James Joyce, Ritratto dell’Artista da Giovane: il tema dell’esilio

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Dublino, 1904
Trieste, 1914

Sono queste le ultime due righe del Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce. Due città e due date di un’importanza a dir poco capitale per l’autore irlandese: Dublino, luogo di nascita dello scrittore, Trieste, città nella quale si stabilirà per alcuni anni della propria vita con la compagna prima, moglie poi, Nora Bernacle, e dove inizierà a trovare una discreta serenità esistenziale; 1904, anno dell’inizio dell’esilio volontario di Joyce dall’Irlanda e della stesura del primo germe del Ritratto (il racconto Ritratto dell’artista, scritto per la rivista Dana diretta da F. Ryan e John Eglinton), 1914, anno in cui comincia la pubblicazione della versione definitiva del Ritratto sulla rivista The Egoist, grazie all’entusiasta mediazione di Ezra Pound. In mezzo a queste due date, a questi due luoghi, e a queste due -come vedremo- differenti a dir poco stesure di un’idea ben definita vi sono dieci anni: dieci anni di esilio volontario e auto-imposto dalla propria Dublino e di peregrinazioni per l’Europa, dieci anni di lavoro sul Ritratto, che in questo lasso di tempo passa da essere un racconto breve (Ritratto dell’artista), a essere un romanzo-fiume autobiografico (Stephen Hero) e poi, in definitiva, a essere un romanzo che possiamo considerare come un vero e proprio ponte che collega le due più celebri opere joyciane, Gente di Dublino e Ulisse (Ritratto dell’artista da giovane).

Il Ritratto è probabilmente, per durata e difficoltà di gestazione (in un momento d’ira per la sorte di Gente di Dublino, lo scrittore nel 1911 getta nella stufa il manoscritto, che la sorella Eileen riesce fortunosamente e miracolosamente a salvare dalle fiamme) e per tasso di autobiografismo dei temi trattati, l’opera in cui possiamo davvero entrare nella storia personale del Joyce artista, certo (come suggerisce il titolo), ma anche del Joyce uomo. In quest’opera, il tema dell’esilio è matrice e autore di irradiazione principale: Joyce infatti narra in terza persona il processo che porterà all’esilio auto-imposto da Dublino il suo alter-ego Stephen Dedalus (nome altamente simbolico: Stefano come il santo martire che denunciò la sua stessa comunità e Dedalo come l’architetto della mitologia greca, padre di Icaro). Ed è proprio sul tema dell’esilio nel Ritratto che intendo concentrare la mia analisi, con l’obiettivo di collegare le due varianti di questo tema che troviamo nell’opera: l’esilio come metafora esistenziale e l’esilio fisico vero e proprio; l’esilio del Joyce artista e l’esilio del Joyce uomo. Se infatti l’esilio auto-imposto di Joyce è un dato incontrovertibile e documentato, che poggia su un’insofferenza per l’atmosfera asfittica della Dublino cattolica e nazionalista degli ultimi anni dell’800 e dei primi del ‘900, la mia analisi vuole collegare questa innegabile necessità sociale a un tipo di esilio pienamente artistico ed esistenziale parimenti necessario per lo scrittore, conseguente alla propria evoluzione estetica e al proprio sentimento di estraniamento dal resto della società, e che emerge nel Ritratto dell’artista da giovane.

In questo contesto, dunque, in un periodo storico in cui l’indipendenza del proprio paese fa leva su un differente credo religioso rispetto a quello della madrepatria Inghilterra, cattolicesimo e nazionalismo sono fortemente connessi, ma il Joyce uomo non riesce a inserirsi in questo sistema di pensiero. Lo scrittore nasce in una famiglia profondamente cattolica, di cui lui è il maggiore di ben dieci figli (non deve stupire il numero della prole, tipico e usuale di un paese profondamente cristiano come l’Irlanda), condizione della quale Joyce fornirà una breve ma intensa testimonianza all’interno del Ritratto dell’artista da giovane:

“Tutto ciò che era stato negato ai suoi fratelli, a lui, il più vecchio, era stato concesso in abbondanza; ma il chiarore tranquillo della sera non gli mostrò su quei volti nessun segno di rancore.”

