L’Accademia dei Sogni di William Gibson: dal passato rimosso al futuro azzerato

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L’abbandono del futuro è forse il segno che meglio rappresenta la nostra epoca: aver perso l’abitudine e la capacità di immaginarlo equivale a dichiararne l’inutilità rispetto al presente che abitiamo, così frenetico e multiforme.

Tra gli autori di fantascienza che meglio hanno indagato il fenomeno, William Gibson ha un posto di rilievo: fu colui che nei primi anni ’80 diede voce e nuovi vocaboli alla rivoluzione del cyberpunk – quel preciso sottogenere che raccontava di cyberspazio e viaggi nella matrice con una fortissima connotazione sociopolitica; un movimento culturale che travalicò i confini del genere e di cui lo scrittore canadese divenne fin da subito l’esponente più riconoscibile e significativo.

La sua produzione narrativa si muove da un’iniziale ambientazione fortemente avveniristica – la distopica “trilogia dello Sprawl” con i suoi mega-agglomerati urbani, le multinazionali predatrici e i lisergici cowboy della consolle; passando per la più soft “trilogia del Ponte” ambientata nel decennio appena successivo alla stesura; per arrivare infine all’ultimo trittico di romanzi ormai situati in un vivido presente che assurge a futuro inconsapevole, in cui l’elemento di meraviglia non è più rappresentato dall’hi-tech ma da discipline aziendalistiche quali marketing e pubblicità.

A fare da apripista alla fase più recente troviamo il romanzo con la più alta concentrazione di significati dell’intera opera gibsoniana: Pattern RecognitionL’accademia dei sogni nell’edizione italiana – ambientato nel 2002 in un clima che risente dei fatti dell’11 settembre.

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Il plot narrativo è quello di una spy story in cui si indaga intorno al mistero delle sequenze, brevi frammenti video messi in rete da un artefice sconosciuto, nei quali un’agenzia pubblicitaria multinazionale intravede un potenziale commerciale inesplorato (una sorta di guerrilla marketing).

Protagonista del romanzo è Cayce Pollard, ricercata consulente di marketing con capacità divinatorie, che riceve l’incarico di risolvere il mistero dal potentissimo Hubertus Bigend titolare dell’agenzia Blue Ant. Cayce è una cool-hunter, una cacciatrice di tendenze che sfrutta le proprie capacità sensitive per annusare le direzioni che prenderà il mercato. Design, grafica, loghi, tutto è stilizzato e astratto – dematerializzato – nell’universo lavorativo di Cayce, finanche le sue paradossali competenze: approvare o meno, con un cenno del capo, il logo grafico che dovrà rappresentare sul mercato un nuovo prodotto di tendenza.

L’intreccio narrativo del romanzo si rivela accattivante così come l’ambientazione, urbana e fortemente connotata dalla globalizzazione – Londra, New York, Tokyo, Mosca le locations: i personaggi sono cool, perfettamente integrati e a proprio agio nel muoversi nel mondo delle merci-feticcio e dei brand. Non mancano neppure i tratti stilistici a cui Gibson ci ha abituati fin dagli esordi: la terminologia tecnica e al contempo evocativa nel nominare gli oggetti – perché quello del cyberpunk è il mondo delle merci; e soprattutto la capacità inarrivabile di raccontare la quotidianità come qualcosa di sorprendente e magico, come se all’improvviso ci venisse rivelata.

L’aspetto più interessante del romanzo riguarda però la dialettica continua tra presente, passato e futuro, che l’autore ci mostra a più riprese utilizzando diversi espedienti.


Memoria & vintage

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William Gibson

Nell’opera omnia di Gibson il passato con cui ci si rapporta è quello recente, rappresentato spesso sotto forma di archeologia industriale o informatica, vestigia di un’età remota a cui i personaggi guardano con incredulità e malinconia, come fossero divisi da esso da barriere culturali impenetrabili. Pattern Recognition non si discosta da questa estetica decadente: il secolo che ci ha preceduti è raccontato attraverso cimeli, memorabilia e oggetti vintage che per qualche motivo hanno intersecato la dimensione più cruenta e luttuosa del XX secolo, quella bellica.

Troviamo così riproduzioni di giubbotti militari della Seconda Guerra Mondiale (il Buzz Rickson MA-1), registi impegnati a documentare scavi archeologici nella ex-Stalingrado, locali alla moda in stile vintage che ammiccano alla guerra del Vietnam (il “Charlie don’t surf”). Non manca neppure la malinconica archeologia informatica: il glorioso ZX-81 Sinclair – il Personal Computer con cui nel 1986 tre ragazzini violarono il supercomputer dell’esercito francese ai tempi dei test nucleari di Mururoa, in quello che fu il primo attacco hacker della storia; l’ingegnoso Curta Calculator, calcolatrice meccanica di precisione azionata a manovella, progettata da un ingegnere austriaco durante la prigionia a Buchenwald; o il Wang 2200, il primo Word Processor della storia, usato anche da Stephen King e Umberto Eco, poi clonato dai sovietici.

