Breve guida per gli autostoppisti di C’era una volta… A Hollywood

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Questo articolo non è una recensione seria (o semi-seria). Se quel che cercate è un’analisi accurata del film, trovate qui i veri contenuti del film, qui le origini del suo protagonista e qui quanto è vera la storia che racconta.

La prima sensazione che percepisco dentro un cinema è l’odore dei pop corn, il suono croccante di una pringles spaccata, il clic della lattina di Coca Cola appena aperta.

Mentre osservo sequenze volutamente oscure e confuse di una threesome stile The Dreamers (così descritta: Ragazzo n.1 che accarezza Ragazza n.1 mentre Ragazzo n.2 osserva / Ragazza n.1 che bacia Ragazzo n.2 / Ragazzo n.1 che abbraccia Ragazzo n.2 / Ragazzo n.2 che strattona Ragazzo n.1 / Ragazzo n.1 e Ragazzo n.2 stesi a terra rilassati con Ragazza n.1 che sfiora il viso di Ragazzo n.1 mentre l’inquadratura si sposta verso il cielo per far emergere il marchio del prodotto pubblicizzato in contrasti di colore), mi chiedo se oggi sarò un “quentiniano” doc – un pizzico ignorante per quanto riguarda la cultura cinematografica, amante ironico delle scene di sangue che il regista americano mai fa mancare – oppure un detrattore hipster, che ritiene Tarantino scadente e volgare, rappresentazione cinematografica della superficialità del postmoderno odierno, che ha perso l’eccellenza elegante degli insegnamenti black and white di un Jean-Luc Godard.

Allo stesso tempo mi chiedo cosa avrà di speciale la mia pseudorecensione sull’ultimo film di Quentin Tarantino, C’era una volta… A Hollywood rispetto alle ventimila che altri blogger, giornalisti appassionati di cinema, non appassionati di cinema and so on stanno scrivendo proprio ora.

Ed ecco che mi viene in mente una genialata: prendere spunto dalla straordinaria striscia di vittorie consecutive che l’atleta più grasso e fuori forma mai visto, chiamato “Butterbean” – per via della dieta a base di fagioli a cui fu sottoposto -, era riuscito ad ottenere a metà degli anni ’90.

Riflettendoci la strategia di Butterbean, il cui vero nome è Eric Esch, era semplice: scegliere avversari scarsi tecnicamente. Rifiutò un match con un Enrico Hoost in grande ascesa, perché fiutò aria di pericolo. Se tu fossi Roger Federer e partecipassi a tornei ATP 250 (ed alcune chicche locali come l’ATP di San Benedetto del Tronto) avresti un win score del 100% e faresti record su record. Così come Butterbean, e un immaginario Roger Federer all’ATP di San Benedetto del Tronto per affrontare qualche sconosciuto ai più (e ai meno), io ho deciso di improntare questa recensione sull’assenza di una vera trama, prendendo le cose alla larga. Un po’ come fa Tarantino con questo film.

Consiglio numero uno: non prendete il titolo alla leggera: C’era una volta e quei tre puntini sospensivi preannunciano una fiaba con qualcosa che andrà storto. Quentin Tarantino fornisce immagini di qualità, sotto trame assolutamente inutili e allo stesso tempo incisive, ma i vari personaggi sono piatti e psicologicamente inconsistenti, quasi ad essere stereotipi. Esempio chiave: Sharon Tate (la vera Sharon Tate) pare essere diventata, durante le ricerche per il film, oggetto di venerazione del regista, incantato da questa bionda figura. Ma nel film Sharon Tate sfocia nella superficialità di un personaggio che non da nulla di originale al mondo delle interpretazioni femminili – che Tarantino in passato ha gestito divinamente; ad esempio due classici: Pulp Fiction e Kill Bill.

Scenari privi di valore di intreccio e/o inutili per la trama centrale (dovesse esserci una, sarebbe difficile da individuare) nelle varie sottotrame anticipano un immediato punto di rottura: la sopracitata “scena Tarantino”: scena sfrenata sanguigna, che, un po’ come in Le iene, avviene improvvisamente e interrompe da uno sfondo comico o comunque rilassato.

Il 70% delle persone presenti in sala non ride alle battute ironiche del film, ma scoppia in grasse risate per, sia pur ironici, splatteristici versamenti di sangue (quasi al limite del ridicolo), per poi chiudere in un non-finale inaspettato. Inaspettato perché non-finale e allo stesso tempo non congruente con le storia della strage della Manson Family che noi conosciamo. Lo stesso Manson probabilmente compare una sola volta nel film e il suo nome è menzionato altrettante volte.

La mia impressione è che questo film sia lo specchio della direzione del cinema avant-garde odierno: trame quasi inesistenti, temi trattati indirettamente, personaggi spazio-psicologicamente poco profondi, narrazioni in terza persona, atmosfera da racconto. Un tipo di cinema che inizialmente colpì, grazie ad un nuovo stile, opposto ai pesanti drammi psicologicamente spessi dei film stile Eyes Wide Shut, Vanilla Sky, Memento, Seven, Elephant e via dicendo. Questo nuovo registro ha raggiunto il culmine con Burn After Reading (dei fratelli Cohen, diventati maestri nello stile): parossistico e ironicissimo omaggio/congedo ai/dai film di spionaggio e azione americani, manifesto della spettacolarità di un film senza trama. Anche Ave Cesare! sembrava un ottimo sviluppo in questa direzione.

Ma se dovesse questa l’unica strada percorsa dal cinema dei grandi autori? Sarebbero guai grossi. E l’insostenibile leggerezza dell’essere comincerebbe a sembrarci tutto a un tratto pesantissima.

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