Dunque, in quanto figlio maggiore, lo scrittore era l’unico a cui era stata concessa la possibilità di studiare, a causa delle precarie condizioni economiche della famiglia Joyce: la famiglia, infatti, da rappresentate della middle-upper class dublinese si ritroverà pian piano durante l’adolescenza dello scrittore a sprofondare in situazioni economiche sempre più spiacevoli, fino a costringere il giovane Joyce al ritiro dal prestigioso istituto privato di Clongowes (la storia accademica di Joyce e di Stephen, suo alter ego e protagonista del ritratto, coincidono). Da questo momento iniziamo ad avere una scissione tra la vita della famiglia Joyce, vittima di un sempre più evidente declino (dettato anche dall’alcolismo del padre e ovviamente dai ben dieci figli da mantenere) e quella di James Joyce, che viene ammesso prima all’istituto Belvedere e poi all’University College di Dublino, cementando la propria visione culturale e distanziandosi sempre di più dalla propria famiglia.

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Joyce, dichiaratamente ateo, anche a livello culturale va decisamente contro-corrente rispetto al resto dell’ambiente accademico dublinese: è un acceso sostenitore del teatro di Ibsen, un tipo di teatro espressionista, psicologico e dalla forte carica anti-sociale che certo non poteva essere apprezzato a quel tempo in un universo culturale impregnato di cattolicesimo, nazionalismo e forte volontà di rivolta fisica, diretta (rivolta che il teatro complessivamente nichilista di Ibsen incitava e contemporaneamente svuotava di senso). Inoltre, nel Ritratto dell’artista da giovane, troviamo i segni di una giovanile infatuazione per la poetica di Byron (la cui espressione nel Ritratto esamineremo in seguito) e più in generale del tardo romanticismo e del decadentismo (Joyce stimava incredibilmente William Butler Yeats). Come ci testimonia lo stesso Umberto Eco, tra l’altro, Joyce stimava tantissimo lo stile espressivo dell’esteta nostrano Gabriele D’annunzio, come è altamente ravvisabile nella forma della prosa della prima stesura sotto forma di racconto breve del Ritratto. Ibsen, Byron, Yeats, D’Annunzio, i primi “maestri” di Joyce sono tutti artisti anticonformisti, che criticano il conformarsi alla società comune, se uniamo quest’infatuazione artistica poi alle scelte ateiste contrapposte alla rigida società dublinese del periodo, capiamo bene dove nasca a livello sociale il sentimento di estraniamento di James Joyce.

Questo sentimento sociale troverà il suo apogeo nel 1904, che, come detto, è anno dell’esilio volontario con Nora Bernacle (una cameriera incontrata nella dublinese Nassau Street che diventerà la sua compagna di vita) da Dublino e anche anno della stesura del primo germe del Ritratto dell’artista da giovane. Iniziamo dunque ad incrociare la vita di Joyce uomo con la vita del suo alter-ego Stephen, cercando di capire più a profondo le motivazioni di una scelta così netta come quella dell’esilio.

Religione e nazionalismo sono i due totem contro i quali il protagonista del Ritratto dovrà combattere la propria battaglia di indipendenza esistenziale; più volte infatti nel romanzo lo scrittore ci passa le sensazioni di uno Stephen che non riesce a trovare un proprio posto nelle rivendicazioni nazionaliste irlandesi:

“Finché la sua mente aveva continuato a seguire i fantasmi intangibili o a desistere irresoluta da una simile ricerca, Stephen si era sentito intorno costanti le voci del padre e degli insegnanti, che lo incitavano a essere un gentiluomo sopra tutto il resto e un buon cattolico sopra tutto il resto. Queste voci gli suonavano ormai vacue nelle orecchie. Quando era stata aperta la palestra, aveva sentito un’altra voce incitarlo a essere robusto, virile e sano, e quando il movimento per la rinascita nazionale era cominciato a farsi sentire nel collegio, ancora un’altra voce gli aveva comandato di non venir meno al suo paese e di aiutarlo a rialzar lingua e tradizioni. Nel mondo profano, come prevedeva, una voce mondana gli avrebbe ordinato di risollevare coi suoi sforzi la condizione del padre e intanto la voce dei suoi compagni di scuola lo incitava a essere un compagno come si deve, a coprire gli altri dai rimproveri, a chieder per loro il perdono e a fare del suo meglio per ottenere giornate di vacanza per tutti. Ed era il frastuono di tutte queste voci vacue che lo faceva fermare irresoluto nella sua ricerca di fantasmi. Non prestava orecchio a queste voci che per un momento, ma si sentiva felice soltanto quando ne era lontano, oltre il loro richiamo, solo o in compagnia di amici fantastici.”

