani con l’amico e scrittore Robert Harris (con il quale aveva già lavorato per L’uomo nell’ombra), anche autore dell’omonimo romanzo.

L’analisi del film

L' UFFICIALE E LA SPIA di Roman Polanski (2019) - Trailer Ufficiale HD

La prima cosa che salta agli occhi è che il film non racconta la storia di Dreyfus, ma bensì quella di Georges Picquart (un bravissimo Jean Dujardin), il colonnello che ebbe la forza di riaprire il caso e dare il via al percorso che portò alla pubblica riabilitazione di Dreyfus. La scelta di spostare quasi tutta l’attenzione del film su Picquart è uno degli elementi che rendono profondamente polanskiano il film. Come quasi tutti i migliori protagonisti tratteggiati da Polanski, Picquart è un individuo che si ritrova solo contro tutti, imprigionato all’interno di una macchinazione più grande di quanto possa inizialmente sembrare: all’inizio del film lo vediamo guardare con disprezzo, da lontano, l’ebreo Dreyfus (Louis Garrel) che viene disonorato e “dato in pasto ai leoni” (con grande gioia del pubblico che assiste alla scena) ma subito dopo, non appena viene promosso ai servizi segreti, lo vediamo scoprire lentamente che forse quell’ebreo di cui aveva così poca stima (Picquart è dichiaratamente antisemita) è innocente e il vero colpevole è ancora a piede libero, ben protetto dai piani alti.

Il processo a Dreyfus si rivela subito una farsa ben oltre il ridicolo, tra accusa basate sul “si dice” e prove grafologiche ai limiti del ridicolo che lasciano alquanto perplesso il protagonista. È qui che il senso di giustizia e la morale iniziano a prevalere sui sentimenti umani e per Picquart comincia un calvario che durerà anni e che lo vedrà scontrarsi con tutti i suoi superiori (e persino con numerosi sottoposti) all’interno di un esercito francese che preferisce continuare ad allevare una serpe in seno (nello specifico Ferdinand Walsin Esterhazy, la vera spia, interpretato da Laurent Martella) piuttosto che ammettere un vergognoso errore dettato da superficialità nelle indagini e malcelato razzismo.

Nella prima metà del film Polanski catapulta lo spettatore in una Francia molto diversa da quella che siamo abituati a conoscere: il film si apre nel 1895, pochi mesi prima che i fratelli Lumière dessero vita al Cinema, per mostrarci un paese soffocato dall’antisemitismo e ben distante dall’immaginario comune. È lo stesso tipo di ricostruzione fredda e completamente distaccata che aveva reso così grande un capolavoro come Il Pianista: Polanski non è mai manierista nelle sue ricostruzioni storiche e non è minimamente interessato ad occultare i lati più oscuri di un Paese, nemmeno se si tratta dello stesso Paese che gli garantisce la libertà da oltre quarant’anni. Il risultato è che la ricostruzione che vediamo con L’Ufficiale e la Spia è quanto di più distante si possa immaginare dai canoni hollywoodiani: l’affaire non è stato causato da poche mele marce ma dall’intero esercito, il popolo acclama la pubblica gogna dell’ebreo traditore, Dreyfus è appositamente caratterizzato in modo da non risultare mai simpatico agli occhi del pubblico e persino Picquart è un personaggio con cui è difficile entrare subito in sintonia, dato che tra il suo antisemitismo e la sua relazione clandestina con Pauline Monnier (Emmanuelle Seigner), moglie del suo caro amico Philippe (Luca Barbareschi, anche produttore del film) non sono poche le sue ombre.

