Dentro il significato di Requiem For A Dream

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Questo articolo rivela la spiegazione e il significato dettagliata di Requiem for a Dream, il film di Darren Aronofsky del 2000, svelandone elementi importanti della trama. Se ne suggerisce dunque la lettura solo ed esclusivamente dopo aver visto il film, e non prima, per evitare di perdervi il gusto della prima visione.

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Requiem for a dream è uscito nelle sale statunitensi nell’anno 2000; non è un anno totalmente casuale: è il primo anno del nuovo millennio e il film è davvero un saggio sul cinema contemporaneo, tra inquadrature brevissime, montaggio serratissimo e un nichilismo di fondo che non permette alcuna via d’uscita.

Il film è la seconda opera di Darren Aronofsky, uno dei registi più chiacchierati del momento, soprattutto a causa delle critiche a dir poco contrastanti che il suo film Madre! (che a noi è piaciuto parecchio) ha ricevuto all’ultima mostra del cinema di Venezia. Se nei suoi film di maggior successo, tra cui The Wrestler (2008) e Il cigno nero (2010), Aronofsky mira a una regia quasi trasparente, che cerca di mettere maggiormente in rilievo la recitazione e la narrazione; in Requiem for a dream il regista mette in mostra le proprie abilità e propensioni registiche, bombardando lo spettatore con un ritmo davvero velocissimo, sconvolgente.

Il film è davvero un pugno nello stomaco, per i temi trattati, certo, ma soprattutto per il modo in cui vengono affrontati. I quattro protagonisti soffrono di varie dipendenze, diverse tra loro ma accomunate dal medesimo destino mortale. Sarah Goldfarb (nomination all’Oscar come miglior attrice a Ellen Burstyn) è una madre in pensione, che lascia tristemente passare le proprie giornate tra talk show e scialbe chiacchierate sotto il sole pomeridiano con le proprie “colleghe”. Sarah ha perso il proprio marito, e con lui la propria giovinezza, e ricerca trasognante l’amore del figlio tossicodipendente Harry (interpretato da un Jared Lato in gran forma). Nella prima scena del film Aronofsky, tramite l’uso dello split screen (tecnica molto utilizzata nell’opera), mette in scena la claustrofobica solitudine dei due: Harry ruba ripetutamente la televisione della madre per raccattare dei soldi per farsi, Ellen si chiude spaventata in bagno e poi va  a ricomprarsi mestamente la tv. Entrambi sono alla disperata ricerca dell’amore dell’altro, ma nessuno dei due è disposto a “guadagnarsi” quell’amore, a un sano dialogo, ad andare incontro a un persona che non è un oggetto, ma è un soggetto: Sarah nell’amore del figlio vede la propria realizzazione come madre, e Harry nell’amore della madre vede la propria realizzazione come persona.

Il miglior amico di Harry è Tyrone (colpo di genio di Aronofsky che sceglie l’attore comico demenziale Marlon Wayans per interpretarlo), anch’egli tossicodipendente e anch’egli disperatamente bisognoso dell’affetto della propria figura materna, che non vede ormai da anni. A questo inusuale trio si aggiunge la bellissima Marion (Jennifer Connelly), aspirante stilista anch’ella tossicodipendente e pienamente coinvolta in una emozionante, appassionante e apparentemente sincera relazione con Harry. In realtà tramite lo split screen il regista ci fa subito capire che la relazione tra i due ragazzi non si basa su un sincero sentimento: i due sono ripresi in una scena d’amore a letto, ma ognuno è chiuso nella propria inquadratura; non vi è interazione, solo solitudine. Marion non è cosciente della propria bellezza e non si accetta fisicamente, questo è un dettaglio che risulterà basilare per la comprensione della caduta della ragazza.