Anche con una rapida lettura, è evidente come in questo passo Joyce ci voglia passare il sentimento di estraniamento totale di Stephen dal suo ambiente sociale. La rivolta è contro i padri, come ogni rivolta che si rispetti: il padre fisico, in carne ed ossa, e gli insegnanti, non abbiamo ancora in questo passo dei riferimenti alla religione, nei confronti della quale vi è un percorso parallelo e ugualmente turbolento. Stephen viene descritto come un ragazzo con aria trasognante, lontano dalle voci di chi gli è vicino, voci che vengono percepite come dei rumori privi di significato alcuno. In più la forma dei verbi prevalentemente all’infinito rafforzano l’idea di una distanza e di una sostanziale passività del protagonista del romanzo rispetto ai consigli e alle imposizioni di genitori, amici, insegnanti. Il rapporto col padre, accennato in questo passo, è basilare per la comprensione dell’esilio di Joyce\Stephen. Sappiamo che il padre di Joyce, dopo aver perso il proprio lavoro, inizio ad essere un alcolista, incapace di risollevare la situazione disastrata di una famiglia allo sbando. La figura del padre di Stephen non è dipinta però in una maniera eccessivamente negativa, anzi, viene quasi ignorata: è un personaggio sullo sfondo che compare nei ricordi di infanzia ma non sembra aver avuto una vera influenza (positiva o negativa) sulle sorti del figlio.

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Nonostante ciò, uno dei momenti di maggiore consapevolezza del proprio estraniamento da parte di Stephen si ha proprio in corrispondenza della vista di un brindisi al tavolo di un bar da parte di suo padre e di un paio di suoi vecchi amici d’infanzia:

“Stephen vide i tre bicchieri alzarsi dal banco, mentre suo padre e i due vecchi amici bevevano alla memoria del loro passato. Un abisso di fortuna e di temperamento lo divideva da loro. La sua mente pareva più vecchia della loro: brillava di un freddo splendore sulle loro lotte, sulle felicità e sui rimpianti, come una luna sopra una terra più giovane. In lui non si agitavano la vita e la giovinezza che si erano agitate in quelli. Non aveva conosciuto né il piacere delle amicizie né il vigore della salute maschia e violenta né la pietà filiale. Nulla si muoveva nella sua anima tranne una libidine fredda, crudele e senza amore. La sua infanzia era morta o perduta e, con essa, l’anima capace di semplici gioie, ed egli errava abbandonato a caso per la vita, come il guscio sterile della luna.

Sei pallida dalla stanchezza

di scalare il cielo e contemplare la terra

errante solitaria?…

Ripeteva a se steso questi versi del frammento di Shelley. Quella vicenda di triste inutilità e di immani cicli di attività lo gelò e gli fece dimenticare i suoi inutili tormenti umani.”

Stephen non è come gli altri, questo è detto esplicitamente: è fuori dalla società e in senso più profondo è fuori anche dallo stereotipo di una figura maschia e autoritaria in cui si riesce a incasellare e in rapporto alla quale non ha costruito la propria crescita personale. Contrapposta alla vita degli altri, alla vita che avrebbe voluto vivere, vi è quindi il ricordo di un frammento di Percy Shelley, di un poeta romantico, dunque dell’estrazione ed etereità dell’arte nei confronti di un mondo per il quale non si vuole vivere e non si vuole combattere. La fuga, l’esilio, può essere la sola risposta.