Dopo aver fatto calare il pubblico nell’oscurità per buona parte della durata, Polanski decide però di inserire finalmente la luce della speranza, incarnata da quella Francia che siamo abituati a ricordare: Picquart entra in una stanza in cui sono presenti politici illuminati ed intellettuali moderni, tra i quali spicca Èmile Zola “l’italiano” (Francois Damiens), che dopo anni di indagini condotte in solitaria in edifici tetri, sporchi e scricchiolanti, cominciano a dare una mano al valoroso militare nella sua ricerca della verità. In questa sua seconda metà il film passa dal dramma individuale a quello collettivo: Zola pubblica il leggendario editoriale J’accuse (titolo originale del film), col quale racconta per primo a tutta la Francia la vergogna dello scandalo Dreyfus e solleva tanto clamore da guadagnarsi una denuncia (che gli costerà una condanna), riuscendo però a lungo andare a far riaprire il processo. L’opinione pubblica francese si divide tra innocentisti e colpevolisti (anche se il film mette principalmente in mostra questi ultimi, con tanto di roghi dei libri di Zola per le strade ben prima che lo facessero i nazisti in Germania) e, nonostante il nuovo processo continui ad essere poco più che una farsa, comincia finalmente a farsi strada la sensazione che forse potrà esserci una degna conclusione alla triste vicenda.

Come detto in precedenza però, oggi Polanski è fisicamente lontanissimo da Hollywood e, sebbene la vicenda di Dreyfus si sia conclusa con una piena assoluzione (momento che la pellicola non mostra!), il film ha un finale dal retrogusto decisamente amaro: la sua narrazione si interrompe nel 1899, dopo quattro anni di lotta, nel momento in cui Dreyfus accetta la grazia presidenziale (che equivale nella sostanza ad un’ammissione di colpa), nonostante i tentativi di Picquart che implora i familiari dell’uomo di andare avanti nella lotta per l’assoluzione, mentre l’ultima scena della pellicola è ambientata nel 1907, a piena assoluzione avvenuta fuori campo, quando Picquart è diventato Ministro della Guerra e ha un secondo faccia a faccia con Dreyfus (dopo quello avvenuto in un flashback all’inizio del film), tra l’altro non propriamente felicissimo dato che nonostante emerga chiaramente il rispetto tra i due uomini, Picquart rifiuta a Dreyfus di essere reintegrato nell’esercito col grado che avrebbe avuto se l’affaire non ci fosse mai stato.

L’interpretazione

Abbandonando gli spazi ristretti delle sue tre precedenti pellicole (Carnage, Venere in pelliccia e Quello che non so di lei potrebbero quasi rappresentare una seconda trilogia dell’appartamento per il regista, dato il loro utilizzo degli ambienti chiusi), Polanski torna a pensare e a raccontare una storia in grande, facendo emergere il suo smisurato talento visivo sia nella messa in scena davvero impeccabile che nella regia elegantissima, quasi basilare in molti momenti: i movimenti complessi sono pochi e la tensione emerge lentamente, salvo poi esplodere all’improvviso con scene di grande impatto (bellissimo l’omicidio dell’avvocato, quando vediamo l’assassino avvicinarsi lentamente alle spalle dei protagonisti del primo piano e sparare il colpo senza che ci sia un solo taglio di montaggio).

Ricco di silenzi (la colonna sonora del grande Alexandre Desplat è essenziale), L’Ufficiale e la Spia sembra seguire un altro tema tanto caro a Polanski, che con la giustizia statunitense ha un conto in sospeso da tanti anni: come accadeva anche nell’ottimo Carnage, l’accanimento contro Dreyfus scavalca il fatto commesso e si protrae stupidamente all’infinito mentre fuori non cambia assolutamente nulla, così come nel film del 2011 la lite delle due famiglie andava avanti anche dopo la pacificazione tra i due ragazzini (vittima e carnefice). Un messaggio molto forte e ribadito più volte da uno dei personaggi più controversi del mondo del cinema, che nonostante lo scorrere del tempo continua da anni a mettere in discussione in vario modo la giustizia nelle sue opere.

Al di là delle controversie, Polanski rimane però uno degli autori più importanti del ventesimo (e anche del ventunesimo) secolo, che non sembra intenzionato a dare segni di stanchezza e che continua a fare cinema memorabile con ogni sua nuova opera, nella speranza che il suo lunghissimo percorso artistico preveda ancora nuove ed interessanti tappe.

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