Però: “la storia è stata cancellata tramite la sostituzione di un oggetto identico” afferma Cayce, facendo intendere come le riproduzioni vintage siano solo simulacri di ciò che fu e non può più essere recuperato, nemmeno dalla memoria, poiché svuotato di significato: la ricchezza culturale del vecchio mondo, con il suo innegabile bagaglio conflittuale, è morta e sepolta insieme ai soldati e alle armi che ogni anno vengono disseppelliti dai giovani russi nella ex Stalingrado, in un rituale iniziatico in cui il divertimento goliardico travalica il recupero della memoria storica.


Passato modulare

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“Il futuro è lì, che si gira a guardarci. Cercando di rintracciare un filo nel racconto che saremo diventati. E dal punto dove si trovano loro, il passato dietro di noi non somiglierà per niente al passato che immaginiamo di avere adesso. L’unica costante nella storia è il mutamento: il passato si trasforma.”

La narrazione è disseminata di elementi che riconducono a un passato funesto: il Novecento è osservato attraverso le lenti del presente, un presente segnato dal terrorismo globale e dal conflitto asimmetrico, ed è rappresentato come il secolo della guerra – di massa, ideologica, fredda, nucleare, spionistica.

Tale visione è funzionale al racconto – una spy story – e vuole suggerirci come sia sempre il presente a fornire le chiavi di lettura del passato.

Sembrerebbe un modo sofisticato di sentenziare che la Storia è scritta dai vincitori, un modus operandi inconsciamente orwelliano che attraversa tutte le epoche; il titolo del romanzo lascia invece intendere che l’autore voglia riferirsi al processo cognitivo che ci costringe a utilizzare schemi e modelli di riconoscimento per orientarci nel mondo, spesso attivando quella facoltà che ci porta a percepire collegamenti e significati tra cose non correlate, chiamata Apofenia – “L’homo sapiens è legato al riconoscimento di modelli di pensiero (pattern recognition), dice lui. Un dono e insieme una trappola”.


Presente assoluto

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Il presente è consegnato al lettore a partire dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001: per la protagonista quell’evento segna una cesura simbolica tra un prima e un dopo, tra vecchio e nuovo mondo. Il suo presente è anche il nostro: un fiume in piena, un flusso inesauribile, un enorme e vorace blob che si nutre di simulacri – riproduzioni dell’originale, o addirittura riproduzioni di riproduzioni – e nel suo scorrere affrettato non si preoccupa di lasciare spazio al futuro, tantomeno di omaggiare il passato. Sul primo viene condotta una paradossale azione di deprivazione sensoriale mediante sovraccumulo di informazioni, rendendolo di fatto impossibile da immaginare; con il passato invece si stanno recidendo tutti i legami, come con un parente scomodo e impresentabile. Ad entrambi viene negata qualsiasi utilità, entrambi vengono posti fuori catalogo per obsolescenza: azzerata la speranza, accantonata la memoria.


Futuro azzerato

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“Non abbiamo futuro. Non nel senso in cui lo hanno avuto i nostri nonni, o pensavano di averlo. Futuri culturali, interamente immaginati, erano il lusso di un’altra epoca, un’epoca in cui l’oggi aveva una durata molto maggiore. Per noi, come sappiamo, le cose possono cambiare così in fretta, con tale violenza, tanto in profondità, che il futuro nel senso inteso dai nostri nonni non ha abbastanza “presente”. Non abbiamo futuro perché il nostro presente è troppo mutevole. Noi abbiamo solo rischi di gestione. La ricomposizione degli scenari a partire dai singoli eventi. L’individuazione di modelli.”

Le parole pronunciate da Hubertus Bigend riassumono quanto detto finora ed esprimono con chiarezza la posizione di Gibson: le società postmoderne sono condannate a vivere un eterno e vertiginoso presente che assorbe l’individuo in ogni frammento della sua esistenza; mentre la capacità di immaginare il futuro appartiene alla dimensione ormai arcaica della lentezza.
Del resto la sfida lanciata dallo scrittore con il ciclo di Bigend è stata proprio questa, fare della contemporaneità un terreno fertile per la narrazione mitologica: riuscendo nell’intento, il lavoro di William Gibson si dimostra ancora una volta imprescindibile per la comprensione del nostro tempo.

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