Quattro storie musicali per un Natale consapevole

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È Natale e sentiamo di volerlo festeggiare con voi in un modo particolare, riflettendo tutti insieme sull’importanza della musica come arte capace di offuscare le bruttezze del mondo, di redimere, di unire, di elevarci sopra le sofferenze dell’anima e di farci superare ogni limite.

Vogliamo raccontarvi, a tal proposito, quattro semplici storie. Quattro storie in cui è possibile percepire lo spirito natalizio, ognuna in un modo differente, ognuna capace di farci commuovere a modo suo. Da condividere con amici e parenti, nel segno di un Natale con una consapevolezza differente.


Il Quartetto per la Fine del Tempo e i campi di concentramento

Quatuor pour la fin du temps (Quartet for the End of Time) è una tra le pagine musicali del ‘900 legate in modo più intenso, visionario e mistico alla tragedia della Shoah.

L’autore è Olivier Messiaen, compositore francese, docente di armonia e composizione al Conservatorio di Parigi, ma anche organista nella chiesa della Sainte-Trinité; e ornitologo, profondamente convinto che i più grandi musicisti della terra siano gli uccelli.

Compose questo quartetto per violino, clarinetto, violoncello e pianoforte, durante la seconda Guerra mondiale quando, arruolato nell’esercito francese, venne catturato dai tedeschi e deportato nel campo di concentramento a Görlitz, in Polonia.

Olivier Messiaen - Quatuor pour la fin du temps (Quartet for the End of Time) [Matthew Schellhorn]

“Era il 15 gennaio 1941, faceva un freddo atroce, il campo era sepolto dalla neve. Eravamo trentamila prigionieri di guerra, per la maggior parte francesi, con dei polacchi, dei belgi, e dei serbi. Poi arriveranno gli inglesi, i russi, gli italiani. Tutti lì rinchiusi, prigionieri, umiliati ogni giorno”, racconta Messiaen, che, partendo dall’immagine di “una figura amata” (quella dell’Angelo che annuncia la fine del tempo), compose il quartetto per i musicisti e gli strumenti che aveva «sottomano».

Musicisti non professionisti e strumenti sgangherati, come il violoncello con solo tre corde procurato dai nazisti o il vecchio pianoforte verticale che suonò lui stesso, i cui tasti, una volta abbassati, non si rialzavano.

Nell’atroce, disumana condizione del campo di concentramento, il sentimento religioso del compositore rimase incrollabile, così come incrollabile rimase la sua convinzione che la musica non cessa mai di “sfiorare Dio”, permettendo alla speranza di vincere sull’afflizione. “Avevo bisogno di pensare alla musica, di farla, per sentirmi vivo” – scrive Messiaen – raccomandando a chi avrebbe eseguito, in futuro, il suo Quatuor di non temere “tutto ciò che rende un’interpretazione viva, sensibile”.


Il pianista ebreo che resistette all’Olocausto

Un’altra storia che vale la pena ricordare, più nota per via del bellissimo film di Roman Polanski, è quella de Il pianista.

Tratto da un romanzo autobiografico, la durissima opera di Polanski racconta con scarno realismo l’odissea di Władysław Szpilman, un pianista ebreo polacco sopravvissuto alle persecuzioni naziste.

Centrale è il ruolo della musica: il suono del pianoforte rappresenta l’anelito alla salvezza, unico tentativo di opposizione all’annientamento dell’identità e della dignità.

Chopin Ballade in G Minor Scene- The Pianist

Vediamo Szpilman, costretto a vivere nel silenzio, che sogna di suonare un pianoforte nell’appartamento in cui si nasconde, o che ripassa mentalmente un brano. Si tratta di un motivo che ritorna spesso nei racconti dei prigionieri dei campi di concentramento e dei sopravvissuti all’Olocausto: richiamare alla memoria versi o musica è un modo per resistere. Persino quando gli eventi impongono comportamenti animaleschi, con l’unica preoccupazione di proteggersi dalla fame e dal freddo, il ricordo di opere d’ingegno permette di coltivare in segreto la propria umanità. La guerra cerca di annientare anche la musica e la sua magia, interrompendola continuamente finché sussiste un clima di pericolo Szpilman, infatti, non riesce mai ad arrivare alla conclusione di un brano. Poi, finalmente, alla presenza di un ufficiale tedesco, il pianista porta a compimento la Ballata in Sol minore di Chopin. Una scena memorabile, simbolica, con un forte carico emotivo. La trovate qui sopra.


