Il Don Quixote di Orson Welles: storia di un film infinito

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Non è successo solo a Terry Gilliam: le infinite coincidenze della storia del cinema ci insegnano che quando un regista di grande importanza si imbatte nella monumentale opera di Miguel de Cervantes, il matrimonio tra l’opera letteraria e il cinema può risultare più turbolento del previsto. Se possiamo finalmente mettere la parola fine alle continue vicissitudini produttive e distributive di L’Uomo Che Uccise Don Chisciotte di Gilliam, non possiamo fare altrettanto per un altro Don Quixote, quello di Orson Welles, la cui incredibile storia stimola da decenni la fantasia dei cinefili di tutto il mondo.

Parliamo di un film infinito, nel vero senso della parola: un film le cui riprese iniziano a metà degli anni ’50 e si protraggono per i due decenni successivi, senza mai giungere ad una vera conclusione perché la scena finale ideata dall’autore è letteralmente impossibile da realizzare. Un film infinito perché di esso non si conosce con esattezza nemmeno la quantità di materiale girato, sparso in giro per il mondo e custodito da alcuni dei più stretti collaboratori di Welles. Un film infinito come le ambizioni del suo regista.

La storia di questo Don Quixote comincia in Italia nel 1955, quando Orson Welles viene contattato dalla Rai per realizzare una serie di documentari ambientati in Spagna, per raccontare i cambiamenti in atto nel Paese in quel periodo. Il titolo dell’operazione, naturalmente, è Nella Terra Di Don Chisciotte. È durante le riprese di questi documentari che Welles decide di girare un film vero e proprio basato sul Don Chisciotte della Mancia, e per farlo intende utilizzare la stessa troupe che lo sta seguendo nel suo progetto per la televisione italiana: appena cinque persone oltre a lui.

Senza una vera e propria produzione alle spalle e con una sceneggiatura in continua evoluzione, Welles comincia a girare il suo Don Quixote in due condizioni particolari: la povertà assoluta di mezzi e la totale libertà creativa. Le riprese preliminari si svolgono nel 1955 al parco di Bois de Boulogne (Parigi) e vedono Mischa Auer nei panni di Don Chisciotte ed il russo Akim Taminoff in quelli di Sancho Panza, il suo fedele scudiero.

L’idea di Welles è quella di girare una versione fedele, seppur ridotta, del romanzo di Cervantes, ambientandola però in epoca moderna, enfatizzando ai massimi livelli l’anacronismo dei due personaggi ma mantenendo integro lo spirito del capolavoro originale. Il progetto deve inizialmente essere venduto alla CBS, che invece lo rifiuta in quanto non soddisfatta dei primi test: queste prime riprese (effettuate su pellicola a colori) vengono quindi archiviate e ad oggi risultano perdute. Con l’aiuto dell’amico Frank Sinatra, che investe 25000 dollari nel progetto, e con l’impiego dei compensi ricevuti grazie ai suoi ruoli come attore, Welles ricomincia a girare il suo film nella seconda metà del 1957, rimpiazzando Mischa Auer con lo spagnolo Francisco Reiguera e utilizzando equipaggiamenti poverissimi per le riprese, arrivando addirittura a girare su pellicola 16mm, in bianco e nero e senza supporto per il sonoro: il piano del geniale regista è infatti quello di doppiare personalmente ogni singolo personaggio.

Come noto, la lavorazione si rivela quanto di più caotico si possa immaginare: le riprese procedono a salti, con intervalli tra una sessione e l’altra che potevano durare anche parecchi mesi. Nel corso degli anni la produzione si sposta tra Messico, Spagna e Italia, con Welles perennemente a corto di finanziamenti che non riesce a smettere di inserire nuove idee nel suo folle progetto, tanto da arrivare a dire, in tarda età, che l’unico modo che ha per completare il film è smettere di visitare la Spagna, perché ad ogni nuova visita del paese, vedendo o i suoi cambiamenti, la sua mente ha nuove idee da inserire nella pellicola.

“Mi sono così innamorato del mio soggetto che pian piano l’ho ingrandito e ho continuato a girarlo man mano che guadagnavo dei soldi. Si può dire che il film si è ingrandito mentre lo facevo. È la stessa cosa che accadde a Cervantes (…) è un soggetto che una volta cominciato non lo si può più lasciare”

Orson Welles, 1964

Nonostante pare che non sia mai stata girata una sequenza in cui Don Chisciotte parte alla carica contro i mulini a vento, Welles riesce a rimediare approfittando della nuova ambientazione, facendo incontrare al suo Don Chisciotte le nuove invenzioni dell’epoca moderna, tra cui i motorini, una televisione e (ovviamente non poteva mancare) il cinema, in una scena in cui l’hidalgo entra in una sala cinematografica ed inizia ad inveire contro il grande schermo, scambiando le immagini proiettate per una reale scena di battaglia. In uno dei montaggi realizzati e poi distrutti da Welles era presente persino una sequenza in cui Don Chisciotte e Sancho raggiungono la luna grazie ad un razzo, scena che Welles decise di eliminare in seguito al reale sbarco sulla luna del 1969.

