La potenza di una buona idea: come nasce il fenomeno David Lynch

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Io la conosco bene, la domanda che vorreste farmi fin da subito, prima ancora di capire se il monologo immaginato che vi apprestate a leggere verterà più sulla mia figura di regista che su quella di musicista o visual artist: come si fa a diventare uno dei personaggi più acclamati e adorati dalle generazioni intellettuali degli ultimi 40 anni, considerato tra i registi viventi più visionari e fonte di ispirazione generale per quel mio eclettismo che tocca anche musica e pittura? È una domanda legittima, di questi tempi: ora che hanno anche definito Mulholland Drive il miglior film del ventunesimo secolo, dopo che il pubblico mi aveva già eretto a mito generazionale per via di Strade Perdute, Inland Empire o lo stesso Twin Peaks e che, mentre ero lontano dal set cinematografico, ha finito per appassionarsi anche alla mia carriera di musicista. E la risposta è la stessa che vi ho dato in passato: non esiste una ricetta precisa. Ovviamente.

Certo, come vi ho detto più volte, esiste la potenza dell’idea. Una buona idea è la migliore garanzia che la vostra sarà una creazione di qualità. Ma non siate frettolosi. Mai. Un’idea all’inizio arriva sempre malconcia e instabile, una semplice intuizione che ha bisogno di stabilizzarsi. Dovete avere pazienza, lasciarla maturare ed estenderla giorno per giorno. Solo dopo, si forma una rete di connessioni stabile e pronta per essere portata in scena. E mentre la sviluppi, è buona norma pensare lateralmente, farla accompagnare da picchi di conflitto, farla crescere con le naturali scosse che fan parte della vita. Una buona idea non si evolve mai in maniera statica. Persino la mia Straight Story, Una Storia Vera, il mio film del 1999 che stupì tutti per la mancanza dell’elemento disturbante che tutti si aspettavano da me, non lo considero per nulla un film statico. È un film che parla della vita e di come la si possa percepire nel modo più sano, non permettendo alle disavventure di avvelenare il piacere di vivere.

E poi c’è un altro suggerimento che mi sento di darvi: non fermatevi mai di fronte ai vostri limiti. So benissimo la pressione che si sente di fronte ai grandi che vi hanno preceduto. Per voi magari sarò io, Christopher Nolan o Martin Scorsese, mentre per me erano Ingmar Bergman, Stanley Kubrick e Billy Wilder. Ma ricordatevi: quando io ho iniziato a far cinema, non sapevo nemmeno come si facesse un film. Quando avevo vent’anni, in realtà io credevo di voler diventare un grande pittore (promettevo anche bene). I miei primi corti, negli anni ’60, erano il mio modo di sfruttare le iniziative dell’accademia d’arte in Pennsylvania, mentre The Grandmother, il cortometraggio più noto dei miei inizi, era nato usando i finanziamenti liberi dell’American Film Institute agli artisti emergenti. Anche quando feci Eraserhead, che ora è considerato un cult del cinema dell’assurdo, mica aveva sfondato con facilità. Non fu accolto bene dagli ambienti intellettuali. Esplose solo nell’ambiente dei B Movie, spinto dal pubblico dei feticisti del cinema notturno, e fu solo così che il mio nome iniziò a girare.

Film che mi rappresenta bene, Eraserhead, ancora oggi. Ma non lo consiglierei come primo film da cui iniziare a chi volesse scoprirmi da zero. Magari gli raccomanderei di cominciare proprio da Mulholland Drive e Strade Perdute, per farsi un’idea della mia unicità visionaria, passando poi a film come Velluto Blu e Cuore Selvaggio per scoprire il mio modo di raccontare storie. In mezzo magari si può passare per le strade desolate di Twin Peaks. E solo allora, secondo preferenza, si potrebbe decidere di arrivare a Eraserhead. La visione surreale allo stato ancora acerbo. E dopo quello, magari, andrei direttamente a Inland Empire. Da un estremo all’altro, la decostruzione vista prima come stato mentale caotico e poi come raffinatezza estetica portata al limite.

