Radiohead, Hail To The Thief: quel che venne dopo la decostruzione

Posted by

E adesso cosa facciamo? Dopo l’uscita di Kid A (2000) e Amnesiac (2001) Thom Yorke e Jonny Greenwood devono essersi sicuramente fatti questa domanda. Cosa viene dopo la completa destrutturazione della musica rock e pop che il mondo aveva amato? Come si può andare oltre una doppietta così sperimentale che, possiamo dire a posteriori, ha di fatto dato il via a tutte le sperimentazioni elettroniche del nuovo millennio?

La risposta è stata Hail to the Thief (2003). La risposta è stata immagazzinare la sperimentazione e tornare sul tracciato di una forma di comunicazione musicale non decostruita, la risposta è stata in un certo senso tornare a Ok Computer (1997), sì, ma con una consapevolezza tutta diversa. La risposta è stata il miglior album del gruppo dell’Oxfordshire (sì, è il caso di scomodare una di quelle frasi che possono scatenare il dibattito).

Apre 2+2=5: un arpeggio greewoodiano che avevamo sentito l’ultima volta sei anni prima, con una drum machine in sottofondo; lo stile sembra essere subito messo in chiaro, le chitarre sono prepotentemente tornate (e diciamo che non dispiace a nessuno), ma l’elettronica non ha nessuna intenzione di fare un passo indietro. Il nuovo matrimonio è celebrato dalla voce di Thom Yorke, che nell’arco dell’album raggiunge una bellezza che forse toccherà di nuovo solamente in A Moon Shaped Pool (2016): una voce matura, che è arrivata ormai alla totale comprensione di sé e non si lascia andare ad alcun  virtuosismo fine a se stesso.

2+2=5 mette anche in chiaro che questo sarà l’album più politico del gruppo: il titolo già lo suggeriva (Hail to the Thief era lo slogan dei manifestanti anti-Bush Jr.), la copertina dell’album fatta da Stanley Donwood lo esplicava in maniera eloquente; ora l’incipit colloca il senso in una dimensione più vasta: la citazione è evidente e richiama 1984 di George Orwell, e nello specifico la psicopolizia del romanzo che costringe le persone a credere che due sommato a due faccia effettivamente cinque. Dall’assoluto al particolare insomma, la critica alla società contemporanea si impunta nello specifico contro il nuovo potere assoluto: la politica apparentemente democratica in realtà nasconde trame di controllo totalitario che certo non impallidiscono di fronte al Medioevo.

Il riferimento al nuovo Medioevo c’è nel sottotitolo dell’album, ma c’è anche nella traccia più alla Kid A: The Gloaming, che significa appunto “il crepuscolo”. La traccia più puramente elettronica raggiunge il suo scopo: rappresentare il nuovo ballo alienato della società che danza al ritmo di questa estraniante musica elettronica vedendo senza guardare il proprio crepuscolo. Non siamo i padroni di noi stessi, no, non lo siamo per niente, il potere ci dice quando sederci e quando alzarci: Sit down, Stand Up esprime questo sia naturalmente col testo che con la musica, perché se all’inizio il ritmo è avvolgente e trasognante, è il ritmo del potere che vortica intorno senza stringerci; poi la tenaglia arriva e tra suoni elettronici molto spinti non siamo più capaci neanche di respirare.

Il potere ci stringe la gola sempre più forte, sempre più forte, arrivare a volere la nostra carne dolce, il nostro giovane sangue (We Suck Young Blood), come un moderno vampiro che ci prende l’anima e ci rende schiavi: ma non possiamo dormire o nasconderci di giorno, no, siamo costretti a girare per le strade delle nostre nuove metropoli con uno sguardo assente e senza apparente direzione alcuna.

