Gran Torino: la lezione di Clint Eastwood su come vivere il presente

Di questi tempi nel nostro Paese l’esempio di Walter Kowalski farebbe accapponare la pelle a qualche politicante che non ha nulla di meglio da fare che sparare a zero sul diverso. E anche nell’America di Trump (di cui a quanto pare siamo amici) potrebbe risultare insolito per un grandissimo del cinema patteggiare per i Repubblicani. Ma come spesso accade, l’arte discerne tutte queste beghe, per quanto orribili ci possano sembrare nella realtà: con Gran Torino, Clint Eastwood mette sul piatto un’opera intrisa di significati profondi: nonostante le acque agitate della cosiddetta postmodernità (in cui lui esprime tutto il suo disprezzo per gli atteggiamenti privi di rispetto adottati dalle nuovissime generazioni), lascia aperto uno spiraglio di speranza per l’avvenire, a patto di fare i conti con le proprie idiosincrasie e provare a cercare un vero scopo in questa vita.

Il titolo dell’opera prende spunto da un omaggio che alla fine degli anni sessanta la Ford volle concedere a Torino, la città della sede principale della Fiat e della Lancia che venne giustamente definita la Detroit d’Italia (e che ahinoi con le delocalizzazioni e la crisi economica ha subito un destino simile alla sorella americana): la Ford costruì una vettura magnifica, la stessa che Walt (il protagonista di Gran Torino) custodisce gelosamente nella sua rimessa. Lui, ex operaio della Ford e reduce dalla guerra di Korea, maldigerisce il cambiamento del suo quartiere, oramai abitato da persone di ogni etnia, e come dirimpettai ha una famiglia Hmong (una comunità asiatica che comprende, oltre alcune regioni cinesi, anche il Laos, Vietnam e Birmania), che un quasi ottuagenario può vedere solo come i “nemici gialli” che invadono la sua terra.

Gran Torino - Il primo trailer ufficiale in HD

I problemi però non si fermano al quartiere: c’è anche la sua famiglia, superficiale e poco rispettosa, che non osserva affatto gli insegnamenti che lui e la defunta moglie avevano cercato di dargli. Il tutto potrà sembrare una storia comune a molte oggi. Invece no, il vecchio Walt non è di certo stanco di combattere. Proprio grazie alla sua bellissima auto, entrerà in contatto con i vicini, e ne carpirà dei valori identici ai suoi, aiutando il più giovane della famiglia a cercarsi un posto nel mondo e ad uscire dalla sua timidezza cronica. Ancora una volta non lodare l’attore/regista di San Francisco rappresenterebbe più di un errore (anche per questo è sorprendente che il film non sia stato preso neanche in considerazione dall’Academy), proprio perché con un argomento apparentemente lineare spalanca le porte ad una profondità di emozioni sincere. Sincere come Clint stesso, un uomo che non si è mai nascosto e mai si è fatto convincere dall’ipocrisia dell’oggi, che pretende di insegnarci a vivere le nostre vite.

Certo il protagonista, per le sue caratteristiche, non si discosta molto dai duri interpretati nella sua lunghissima carriera, dall’epico periodo “Leoniano” all’ispettore Callaghan e al sergente “Gunny”, ma ancora una volta ci insegna cose nuove con una inaspettata apertura al multiculturalismo. Anche perché – e sembrerà scontato dirlo – le persone dovrebbero giudicarsi solo dalle azioni che compiono e non per altre ragioni che incitano solo all’odio e alla separazione. Questo Walter lo impara a proprie spese, con una vicenda a tratti commovente che ancora una volta rappresenta i tratti dell’esistenza umana più nobili e che il protagonista fa sopravvivere in un mondo che oramai li rifiuta categoricamente.

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Un plauso particolare va certamente dato a Bee Vang e Ahney Her, i due ragazzi che interpretano Thao e Sue Lor, praticamente al loro esordio nel mondo del cinema, e che tengono bene la scena, anche grazie ad un veterano del cinema che li guida in questa avventura. I riferimenti in questa pellicola sono delle vere e proprie chicche per intenditori: Eastwood infatti sceglie il cognome “Kowalski” ispirandosi allo Stanley interpretato da Marlon Brando in Un tram che si chiama desiderio ed ispirato dall’opera teatrale del drammaturgo statunitense Tennessee Williams. Anche questo contraddistingue la complessità caratteriale di Walt, un uomo arroccato nelle convinzioni che lo hanno fatto sopravvivere sino alla sua veneranda età e che formano un’opera musiva difficilmente cancellabile.

Nonostante la malinconia che pervade tutto il film, Eastwood riesce anche con abili tocchi di humor a reggere la pellicola di quasi due ore, con la certezza che nonostante tutto nella vita bisogna sempre andare avanti tralasciando il passato. Clint non punta il dito contro nessuno e neanche se ne preoccupa, ci tiene solo a riflettere sul mondo, con la consapevolezza che accadono anche le cose brutte e vanno affrontate. È grazie alla sua caparbietà che, vicino al tramonto della sua vita, scoprirà l’ennesima sfaccettatura del suo carattere, rappresentata da un’America che sta nuovamente cambiando, dove nell’incertezza incessante che ci attanaglia anche i vecchi combattenti possono rappresentare (sulle note del superbo Jamie Cullum) il cambiamento che attendiamo da troppo tempo.

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