Eyes Wide Shut: il significato nascosto dell’ultimo Stanley Kubrick

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Questo articolo rivela la spiegazione e i significati di Eyes Wide Shut, il film di Stanley Kubrick del 1999, svelando elementi importanti della trama. Se ne suggerisce dunque la lettura solo ed esclusivamente dopo aver visto il film, e non prima, per evitare di perdervi il gusto della prima visione.

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Stanley Kubrick morì sei giorni dopo aver inviato la cosiddetta “final cut” di Eyes Wide Shut alla Warner Bros. E questo, come sa bene chi conosce il proverbiale perfezionismo di Kubrick, non vuol dire in alcun modo che la versione di Eyes Wide Shut che noi conosciamo sia quella che lo stesso regista avrebbe voluto, né che di fatto quella versione possa essere considerata quella perfetta. Perché due cose sono certe: primo, la Warner applicò diverse modifiche alla versione di Kubrick (c’è chi pensa non abbiano stravolto l’idea originaria, c’è chi si chiede ancora se a Kubrick sarebbe piaciuta); e secondo, per Kubrick semplicemente la versione definitiva non esisteva. La sua ossessiva tendenza alla perfezione lo portava a modificare i suoi film anche a tempo ampiamente scaduto (per 2001: Odissea nello Spazio le ultime modifiche avvennero dopo le prime proiezioni nei cinema). La stessa Nicole Kidman si disse sicura: “Penso che avrebbe continuato a limare il film per i prossimi vent’anni. Stava ancora limando film che aveva fatto decenni prima. Non raggiungeva mai la fine. Non era mai abbastanza perfetto.”

È questo il motivo per cui, accanto alla grande domanda su quale sia il vero significato di Eyes Wide Shut, ne fa spesso capolino un’altra: è questo l’Eyes Wide Shut che Kubrick voleva? La testa di Kubrick aveva iniziato a pensare a questo film dal 1968, anno in cui lesse Doppio Sogno di Arthur Schnitzler, la novella che diede forma al film sulle relazioni tra uomo e donna che voleva fare da anni. Diciotto anni dopo le riprese iniziarono, e batterono il Guinness dei Primati come le più lunghe di sempre: 15 mesi praticamente senza interruzioni. Poi nove mesi a perfezionarne i risultati, fino alla versione inviata alla Warner. Sei giorni dopo, Kubrick muore. Diciamo pure che la possibilità che proprio quella fosse la sua versione perfetta è ai limiti dell’azzardo. E se alla domanda sui significati del film partecipano centinaia di complottisti nel mondo (che sono abbastanza sicuri che sia un film sugli Illuminati, come d’altronde Shining era la confessione del falso sbarco sulla Luna), il dubbio su quanto Kubrick avrebbe davvero apprezzato la versione finale viene anche da illustri colleghi quali David Lynch e Christopher Nolan.

Eyes Wide Shut (Best Scene)

Una famosa massima di Salvador Dalí diceva: “Non avere paura della perfezione: non la raggiungerai mai.” Il perfezionismo è una caratteristica comune dei grandi artisti, e in fondo guai se non fosse così: non ci piacerebbe vedere uno dei nostri miti accontentarsi di una scena, una canzone o una pagina imperfetta, pur di procedere più spediti. Certo, è probabile che Kubrick fosse uno dei casi di perfezionismo peggiori (o dovremmo dire migliori?). L’esempio più celebre è probabilmente la scena di Shining in cui Jack Nicholson si abbandona alla follia e Shelley Duvall indietreggia sulle scale, che Kubrick volle girare così tante volte che il numero esatto appartiene alla leggenda: c’è chi dice 35 volte, c’è chi afferma che hanno avuto luogo 127 ripetizioni. John Baxter, biografo di Kubrick, racconta la cosa nel modo migliore:

“Nei primi ciak, Nicholson fa un’interpretazione regolare, allora Kubrick dice ‘bella, falla di nuovo’. E allora lui la recita in modo stravagante, e poi più stravagante ancora. Poi dopo circa dodici ciak inizia a trattenersi. E Kubrick continua a far ripetere. Così Jack comincia a stancarsi e si mette a fare cose pazzesche, fa le smorfie, ulula, grida. Le scene di pazzia di Jack Nicholson, specialmente quella con l’ascia in mano, sono solitamente quella del 27°, 29° ciak. Ma per ottenerle erano necessarie anche tutte le altre. Non si può dire a un attore, anche bravissimo, “Ciak uno. Ora sei pazzo”. Bisogna farcelo diventare.”

Con Eyes Wide Shut non è andata diversamente: si racconta che una scena in cui Tom Cruise doveva semplicemente camminare attraverso una porta fu girata 95 volte. E non è stato l’unico caso. Nessun attore si permetteva di contraddirne i metodi, anzi, l’esatto opposto: Tom Cruise arrivò a soffrire di ulcera durante le riprese, per le difficoltà nel dare a Kubrick ciò che voleva, ma non ne fece mai parola col regista. Todd Field, che nel film interpreta il pianista amico del personaggio di Tom Cruise, dirà a proposito di Cruise e Kidman: “Non vedrete mai più due attori così completamente obbedienti e prostrati ai piedi del loro regista.”

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Ma il processo di perfezionamento, con Kubrick, non poteva mai arrivare a una conclusione. È per certi versi il fascino del suo stile: le forme, i meccanismi, le interazioni raccontate da Kubrick non sono geometrie che rispettano una regola, ma rappresentano l’emanazione diretta del suo istinto. Istinto che ovviamente continuava a cambiare, e con lui le sorti del film a ogni nuovo rimaneggiamento. Per questo la seconda domanda -se questo è l’Eyes Wide Shut che Kubrick avrebbe voluto- è indirettamente una risposta alla prima, su quale sia il significato del film: Kubrick non ha un significato ben preciso da trasmettere, un contenuto cardine, un messaggio da lanciare. Kubrick semplicemente affronta dei temi che lo infiammano, come nel caso di Eyes Wide Shut sono i rapporti di dominanza della società, il consumismo, l’amore, il tradimento immaginato o reale, la trasgressione, le società segrete e i pericoli di andare oltre. E lo fa abbandonandosi al cuore della sua arte, ossia filmare secondo la sua visione e il suo istinto. Quel che viene fuori, è il film che lui vuole in quel momento. Non perché è quello che fa meglio comprendere il contenuto (tutt’altro: Kubrick aveva più piacere se i contenuti del film restavano nascosti da simbolismi e inganni di ogni tipo), ma perché è quello che meglio rappresenta ciò che lui voleva che lo spettatore vedesse. O perlomeno, come lo sentiva in quel momento.

Poi l’istinto cambiava e i rimaneggiamenti arrivavano, uno dopo l’altro, alla ricerca della versione finale che non sarebbe mai arrivata. Perché in realtà erano tutte versioni finali: prodotti finiti di un’istintività irrimediabilmente mutevole. Tutti perfetti, a modo loro.

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