Dall’assoluto al particolare, abbiamo detto, e infatti il tema Bush Jr. torna prepotentemente in Where I End And You Begin, in cui il ritmo oscuro ma spinto del basso di Colin Greenwood si mischia alla voce malinconica di Thom Yorke e agli effetti alieni del synth di Jonny Greenwood; così i Radiohead forse arrivano a quello che cercavano davvero ti ottenere da questo album: una forma-canzone destrutturata dall’interno ma comunque potenziale hit, con un proprio procedere ben riconoscibile. La struttura canzone viene sicuramente mantenuta appieno in There, There, traccia dal testo fiabesco e che recupera per i più nostalgici la chitarra distorta di Jonny Greewood del periodo The Bends.

Dall’assoluto al particolare anche nel tema della politica militante, a cui Yorke non ha mai avuto paura di partecipare (nel bene e nel male, vedi la recente bagarre per la semi-presa di posizione a favore di Israele): A Punch Up At A Wedding, col suo ritmo leggermente gothic e grottesco  da circo metropolitano che vede in Berlin di Lou Reed il suo più illustre predecessore (e siamo sicuri che Damon Albarn nel dare il sound ai suoi Gorillaz abbia tenuto bene a mente questa traccia), vede da da dentro il movimento militante, offendendo e pungolando un antipatico militante reo di aver rovinato il gran giorno del corteo e di non dare mai niente alla causa oltre ai suoi inutili appunti privi di senso.

I Radiohead esprimono il sentimento di soffocamento dell’uomo del nuovo millennio, che si sente morire ma che è incapace di parlare, proprio come se avesse la Myxomatosis, ecco appunto la traccia più potente dell’album grida senza alzare la voce, e anzi, Yorke graffia leggermente la sua di voce (e anche questo non ci dispiace per niente) e accenna anche un sommesso rap, sommerso dai suoni elettronici nevrotici di Jonny Greenwood. L’urlo sembra dover uscire da un momento all’altro, ma invece non arriva, al massimo vi è un parlare più nevrotico e concitato verso la fine, ma l’urlo non si libererà mai.

Simbolicamente, l’album è chiuso dal carillon metallico di A Wolf At The Door: è impossibile fuggire da questa situazione, si può urlare, si può protestare, ma una via d’uscita non c’è; la risposta nichilistica sembra essere quella di chiudersi metaforicamente in casa, ovvero in se stessi, e sperare che il lupo non arrivi, che il lupo non rovini la nostra vita, la nostra famiglia, la nostra degna reputazione: il silenzioso urlo finale di Yorke sembra aver preso atto di questa triste verità.

Hail to the Thief è l’album più lungo (più di un’ora d’ascolto distribuita in quattordici tracce) dei Radiohead, è forse la loro opera più completa, quella in cui riusciamo ad apprezzare appieno tutte le diverse sfaccettature, tutti i diversi temi con cui il gruppo più musicalmente importante degli ultimi vent’anni ci ha bombardato durante la nostra vita. Hail to the Thief è quello che viene dopo la decostruzione, è il tentativo di ridare un senso alla vita, è il tentativo di ridare una forma alla musica: la genialità dei Radiohead sta proprio nel rimanere in un meraviglioso limbo, paralizzati e immobili, con la consapevolezza che niente può più riacquistare una vera forma.

3 comments

  1. Ottima recensione! Forse è l’album meno “organico” dei Radiohead (per l’appunto, composto da “potenziali hit” e, in questo senso, non mi sento di dire che sia “l’album” migliore) ma alcune tracce (tra cui a Wolf at the Door) sono semplicemente da pelle d’oca.

    Basta ricordarsi che questo album ha 14 anni per afferrare la superiorità dei Radiohead nel panorama musicale contemporaneo.

  2. Ciao, grazie! D’accordo quasi su tutto, semplicemente non credo che fare “potenziali hit” possa essere necessariamente un’aggravante; detto questo a livello di messaggio l’album è sicuramente molto coerente, a livello prettamente musicale, come scritto, ovviamente su un arco di ben quattordici tracce abbiamo diverse espressioni stilistiche: per questo l’ho definito un “Ok Computer” più maturo 🙂 Poi a mio modesto parere tracce come Mixomatosis, There There, Where I End An You Begin, A Wolf At The Door, A Punch Up At A Wedding, sono davvero tra i capolavori assoluti dei Radiohead.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.