“Attorno a questo film si è creata negli anni una specie di leggenda, tanto che non sarebbe sorprendente immaginare che Welles preferisca restarne l’unico spettatore”

François Truffaut, 197

Per Welles, Don Quixote era un “film figlio”, un’opera amata profondamente dal proprio autore, che sembrava ribellarsi persino ad esso, considerando la difficoltà di realizzazione. Tutte le sequenze ritrovate mostrano come questo fosse un film sulla vecchiaia, sull’inesorabile scorrere del tempo che, con tutti i suoi cambiamenti, rende difficile la vita a chi come Don Chisciotte ed il fido Sancho rimane ancorato al passato. I due eroi diventano quindi uno strumento nelle mani di Welles, strumento che viene utilizzato per ogni metafora che attraversa la mente dell’autore durante la lavorazione: le sequenze improvvisate per strada, pensate e girate sul momento, sono così tante che nel 1964 (dopo oltre sette anni di riprese) Welles dichiara che col materiale girato potrebbe già essere in grado di montare tre film.

Sul finire degli anni ’60 le condizioni di salute di Reiguera sono in continuo peggioramento, tanto che l’attore chiede a Welles di completare in fretta il film sapendo che ormai il tempo che gli rimane a disposizione non è molto. L’attore muore nel 1969, senza essere riuscito a girare un vero e proprio finale per Don Quixote, anche a causa della sua impossibilità tecnica di realizzazione: Welles ha infatti in mente di far concludere il film con l’esplosione di una bomba atomica, che avrebbe cancellato tutto e tutti eccetto Don Chisciotte e Sancho, che avrebbero continuato a vagare nel nulla per l’eternità. Senza un finale e senza il protagonista, Welles continua a lavorare al progetto, effettuando riprese di seconda unità anche durante gli anni ’70.

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Alla morte del regista, avvenuta nel 1985, non è chiaro nemmeno quanto materiale sia stato archiviato per l’opera: Welles ha infatti suddiviso il girato in bobine piccolissime affidate ad amici, tecnici e collaboratori e numerate secondo un codice conosciuto soltanto da lui, rendendo di fatto impossibile il completamento del montaggio. La maggior parte del girato è stata suddivisa tra Oja Kodar (l’ultima compagna di Welles), Mauro Bonanni (il suo tecnico del montaggio) ed alcune collezioni private. L’unico montaggio di Welles sopravvissuto ad oggi è quello della copia lavoro del film, proiettato al Festival di Cannes del 1986 ed oggi in possesso della Cinématèque Française.

L’idea di provare a dare una veste finale a quello che rimarrà per sempre il capolavoro incompiuto per eccellenza arriva all’inizio degli anni ’90, quando Oja Kodar incarica il regista e produttore Jess Franco (non proprio il primo nome che verrebbe spontaneo accostare a quello di Welles, ma che con lui aveva lavorato molto bene) di trovare e montare quanto più materiale possibile. Il lavoro di Franco è lungo e meticoloso: grazie al recupero di circa 120000 metri di pellicola (35mm, 16mm e Super 16mm) e di un nastro magnetico in cui Welles fa le prove per il doppiaggio, il regista e produttore spagnolo riesce a completare il proprio compito, facendo debuttare al Festival di Cannes del 1992 il film Don Quijote de Orson Welles, che però viene sommerso dalle critiche negative sia da parte della stampa specializzata che dagli ex collaboratori di Welles.

Ancora oggi la versione montata da Jess Franco rimane l’unica disponibile per questo film, ma ha senso tentare di completare un’opera che in fondo completa non è mai stata? Forse no, forse il destino di questo progetto è lo stesso che Welles aveva in mente per i suoi due eroici protagonisti: vagare in eterno nel nulla, sopravvivere in tanti piccoli frammenti impossibili da completare in quanto figli di un’ambizione creativa troppo grande per poter essere contenuta nella normale durata di un film. A noi, spettatori e cinefili, rimane soltanto l’ombra di un film troppo grande per essere completato, ed è proprio questo suo essere non-finito, misterioso e così ricco di domande e suggestioni a renderlo così grandioso.

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