Aeham Ahmad, il pianista di Yarmouk

Prima che scoppiasse la guerra, Aeham Ahmad era solito girare in bicicletta per le strade affollate di Yarmouk, andare con gli amici a fare due chiacchiere in qualche caffè della zona, dare lezioni di piano, passeggiare con sua moglie. Yarmouk è un campo profughi palestinese a sud di Damasco nato dopo la Nabka, l’esodo palestinese, del ’48. Ma Yarmouk non è solo questo, è anche il simbolo dell’orrore che ha travolto la Siria con l’arrivo della guerra civile da un lato e l’avanzata dell’Isis dall’altro. Soprattutto della complessità della Siria, sempre più dilaniata dalle fazioni. Qui, infatti, hanno lottato per il predominio sul territorio Hamas, gli affiliati di al-Qaeda, i ribelli siriani, il governo di Assad, i miliziani di Isis. Eppure per questo il campo profughi a sud di Damasco, prima di essere un perfetto esempio da manuale di geopolitica, era soprattutto e nonostante tutto, casa. La sua vita scorreva tranquilla, certo c’erano delle difficoltà, ma lavorava con il padre, un violinista cieco, nel loro negozio di strumenti musicali. Studiava e suonava il suo pianoforte, si era sposato e aveva avuto dei figli. E se è vero che in effetti non aveva una Nazione della quale dirsi cittadino, proprio il padre gli aveva spiegato che: “Il nostro Paese è la musica”.

Siria: Yarmouk la canzone di Ahmad

Poi è venuta la guerra. Aeham la ricorda bene la prima volta che un jet ha bombardato Yarmouk e ricorda bene, fin troppo, anche tutto il resto, “la follia della guerra, il sangue, i morti”. Ma il suo Paese è la musica, si dice come un mantra, e allora non si dà per vinto: trascina il suo pianoforte in strada fra le macerie e suona, qualche ragazzo comincia a cantare, nasce una specie di complesso e, paradossalmente, quella musica, anche se non riesce a coprire il rumore delle bombe, a ricostruire le case o riparare l’ospedale da campo andato distrutto, diffonde un briciolo di entusiasmo e di speranza fra la gente. Ricorda a tutti per un attimo com’era Yarmouk prima della guerra.

“Era la mia piccola rivoluzione, un tentativo di contrastare l’orrore, una rivoluzione musicale per restituire alle persone almeno un po’ di speranza, un po’ di forza. Eravamo assediati, mancava tutto… non avevamo acqua, cibo, cure, le persone morivano a centinaia. Ma la speranza era fondamentale per andare avanti, per noi, ma soprattutto per i nostri bambini”.

Per conoscere meglio la sua storia, guardate questo video.


Michel Petrucciani, l’uomo dalle ossa di cristallo

La musica ci aiuta non solo a superare quello che vediamo e viviamo all’esterno ma anche ciò che ci affligge nel profondo dell’anima. Pensiamo alla storia di Petrucciani, uno dei più incredibili talenti della musica. Francese di origine italiana, Michel Petrucciani era figlio di un noto chitarrista jazz, Tony Petrucciani. Un aneddoto racconta di come a soli quattro anni, in occasione di alcuni concerti di Duke Ellington che erano trasmessi in tv, Michel chiese un pianoforte. Il padre gli regalò un pianoforte giocattolo e Michel lo fracassò con un martello, sostenendo che il suono non fosse come quello udito alla televisione.

Rachid - Michel Petrucciani

Fu allora che gli fu procurato un vecchio verticale che il padre dotò di un marchingegno che consentisse al piccolo Michel di arrivare con i piedi ai pedali. Perché era nato con una malattia, l’osteogenesi imperfetta, altrimenti detta “malattia delle ossa di cristallo”, che ne causava l’arresto della crescita sia in altezza che nella costituzione e una grande fragilità fisica. Era alto poco più di un metro e aveva uno scheletro fragilissimo, che si rompeva a ogni minima pressione. Questa fragilità fisica sarà sempre antitetica alla grande forza, all’energia di Michel Petrucciani, che aveva mani grandi e abilità tecnico-espressive uniche, sarà opposta all’immensa forza della sua personalità, concreta, volitiva, dinamica, espansiva. Non si è mai commiserato, né pianto addosso anche se ne avrebbe avuti tutti i motivi. Petrucciani considerò piuttosto la sua malattia come una risorsa che gli avrebbe permesso di dedicarsi con totalizzante dedizione e devozione alla musica.

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