Il film è diviso in sezioni, scandite dal susseguirsi delle stagioni: Estate, Autunno (il cui nome inglese, Fall, che significa caduta, è evidentemente simbolico) e Inverno. No, la primavera non c’è e non arriverà mai, la visione di Aronofsky è totalmente nichilista e certo non è sulla stessa linea del celebre poeta romantico inglese Percy Shelley (“If winter comes, can spring be far behind?”). In estate il gruppo non soffre i lati negativi delle proprie dipendenze: i tre ragazzi, dipendenti da eroina, riescono a creare un giro neanche troppo modesto e guadagnano abbastanza soldi per comprare un appartamento e addirittura per metterne da parte altri, in vista dell’apertura dell’atelier dei sogni di Marion.

La dipendenza di Sarah parte invece già in estate sotto il peggior segno: la donna riceva una chiamata che la invita a partecipare come spettatrice a un programma televisivo. Per Sarah questa può essere finalmente la svolta della sua grigia e monotona vita; rosso è invece il vestito che vorrebbe indossare per l’occasione, che rappresenta il passato, il dolce ipocrita passato in cui tutto andava apparentemente bene. La donna però non riesce ad entrare nel vestito, e dunque inizia una dieta dimagrante a base di anfetamine (forte critica al sistema delle cause farmaceutiche americano, che non si interessa minimamente degli effetti provocati sulle singole persone). Sarah inizia a perdere peso e riesce ad entrare finalmente nel vestito, riesce a rivivere il suo passato: da questo momento la donna non si leverà più l’abito e vivrà in una realtà parallela, senza alcun contatto con la realtà.

Arriva l’autunno, e con lui la caduta dei personaggi. Cade Harry, che nonostante si sia accorto della dipendenza della madre, colma il proprio bisogno di sentirsi un figlio accettato regalandole una televisione, nonostante la straziante richiesta di compagnia di Sarah. Cade Tyrone, che viene messo in prigione e che dunque per il pagamento della cauzione manda in fumo i progetti di costruzione dell’atelier di Marion. Cade Marion, che inizia a prostituirsi per la disperata ricerca di una dose e non riesce a vedere la sofferenza di Harry, accecata dalla propria tossicodipendenza (la ragazza non si è mai accettata e ora finisce significativamente a svendere il proprio corpo). Il montaggio come detto serratissimo mette in relazione le quattro cadute: spesso Aronofsky usa la tecnica del particolare per isolare piccoli momenti che simboleggiano l’assunzione delle diverse droghe, posizionando le bravissime inquadrature in rapida successione e quasi non permettendo allo spettatore di capire chi stia facendo cosa. Non esiste una dipendenza meno grave di un altra, tutte portano indistintamente alla distruzione della persona, non esiste l’eroina, le anfetamine o la tv, esiste solo un grandissimo bisogno di sentirsi accettati, la necessità stringente di un enorme vuoto da colmare.

La caduta è pesante, e i personaggi arrivano all’inverno perdendo totalmente la concezione della realtà. Sarah è ormai entrata in un mondo parallelo, un mondo in cui tutto è ovattato (una delle più particolari trovate registiche di Aronofsky è il rallentamento del mondo intorno alla donna, che si muove a scatti e totalmente alienata da sé), un mondo pieno di fantasmi, in cui il frigorifero, simbolo certo non troppo implicito della fame della donna, sembra voler aggredire Sarah, e in cui i partecipanti del talk show si prendono gioco di lei. Sarah, ormai impazzita, viene portata in un ospedale psichiatrico, dopo essersi recata negli studi televisivi in cerca di aiuto in evidente stato confusionale.

Aronofsky dà ripetuti colpi nello stomaco allo spettatore: tutti sono insensibili, i dipendenti degli studi televisivi, i dottori, gli infermieri, tutti semplicemente puntano ad estromettere il diverso dalla società, in questo caso tramite l’elettroshock, con una ipocrisia di facciata che punta a provocare lo spettatore. L’ipocrisia è caratteristica anche delle vecchie amiche di Sarah, che per mesi non si erano inspiegabilmente accorte dell’assenza dell’amica, e alla sua vista in ospedale scoppiano in lacrime e si abbracciano: tutti pensano al proprio dolore, ma il dolore degli altri è totalmente invisibile.