L’estraneità di Stephen non si manifesta solo però come già detto in precedenza nel rapporto col padre, ma anche e forse soprattutto nella relazione con i suoi compagni di corso nell’arco della propria carriera scolastica prima, accademica poi. Uno dei pochi momenti di luce e di aggregazione presente nel libro corrisponde al riconoscimento da parte del preside di Clongowes delle angherie subite da Stephen dallo spregevole padre Dolan; all’uscita dall’ufficio del preside Stephen si ritrova acclamato trionfalmente dai propri compagni, entusiasti del coraggio del giovane protagonista. Il capitolo però si chiude, attraverso un procedimento dialettico che troviamo a più livelli nella struttura del romanzo, con un riconoscimento di alienazione dagli altri, nonostante la vittoria morale appena conquistata:

“Gli applausi morirono nella soffice aria grigia. Stephen era solo. Era libero e felice. […]. I compagni provavan palle lunghe, palle al volo e palle in curva. Nel soffice silenzio grigio poteva sentire il tonfo delle palle: e da ogni parte nell’aria calma, il colpo delle mazzette da cricket: tic, toc, tac, tuc: piccole gocce d’acqua in una fontana, che lentamente cadevano nella vaschetta piena.”

Il momento però sicuramente più aspro di questo conflitto tra il protagonista e i suoi coetanei coincide con l’università, quando tutti i compagni di Stephen si schierano per la causa indipendentista e organizzano delle riunioni nell’ottica di atti rivoluzionari contro il governo inglese. I compagni di Stephen rivendicano la propria identità di irlandesi, e non di inglesi, ed è proprio in questo che differiscono con il protagonista, che non si sente in realtà né irlandese né inglese, ma cittadino del mondo.

La lontananza di Stephen non si manifesta però solamente rispetto al rivendicazioni indipendentiste dei suoi conterranei, ma anche e forse soprattutto nella sua estraneità rispetto al sistema religioso cattolico irlandese. Si inizia con la diatriba presente nel primo capitolo tra il padre di Stephen e sua zia Dante (il cui nome non può essere un caso tenendo conto dell’alto valore ermeneutico che Joyce dà ai nomi dei protagonisti dei suoi libri, da Leopold Bloom allo stesso Stephen Dedalus). Lo scontro è tra una visione laica e progressista del rapporto tra Stato e Chiesa (affidata al padre del protagonista) e una visione che vede uno stretto connubio tra il potere spirituale e quello temporale (affidata alla zia Dante, il cui nome quindi potrebbe richiamare la visione dell’autore della Commedia, espressa nella Monarchia, circa la necessità come unica forma di potere giusto possibile sulla terra, di un impero che si basi sulla forza unificatrice della cristianità):

“Niente Dio per l’Irlanda”, gridò, “ne abbiamo avuto abbastanza di Dio!”

“Bestemmiatore! Demonio!” strillò Dante, balzando in piedi e quasi sputandogli in faccia.

Il giovane Stephen ci viene ritratto come distante rispetto al duro battibecco tra le due opposte visioni politiche: Joyce è abilissimo a fornirci un ritratto in terza persona che però entra straordinariamente nella soggettività del protagonista, che assiste impotente a una lite in cui non riesce a trovare un senso alcuno. Sono questi insomma i primi germi dell’estraneità di Stephen rispetto ai valori del cattolicesimo, estraneità dolorosa che lo porterà attraverso un lungo percorso di pentimento e di perdono al famoso non serviam dell’ultimo capitolo, in cui esporrà al fidato amico Cranly l’impossibilità del continuare a servire messa, andando così contro il volere della madre:

“Mi hai domandato quel che farei e quel che non farei. Ti voglio dirò quello che farò e quello che non farò. Non servirò ciò in cui non credo più, si chiami questa la casa, la patria o la Chiesa: e tenterò di esprimere me stesso in un qualche modo di vita o di arte, quanto più potrò liberamente e integralmente, adoperando per difendermi le sole armi che mi concedo di usare: il silenzi, l’esilio e l’astuzia.”

