Il femminismo antiborghese di Ibsen in Casa di Bambola e in Spettri

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Henrik Ibsen è il padre del dramma moderno, il primo drammaturgo che è riuscito a rappresentare la caduta dei valori e degli ideali tipica della contemporaneità. La sua grandezza è ben rappresentata dai diversi modi in cui le sue opere sono state messe in scena nel corso del Novecento: si passa dalle interpretazioni di Eleonora Duse alle messe in scena espressionistiche, passando per il teatro naturalistico di Antoine; insomma a prescindere dalle diverse espressioni, tutti, ma proprio tutti si riescono a rispecchiare nei messaggi dell’autore norvegese.

In questo articolo però voglio concentrarmi in particolare sulla forte carica femminista e antiborghese di due opere in particolare: Casa di Bambola (1879) e Spettri (1881). Entrambe le opere hanno come ambiente il classico salotto borghese e come sistema sociale di riferimento la famiglia.

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Eleonora Duse interpreta Nora in Casa di Bambola

In questo spazio chiuso sia fisicamente che psicologicamente, esplodono le pulsioni e le nevrosi dei protagonisti, causate basilarmente da un’insofferenza verso il sistema sociale precostituito. Le due protagoniste dei due drammi sono rispettivamente Nora e la signora Alving: la prima cerca di salvare il proprio matrimonio con Helmer, a rischio per un prestito illecito che la donna aveva contratto per salvargli la vita; la seconda invece vive gli spettri della memoria esplicitarsi nella malattia mentale del figlio Osvald, che deriverebbe dalla sifilide ereditata dal padre, un uomo che ha sempre goduto di un’ottima reputazione ma che in realtà  ha vissuto una vita dissoluta, della cui gravità paga ora il figlio.

In entrambe le opere Ibsen fornendo un dettagliato e impeccabile ritratto della logica e della mentalità borghesi, sferra un velato attacco al sistema sociale borghese stesso, minando tutte le certezze su cui esso si fonda tramite un’arma rivoluzionaria: il femminismo. Analizziamo dunque come l’autore distrugge I pilastri della società (citando un altro suo dramma), uno per uno.


Il matrimonio

L’unione coniugale è la prima imputata sul tavolo. In Spettri il pastore Manders (portavoce degli ideali borghesi) raccomanda la signora Alving di rispettare i giusti ideali, afferma che la donna ha fatto bene a nascondere le nefandezze del marito pur di tener saldo il matrimonio, perché questo e solo questo è il compito di una donna, che prima di essere una persona è una moglie e una madre.

Manders: “Ma una moglie non deve erigersi a giudice del marito. Lei sarebbe stata tenuta a portare umilmente la croce che una volontà superiore ha creduto bene di affidarle”.

Agli ideali del matrimonio, la signora Alving però contrappone la verità e i suoi diritti, lei è una donna che “osa” giudicare il marito e che ribalta dunque totalmente le convenzioni sociali vigenti.

Manders: “Non sente nel suo cuore di madre una voce che le vieta di insozzare gli ideali di suo figlio?”
Alving: “E i diritti della verità?”
Manders: “E i diritti degli ideali?”

L’attacco più pesante sferrato all’unione matrimoniale vi è però in Casa di Bambola. Nora per salvare il proprio matrimonio ricorre a sotterfugi, cerca in ogni modo di riparare all’errore commesso e quando si vede persa, prova ad allontanare il momento del giudizio come può; esso però alla fine arriva e la reazione di Helmer è la peggiore possibile; poi però l’uomo scopre che in realtà tutto si è aggiustato grazie all’intervento dell’amica signora Linde e chiede a Nora di tornare alla vita di sempre. Nora, però, non può più farlo.

Ella ormai vede tutto chiaramente: fino a quel momento è stata una bambola in una casa di bambole, il marito ha giocato con lei come precedentemente ha fatto suo padre (“La mia vita! Con mio padre, una bambola-figlia; con te una bambola-moglie”): è stata un oggetto non capace di giudizio, la “lodoletta” tutta intenta alla cura dei figli e della casa. Questo tipo di unione, dopo la presa di coscienza, non è più possibile: la donna rompe tutti i sacri doveri che le sono imposti dalla società per affermare la propria individualità, il proprio Io, slegato dalle proprie figure di moglie e di madre.