L’ipocrisia di Harry nei confronti della madre era già stata messa in evidenza in precedenza; arrivato all’inverno il personaggio non ha più fisicamente la possibilità di pensare agli altri in quanto arriva addirittura a perdere il braccio, che gli verrà amputato a causa di una infezione non curata data dall’assunzione di eroina tramite endovena. Anche qui il regista non si risparmia nell’attacco contro il sistema sanitario americano: il dottore non cura Harry quando la situazione sembra ancora recuperabile, ma chiama la polizia perché vede davanti a sé un tossico, un emarginato, un elemento pericoloso da mettere da parte. In carcere con Harry viene messo anche Tyrone, che però ci resterà fino alla fine del film. Peggio che a Tyrone forse va a Marion, che non finisce in carcere ma entra in un sempre più intricato e degradante giro di prostituzione, prostituzione non certo per strada ma negli appartamenti stralussuosi dell’America bene, che la mattina è intenta a portare avanti la propria normale vita e critica giovani ragazzi con problemi con le droghe e la sera sedizia giovani ragazze in modi da girone dantesco (ancora l’ipocrisia).

Tutti cadono, nessuno si salva, tutti si chiudono sempre di più nella propria claustrofobica solitudine, che Aronofsky all’inizio aveva esplicitato diegeticamente con lo split screen, e che alla fine viene simboleggiata da un montaggio parallelo che mostra i quattro protagonisti ranicchiati in posizione fetale nei loro rispettivi letti, mentre ripensano al passato, a quello che era, che sarebbe potuto essere e che non è mai stato (un figlio di successo per Sarah, una vita tranquilla con Marion per Harry, un rapporto madre-figlio recuperato per Tyrone e la contemplazione dell’eroina come unica fuga da una vita ormai finita per Marion).

Non vi sono personaggi positivi né negativi, tutti sono congenitamente ipocriti, tutti sono esclusi dalla società ma allo stesso tempo fanno parte della società stessa: Aronofsky è pungente nella narrazione della caduta di Sarah, che è una donna middle-class con cui chiunque del pubblico medio si può identificare. Non vi è una morale, non vi è un lieto fine, c’è soltanto una distruttiva rappresentazione delle dipendenze dell’uomo contemporaneo, condannato a un cieco e nichilistico destino di solitudine.

Una menzione di merito va sicuramente a Clint Mansell e al Kronos Quartet, rispettivamente compositore ed esecutori dell’iconica colonna sonora. Mansell riesce a comporre un’opera che mischia musica classica ad elettronica, in piena linea con il gusto contemporaneo del film, che mischia tragico e ironico, in una fortissima tensione tra realtà e ipocrisia. La traccia molto probabilmente più famosa dell’opera (anche perché riproposta rimusicata nella saga del Signore degli anelli) è sicuramente Lux Aeterna: i drammatici archi della traccia chiamano con violenza la reazione dello spettatore, che è spinto all’indignazione per ciò che vede in un doppio gioco che critica la società benpensante media e allo stesso tempo la fa schifare di se stessa.

Aronofsky si prende gioco dell’ipocrisia della gente e allo stesso modo fa esprimere giudizi ipocriti a uno spettatore che probabilmente nella vita reale non si comporterebbe in maniera molto diversa rispetto ai soli manichini messi in scena. La traccia viene riproposta in maniera davvero martellante in più sequenze del film, mettendo in relazione diversi piani e creando un gioco di memoria e di eterno ritorno del tempo che ben si sposa con la divisione del film in sequenze rappresentate dalle stagioni: eterno ritorno del tempo su se stesso ma allo stesso modo presenza di una crepa, di qualcosa che si spezza, che simbolicamente è la primavera, ovvero la felicità e la serenità, una rinascita che non ci sarà mai.

Darren Aronosfky dirige un’opera che fa davvero male a chi la guarda, un pesante schiaffo a noi e a tutto quello in cui crediamo, il tutto espresso con una modernissima e bombardante regia che tra split screen, montaggio serrato e inquadrature oggettive irreali (che saranno riprese per esempio da Breaking bad) contemporaneamente chiama l’attenzione dello spettatore e lo manda nel caos più totale.

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