Prima del non serviam, però, come detto, Stephen affronta un lungo percorso che è giusto analizzare passo dopo passo. Partiamo dal presupposto che nell’orizzonte di Stephen non può esistere la concezione di un potere laico, in quanto tutti gli istituti in cui viene mandato a studiare sono retti dai gesuiti. Il primo incontro violento con la religione, con il versante punitivo di essa, si ha con l’ingiusta punizione di padre Dolan, che lo prende a bacchettate accusandolo di scarsa attenzione (Stephen non vedeva in quanto privo dei suoi occhiali da vista): la religione si configura dunque fin da subito più che come fede come dottrina educativa, come codice di valori da seguire, pena la punizione. La visione di Dio di Stephen infatti, è più vicina al Vecchio Testamento che all’interpretazione cristiana: Dio potente e spaventoso e il perdono assume i contorni di una grazia di entità indescrivibile. Su questo rapporto legge-punizione si innesterà poi con la crescita anche l’erotismo del protagonista che, in un momento di furia ormonale dettata dalla castità, andrà con una prostituta.

Al momento di liberazione sessuale e psicologica, coincide subito il momento della punizione e del pentimento: il terzo capitolo ruota praticamente interamente intorno all’immenso sermone del prete, che mette in guardia l’uditorio dai peccati carnali. Fede contro sessualità, grazia contro punizione, paradiso contro Inferno: questo è forse il momento più difficile della vita di Stephen, in cui il protagonista, distrutto dai sensi di colpa, decide di uniformarsi alla società e di seguire pedissequamente i dettami del cattolicesimo. In realtà , nonostante Joyce nelle sue lettere allontani qualsiasi interpretazione di tipo psicologica, la scelta religiosa non appare a questo livello semplicemente una temporanea “sconfitta” dell’artista, nell’ambito di un ipotetico racconto di formazione, ma appare come una vera e propria via di fuga alternativa alla scelta dell’esilio. La visione religiosa del Paradiso come porto sicuro delle anime immortali dopo la morte, ha infatti in sé come contraltare la percezione di una terra intesa come luogo dell’esilio fisico del corpo dall’anima, dell’uomo da Dio; dunque la carriera pastorale che a un certo punto Stephen sembra davvero indirizzato a intraprendere assume le sembianze di una possibilità altra di fuga da un mondo sentito non proprio, in un senso assoluto.

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Ed è qui che diventa evidente l’estraneità del protagonista rispetto al sistema di valori cattolico-irlandese, e al peso che questa contingenza ha nelle proprie scelte: a Stephen viene infatti offerto un futuro nella carriera pastorale, ma lui rifiuta, scegliendo la carriera intellettuale e artistica, scegliendo quindi automaticamente (come chiariremo in seguito) di diventare un esule: a un senso di estraniamento assoluto ed esistenziale (che approfondiremo in seguito) si innesta dunque una non sopportazione palpabile per l’universo di valori cattolico-nazionalista irlandese; in altri termini, nonostante Stephen ammetta di non poter giurare sulla non esistenza di Dio a Cranly (“Ed è per questo che non ti vuoi comunicare” chiese Cranly “perché neanche di questo sei sicuro, perché senti che l’ostia può anche essere il corpo e il sangue del figlio di Dio e non un disco di pane? Perché hai paura che sia vero?”. “Sì” disse Stephen tranquillo, “è questo che sento e che mi fa paura.”), egli è sostanzialmente avverso al sistema dottrinale irlandese e dunque non può conformarsi in alcun modo a esso.