Nora: “Che intendi per sacri doveri?”
Helmer: “E debbo dirtelo io? Quelli che hai verso tuo marito e i tuoi figli.”
Nora: “Ne ho altri non meno sacri.”
Helmer:”Non è vero. Di quali doveri parli?”
Nora: “Dei doveri verso me stessa.”
Helmer: “Prima d’ogni altra cosa, tu sei sposa e madre.”
Nora: “Non credo più a questi miti. Credo di essere anzitutto un essere umano, come lo sei tu… o che almeno devo sforzarmi di diventarlo. So che la maggioranza degli uomini ti darà ragione, e che anche nei libri deve esserci scritto che hai ragione. Ma io non posso più ascoltare gli uomini, né badare a ciò che è scritto sui libri. Ho bisogno di idee mie e di provare a vederci chiaro.”

Nora allora se ne va da quella casa, da quel salotto borghese ormai imploso in se stesso; tornerà in quel luogo solo quando sarà possibile una vera unione, basata sull’uguaglianza dei diritti, sull’annullamento dei ruoli sociali.

Ma precedentemente Ibsen aveva mosso la sua critica al matrimonio anche attraverso il personaggio della signora Linde: la donna infatti alla fine della pièces chiede a Krogstad di sposarla non per veri sentimenti, ma solo perché senza una famiglia da accudire ella vede vanificato il proprio lavoro giornaliero (“Suvvia, Krogstad, dia uno scopo al mio lavoro!”): una donna si può sentire realizzata solo attraverso il proprio ruolo sociale di moglie e madre.


Il lavoro

Esso emerge forse come pilastro ancor più importante del matrimonio: nella società borghese è il lavoro che rende liberi (la raccapricciante citazione è voluta), è il lavoro che porta denaro, e dunque quella rispettabilità sociale di cui parleremo tra poco.

In Spettri Osvald cade in depressione anche perché la sua malattia gli rende impossibile lavorare, ed egli non vede nessuna differenza tra il lavorare e la gioia di vivere: la felicità insomma esiste solo subordinata al capitale conquistato. In maniera più larga, come afferma il pastore Manders:

“Cercare la felicità in questa vita non è altro che un atteggiamento di rivolta dello spirito. Noi uomini non abbiamo alcun diritto alla felicità. Dobbiamo soltanto compiere il nostro dovere.”

Nella società borghese non solo la felicità è subordinato al lavoro, ma tutto ha un proprio prezzo d’acquisito, persino la dote di Nora (“Quel denaro aveva segnato il prezzo d’un acquisto, il mio!”), persino la dignità: il denaro, sporco o pulito è comunque basilare. Nora capovolge interamente questa concezione  con i fatti: non trattiene il capitale del marito morto, ma lo dona per la costruzione di un asilo nido (che simbolicamente verrà distrutto in un incendio); vanifica così, di fatto, tutto il lavoro fatto dal consorte durante la sua vita, spogliando il denaro di qualsiasi peso. Allo steso modo la donna circa la malattia del figlio Osvald non è toccata per niente dalla sua incapacità di lavorare, ella è solo interessata alla sua salute, slegata da ogni concezione materialistica.

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Bozzetto di Edvard Munch per la messa in scena di Spettri

In Casa di Bambola il lavoro dà stabilità sociale, permette finalmente di avere una bella vita: il capitale apparentemente sembra essere l’unico elemento che può far toccare la felicità all’essere umano. Il denaro è anche oggettivato però come prestito, come debito, come subordinazione sociale: è il denaro che dà il potere a una persona di sopraffarne un’altra, nient’altro, questo viene rappresentato molto bene dalla dipendenza totale di Nora a Korgstad, ma anche dalla maniacalità nel non contrarre alcun tipo di debito di Helmer (“Non voglio né debiti, né prestiti. Si  diventa schiavo degli altri”).

