A Single Man: un film che è una lezione sulla vita

L’idea di base di uno dei più grandi stilisti viventi, che con le sue mise ha sempre strizzato un occhio al cinema (gli abiti degli ultimi tre Bond sono curati da lui in persona), parte dal romanzo di Christopher Isherwood ed il suo Un uomo solo ed attraversa un giorno della vita del professore inglese George Falconer, interpretato da un attore dei più appartenenti a quello stile puro ed indiscusso così tanto in disuso in questi anni: Colin Firth.

I primi anni Sessanta, così sognanti e pieni di quell’aura di magia, vengono rappresentati con una fotografia pastello che tanto si abbina all’aria californiana e che per i più attenti risulterà più intensa di colore nel momento in cui George attraversa momenti di vulnerabilità emotiva, così da creare una empatia particolare con lo spettatore, quasi a trasmettergliela in prima persona. E così, sotto uno strato di agii e vestiti costosi, si nasconde un profondo dolore per la perdita dell’amato compagno, che si annida nelle piccole cose quotidiane come una musica proveniente da un giradischi, o la semplice brezza che la costa californiana offre.

Quella di George, è una storia che l’esordiente regista Tom Ford ricostruisce con molta attenzione ai dettagli, attraverso echi emozionali a volte disgiunti dal racconto. Come sfondo la West-Coast. che il regista di Austin fa sembrare molto pittoresca, in barba alla imminente crisi missilistica tra Stati Uniti e Cuba che avrebbe ossessionato l’intera comunità facendo riaffiorare echi di Maccartismo, e che lui guarda con incanto e nostalgia, anche attraverso locandine cinematografiche (vedi Psycho) e numerosi filtri, ricordando David Lynch e le sue visioni oniriche.

Chiaramente il professore è un personaggio che rappresenta un’epoca passata, con i suoi modi non molto “americani”, ed ha una enorme difficoltà a rapportarsi con il mondo esterno, che oramai gli pare avulso e privo di significato, ponderando di finire la propria esistenza. Nonostante abbia comunque dalla sua parte la sua amica più cara Charlotte, interpretata da una delle migliori amiche del regista/stilista, Julianne Moore, che definire fascinosa ed affabulatoria non basterebbe per descriverla nel suo charme. Lei prova in tutti i modi, con guise quasi materne, a trattenere George dal fare gesti insani, con siparietti pregni di un grandissimo stile, dalla scelta del gin alla musica (l’incontro tra i due amici si scalda sulle note di Etta James e la sua Stormy Weather e Green Onions di Booker T. & The Mg’s), alle sigarette Nat Sherman che la Moore consuma avidamente e che sono le stesse di quel sogno di piccola parigina di Eva Green in The Dreamers.

Così l’intero universo di percezioni umane si crogiola nella sua perfezione e nella sua ossessiva ricerca dei dettagli, con una estetica ineccepibile che i primissimi piani valorizzano e spiano. Come James Joyce ed il suo amato personaggio dell’Ulisse Leopold Bloom, la cui giornata può sfiorare l’indefinito, così accade a quella di Falconer, e questo lo sanno bene anche il duo di sceneggiatori Ford/Scearce, che rendono il ritmo denso e indolente, per poi donargli una vena di leggerezza e colore, grazie anche alla fotografia dello spagnolo Eduard Grau. Tutto ciò rende i ricordi talmente mescolati alla realtà da creare difficoltà allo spettatore nella percezione del presente. La paura di vivere, sotto una perfezione formale, invade ogni angolo della personalità del professore, facendogli amare le piccolissime gioie della vita e dando all’opera lo status di epiteto filosofico, che ha consegnato la Coppa Volpi al festival di Venezia a Colin Firth, e che l’anno seguente avrebbe dovuto valergli anche la statuetta più ambita (assegnata però a Jeff Bridges).

Le musiche del film non sfuggono alla peculiarità della pellicola, ed oltre alle sopracitate, si concede un’enorme spazio alla musica classica, curata dai compositori Abel Korzeniowski e Shigeru Umebayashi. L’idea di Ford, grande cultore di colonne sonore cinematografiche, è stata quella di provare ad immaginarsi nella testa del professore inglese, lasciando aperta anche una flebile possibilità alla speranza nonostante il lutto.

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Alla fine della pellicola, si ha la chiara sensazione di aver visto qualcosa di diverso da una semplice storia, ma quella che si ha è la percezione di aver ricevuto una lezione sulla vita, intersecata da uno spiritualismo difficile da trovare nella vita reale. Attraverso il puro fondamento del genere umano, frammentato da millenni tra l’impulso dell’esistenza e il suo annientamento, ci viene donato un estatico esercizio di estetica, lucido come le scarpe che il professore indossa ogni mattina. Un melodramma audace che colpisce nella sua intimità del racconto di un uomo solo.

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