A questo punto, dopo aver ripercorso i motivi sociali e potremmo dire psicologici che portano Stephen al non serviam e all’esilio auto-imposto dalla propria Dublino, possiamo tornare alle motivazioni intrinseche dell’esilio auto-imposto dell’autore del romanzo. Per quanto infatti Joyce ci tenesse a non far trapelare nessun tipo di autobiografismo nella vicenda di Stephen, è davvero difficile non collegare il sentimento di estraneità dal nazionalismo irlandese e dalla religione del protagonista a quello dello stesso autore. Tornando per l’appunto al 1904, anno della partenza di Joyce e Nora Bernacle, non abbiamo ancora descritto un momento di qualche mese precedente la partenza che forse potrebbe essere davvero lo strappo decisivo che portò Joyce all’esilio. Stiamo parlando della morte della propria madre: sul letto di morte la madre, preoccupata per l’empietà del figlio, gli chiede di confessarsi e di fare la comunione, cosa che Joyce rifiuterà, così come rifiuterà di inginocchiarsi e pregare coi suoi parenti al capezzale della madre morta. Pochi mesi dopo Joyce partirà per l’esilio con la compagna Nora Bernacle: Trieste (dove alla Berlitz School avrà l’opportunità di conoscere Italo Svevo), Parigi, Roma, Padova e soprattutto Zurigo. Joyce non tornerà, se non per delle rapide visite, nella sua città natale.

Joyce vivrà quindi a distanza e con una certa indifferenza tutto il travagliato periodo storico dell’indipendenza irlandese, lo sentirà come una vicenda non sua, essendo lui un esule senza patria.

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Il Joyce uomo dunque sente il bisogno di distaccarsi da un’asfittica Dublino bigotta, cattolica e nazionalista per trovare la propria identità di uomo di cultura estraneo alla rivendicazioni indipendentiste della propria patria. Il punto è che il motivo dell’esilio auto-imposto non può essere solo questo. Joyce infatti non fugge dalla propria patria per trovare un’altra identità legata un altro ideale di nazione o a un altro sistema di valori: Joyce fugge da Dublino diventando un esule, un senza patria, dunque Dublino assurgerebbe a simbolo del mondo di cui l’artista non può più fare parte.

Dunque in quest’ottica l’esilio da Dublino non sarebbe dettato da una vera insofferenza di Joyce nei confronti del sistema di valori cattolico-nazionalista, ma sarebbe solo un’occasione contingente per fuggire da una società che non rispetta più il valore funzionale dell’artista per la società: l’artista parte per l’esilio volontario perché non c’è più un vero posto per lui in una Dublino che non è altro se non un simbolo del mondo intero. Ed è qui che si uniscono la parte sociale dell’esilio artistico e la parte esistenziale dello stesso esilio, in quanto esso diventa condizione necessaria per l’evoluzione della forma d’arte dello scrittore. All’interno del quarto capitolo, infatti, abbiamo forse la parte più importante a livello di significato di tutto il Ritratto, ovvero la dichiarazione di poetica estetica di Stephen, contenente la tripartizione di memoria hegeliana delle arti:

“La lirica è di fatto il più semplice rivestimento verbale di un attimo di emozione, un grido ritmico quale, secoli fa, servì a incitare l’uomo che manovrava un remo o trascinava pietre su per un pendìo. Chi emette questo grido è più conscio dell’attimo di emozione che non di se stesso in quanto provi un’emozione. La forma epica più semplice la si vede emergere dalla letteratura lirica, quando l’artista prolunga e rimugina se stesso come centro di un avvenimento epico, e questa forma progredisce finché il centro di gravità emozionale si trova equidistante dall’artista e dagli altri. La narrazione non è più soltanto personal, la personalità dell’artista passa nel racconto stesso, scorrendo tutto intorno alle figure e all’azione come un mare vitale. […]. Si raggiunge la forma drammatica quando la vitalità, che è passata vorticosa intorno a ogni personaggio, riempie ciascuno di questi personaggi con una tal forza vitale che l’uomo o la donna, secondo i casi, assumono una vita estetica propria ed intangibile. La personalità dell’artista, dapprima un grido, una cadenza o uno stato d’animo, poi una una narrazione fluida ed esterna, si sottilizza alla fine fino a sparire, s’impersona, per dire così. L’immagine estetica nella forma drammatica è la vita, purificata nell’immaginazione umana e da questa tornata a proiettar fuori.”