Nell’epilogo però Nora, abbandonando il nucleo familiare lascia anche il capitale accumulato dal marito, lascia quella vita che era diventata apparentemente perfetta per cercare la propria persona: di fatto impone tutto un altro tipo di felicità, tutto un altro tipo di realizzazione personale, che perde ogni rapporto di subordinazione rispetto al lavoro e al conseguente denaro.


La rispettabilità sociale

In Spettri forse è proprio la rispettabilità sociale il pilastro contro cui il femminismo della signora Alving scaglia più di tutti la propria forza disintegratrice. Andiamo per ordine. Prima di tutto, nella sua ricerca spasmodica della verità, la donna esplica al pastore Menders la vita dissoluta del marito morto: per bocca della donna dunque Ibsen mostra l’ipocrisia della classe borghese, mostra gli scheletri nell’armadio nascosti da quella apparente rispettabilità di facciata. Ma il massimo attacco della donna è sferrato nel momento in cui confessa al figlio che Regine, la serva di casa di cui egli è innamorato, è in realtà sua sorellastra, in quanto frutto del rapporto occasionale del padre con un’altra donna: la rivoluzione sta però nel fatto che la signora Alving non si opporrebbe a una loro unione. Dunque la donna mette la felicità davanti a ogni tipo di legge sociale, disintegra i criteri di rispettabilità, rompe le catene della borghesia per cercare nuovi valori che non leghino le persone, ma che le facciano sentire libere, perché la libertà è il presupposto fondamentale della felicità.

Di contro negli stessi Spettri, il pastore Manders abbandona il proprio posto di lavoro per “il rispetto dell’opinione pubblica”, ovvero per la paura di essere incolpato per l’incendio che ha distrutto l’asilo nido.

Anche in Casa di Bambola ovviamente Nora svela le trame sottostanti la rispettabilità sociale: dietro il grande capitale acquisito dal marito, dietro la posizione di rilievo assunta ora a lavoro, si cela in realtà un prestito illegale. Ma col suo abbandono del nucleo familiare la donna va anche contro ogni logica di rispettabilità sociale: ella sarà di fatto una donna perduta di vittoriana memoria, senza denaro e senza famiglia, e dunque non rispettabile; ma la felicità è un’altra cosa.

Le catene della società impediscono anche qui inoltre la vera felicità degli esseri umani in quanto il dottor Rank, segretamente innamorato di Nora, rivela alla dona la propria passione solo in punto di morte: il rispetto dell’amicizia verso Helmer gli ha regalato una vita infelice, egli è stato costretto giorno dopo giorno a stare accanto alla donna amata, senza poter in alcun modo modificare la propria situazione.

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Casa di bambola al Teatro Reale di Copenaghen nel 1879

Il femminismo di Ibsen è dunque molto più largo della concezione più bassa e comune del termine: il femminismo nel drammaturgo è un’arma attraverso cui si possono rompere le catene imposte dal sistema sociale borghese. Attraverso l’annullamento del dualismo di genere si annullano i mistificanti ruoli sociali e si annulla anche la concezione tutta borghese del lavoro come unica chiave per la felicità. A più di cento anni di distanza la lezione di Ibsen è ancora incredibilmente moderna e ci insegna a guardare criticamente il nostro mondo: siamo sicuri che la condizione della donna sia veramente migliorata? Le disparità salariali e le recenti bombe mediatiche derivate da casi di molestie sul lavoro sembrano rispondere negativamente a questa domanda.

E infatti Ibsen tramite la signora Alving ci tiene a passarci proprio questo messaggio:

“E io credo, o sospetto, che tutti siamo degli spettri, pastore. In noi rivive non solo ciò che abbiamo ereditato dal padre e dalla madre, ma tutto un complesso di vecchie idee morte, di credenze superate e via dicendo. […]. Io credo che il mondo sia pieno di spettri, nascosti dappertutto, fitti come granelli di sabbia. Ed ecco perché tutti abbiamo  una paura così terribile della luce.”

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