Quindi la forma d’arte più alta secondo Stephen sarebbe quella drammatica, sarebbe quella in cui lo scrittore è capace di scomparire, apparentemente, impersonandosi nel mondo creato dalla propria mente. E questa è esattamente l’obiettivo stilistico a cui il Joyce autore vuole tendere nell’ultima stesura del sua Ritratto dell’artista da giovane: il raggiungere una forma drammatica non più epos quotidiano e autocritico (come era Stephen Hero) ma proiezione della vita nella sua interezza filtrata attraverso l’immaginazione dell’autore, che si annulla in personalità individuale e idiosincratica nel momento stesso in cui ricrea la propria opera. Per raggiungere un simile livello stilistico, l’autore deve scomparire dietro la propria opera, per ricreare dunque in forma drammatica la propria vita, l’uomo deve quindi esiliarsi dall’ambiente descritto: la forma d’arte drammatica necessita del distanziamento, necessità della fuga da Dublino, l’esilio dunque diventa condizione esistenziale basilare per la produzione di un romanzo come il Ritratto.

Questa intrinseca ed esistenziale necessità del Joyce artista è testimoniata interamente dal percorso di revisioni, cambiamenti e distruzioni del Ritratto dell’artista da giovane, un romanzo che, come detto in introduzione, nella sua lavorazione attraversa pienamente i dieci anni più burrascosi della vita di Joyce (dal 1904, data della fuga da Dublino, al 1914, anno appunto della prima pubblicazione del romanzo e dunque dell’inizio di un riconoscimento artistico da parte della società critica intellettuale dell’epoca).

Si parte dal Ritratto dell’artista, saggio narrativo pubblicato nel gennaio del 1904 per l’ambiziosa rivista Dana, progetto che doveva costruire un nuovo punto di partenza per la letteratura irlandese. I modelli di questa prosa joyciana sono chiari: sicuramente William Butler Yeats, ma anche il D’annunzio del Fuoco, che sappiamo essere stata decisiva per Joyce grazie alle testimonianze del fratello Stanislaus; affinità tra l’altro evidenti se si prende in disamina anche solo un breve frammento del saggio:

“Il nostro mondo si riconosce soprattutto in base a caratteristiche quali la barba e l’altezza e, nella maggior parte dei casi, si estrania da quei suoi componenti che cercano, mediante una qualche arte, un qualche processo mentale non ancora classificato, di liberare da questi agglomerati di materia che sono le persone ciò che ne costituisce il ritmo individualizzante, il rapporto primario o formale delle parti componenti. Per costoro un ritratto non è una carta d’identità ma piuttosto il diagramma di un’emozione.”

Vi è insomma nel primo Joyce una visione estetizzante, assoluta e salvifica dell’arte che lo accomuna decisamente all’estetismo europeo. Quello che lo allontana da un D’annunzio, e che sarà poi la spinta principale per l’evoluzione della proprio visione artistica, è la tendenza sociale dello scrittore irlandese, che si palesa nelle accuse verso la paralisi intellettuale dell’Irlanda e nell’impegno, espresso nelle righe finali del saggio, verso la liberazione intellettuale, economica e sociale delle masse:

“Uomo e donna, da voi nasce la nazione a venire, il fulmine generato dalle vostre masse nel travaglio del parto; l’ordine concorrenziale si ritorce su se stesso, le aristocrazie sono soppiantate; e nella paralisi generale di una società impazzita, la volontà confederata entra in azione.”

La paralisi di una società impazzita è quella che lo scrittore irlandese ha esacerbato nella sua prima opera di grande importanza, Gente di Dublino. Essa è importante nei confronti dell’evoluzione del Ritratto dell’artista da giovane perché mette in evidenza l’evoluzione della poetica estetica dell’autore: se in Gente di Dublino abbiamo infatti come tecnica caratteristica la celeberrima epifania, nella versione definitiva del Ritratto abbiamo “una nuova forma in cui il poeta non coglie un momento privilegiato della realtà, bensì costruisce la realtà e le conferisce significato, delineandola sotto forma di esperienza fantastica esemplare” (Umberto Eco).

Per dare una definizione di epifania, ci basiamo su quella data dallo stesso Joyce nel capitolo XXV di Stephen Hero:

“Per epifania intendeva… un’improvvisa manifestazione spirituale, o in un discorso o in un gesto o in un giro di pensieri, degno di essere ricordato. Stimava cosa degna per un uomo di lettere registrare queste epifanie con estrema cura, considerando che erano attimi assai delicati ed evanescenti”

L’epifania non è dunque concepita da Joyce come un nucleo drammatico narrativo, ma come oggetto statico da contemplare nella sua compiutezza ed autosufficienza: l’epifania non si può prestare alla forma epica o alla forma drammatica (secondo la visione estetica citata dal Ritratto dell’artista da giovane) in quanto non contiene un’evoluzione spazio temporale, una riflessione; l’epifania può solo rappresentare un momento di paralisi, di stasi, e dunque di arte lirica, in cui la soggettività è ancora evidente.

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La Berlitz School di Trieste, dove Joyce era insegnante di inglese di Italo Svevo

In quest’ottica Gente di Dublino sarebbe la lirica che cerca di andare verso l’epica (e infatti la forma usata è quella del racconto e la caratteristica stilistica principale è l’epifania) e la versione definitiva del Ritratto sarebbe il tentato raggiungimento della forma d’arte drammatica, un’opera compiuta e autosufficiente fissata in uno spazio essenzialmente estetico (la scelta del titolo non è un caso), liberato da quei punti delle versioni precedenti in cui l’identificazione tra autore e personaggio fosse troppo ovvia sulla pagina, facendo in modo che, come enuncia lo stesso Stephen Dedalus:

“L’artista, come il Dio della creazione, rimane dentro o dietro o al di là o al disopra dell’opera sua, invisibile, sottilizzato fino a sparire, indifferente, occupato a curarsi le unghie.”

Tra l’epifania e il riconoscimento della paralisi lancinante della propria Dublino, che spinge Joyce a partire per l’esilio volontario (di fatto facendo quello che viene negato ai protagonisti dei racconti di Gente di Dublino) e lo sguardo retrospettivo e riflessivo su se stesso della versione matura del Ritratto (al cui titolo, rispetto alla prima versione del 1904, viene aggiunto da giovane, proprio per palesare la natura esplorativa dell’opera, tesa ad analizzare lo sviluppo di un’evoluzione, ricercando di fatto l’io passato nell’io presente), c’è Stephen Hero, che è appunto, a confermare la tesi dell’evoluzione estetica parallela a quella personale, una raccolta di frammenti in cui il procedimento dell’epifania ancora forza la forma omogenea cercata dall’autore, rivelando continui scompensi stilistici. La stessa lunghezza prevista per il libro (forse addirittura duemila pagine) era infatti progettata per una finalità di “minuta registrazione dell’insignificante quotidiano, che avrebbe acquistato senso e importanza proprio dal suo accumulo, percorso da lampi epifanici, ricostruendo il ritratto interiore del protagonista attraverso la rappresentazione della sequenza fluida dei suoi presenti passati” (Giorgio Melchiorri).

Ed è proprio per questa ricerca di, citando Diego Angeli, “un’unità stilistica che non sia già uniformità, piattezza, monotonia, ma al contrario variare di moduli espressivi all’interno di una visione e organizzazione strutturale unitaria e coerente in ciascuna delle sue parti”, che Joyce ritorna così tante volte su di uno stesso progetto. Questa ostinazione del Joyce artista non si può separare dall’ostinazione del Joyce uomo: la ricerca di un ordine e di una forma dei frammenti della propria vita, analizzati da uno sguardo che si vuole il più obiettivo ed esterno possibile, non può essere slegata dalla ricerca di una propria identità, come artista, certo, ma forse, in un senso ancora più profondo, come uomo. L’esilio è condizione necessaria per portare avanti queste parallele ricerche di forma e identità. L’esilio è l’unico modo in cui Joyce può guardare il se stesso paralizzato nella Dublino primonovecentesca, ingabbiata nelle ferree logiche del cristianesimo gesuitico e del nazionalismo indipendentista, ricercando il perché della propria fuga (e forse soprattutto di quella mancata preghiera sul letto di morte della madre). L’esilio è altresì l’unica modalità in cui l’artista può raggiungere quel distanziamento necessario all’arte drammatica, l’unico modo in cui l’artista Joyce può essere soddisfatto della propria opera d’arte.

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