Sono quelle le idee che portano inevitabilmente a film di successo. Sviluppate con la cura maniacale di ogni artista visionario, certo. Le mie due caratteristiche distintive, d’altronde, sono la mia passione per la meditazione, iniziata prima ancora che mi mettessi a far cinema e utilissima per vedere le cose a una profondità superiore, e il mio innato perfezionismo: io sono quello che passava giorni a registrare più volte i suoni di The Grandmother per ottenere il riverbero, o quello che andava in prima persona sotto i termosifoni delle scene di Velluto Blu per sistemare la polvere nel modo che ritenevo migliore. Eppure non crediate, di fallimenti ne ho avuti più d’uno. Come Dune, che fu il mio modo negli anni ’80 di cavalcare l’onda Star Wars e che si può definire tranquillamente un autentico fiasco, o Fuoco Cammina Con Me, la mia voce individuale sui temi della serie Twin Peaks.

Ecco, Twin Peaks fu il lavoro giusto per segnare la fase di mezzo della mia carriera. Venivo da un momento convulso, dopo un paio di film ben riusciti come The Elephant Man e Velluto Blu e gli scarsi risultati che vi dicevo sopra, e far fruttare la mia tecnica ormai consolidata in un formato come la serie tv era l’intuizione migliore che avessi avuto da tempo. I giovani oggi forse non lo sanno, ma in quegli anni ’80 in cui il fenomeno delle serie tv era ancora abbastanza giovane, Twin Peaks fu una bomba d’impatto che oggi non farebbero nemmeno Breaking Bad, Lost e Game Of Thrones messi insieme. E a contribuire alla dimensione cult della serie fu la colonna sonora di Angelo Badalamenti, uno degli esempi più citati di quanto potente possa essere la musica applicata all’immagine. È anche uno dei motivi che han portato molti appassionati di musica ad avvicinarsi alla mia arte, nonostante diversi miei contributi alle colonne sonore dei film precedenti e un Velluto Blu che aveva comunque un mix musicale di classici citato spesso tra le migliori colonne sonore di sempre.

La dimensione musicale, però, nella mia arte non spicca sempre come dovrebbe. Per Twin Peaks e Velluto Blu lo ha fatto, e dopo quel periodo, passata anche la riuscita vicenda allegorica di Cuore Selvaggio, è tornata a farsi notare con quello che probabilmente resta il mio film più famoso: Strade Perdute. L’inizio del film è perfetto per introdurre il tema della perdita dell’orientamento, con Deranged di David Bowie a dare fin da subito quell’aria maledetta. Nel mio film più disturbante in assoluto, però, hanno avuto un ruolo fondamentale elementi industrial e metal come Marilyn Manson, Rammstein e Nine Inch Nails, oltre che i momenti comunque ispirati del solito Badalamenti. Eppure anche lì, perfino Strade Perdute non può definirsi un successo assoluto. La maggior parte dei critici ai tempi lo bocciò definendolo “troppo difficile da seguire“. Era quella cosa dell’idea che andava sviluppata con calma e profondità: si può arrivare anche a creare quei film così difficili che potrebbero quasi portare lo spettatore a rinunciare a capirci qualcosa, tacciandolo per una sequenza insensata di immagini. Ma in fondo sa che non è così. Anche se la ragione la si percepisce solo a livello inconscio. È a quel livello che lavora quel film. Non forzatemi a spiegarvi di più, sapete che è una cosa che non amo. E poi ci son stati già diversi appassionati di teorie freudiane che l’han già fatto per me.

Dopo quel film mi attestai come uno dei più folli visionari dei nostri tempi. E (se escludiamo Una Storia Vera), fu un crescendo convinto in quella direzione, con l’eleganza visiva di Mulholland Drive (altro film incomprensibile solo a un’analisi superficiale) e i fuochi d’artificio finali di Inland Empire, l’apice stilizzato della mia capacità immaginativa. Con questa serie di film allucinati mi si cucì addosso l’aria del mito, e la mia estetica caratterizzante fu chiara a tutti. Furono due film dal carattere irripetibile. E non lo dico in senso positivo. Anzi, è qualcosa che mi tocca confessarvi: segnarono il mio apice creativo, e dopo quelli mi fu difficile lasciarmi trascinare da nuove idee. Proprio perché è quasi impossibile trovare idee efficaci e promettenti come quelle. Non è un problema di perdita d’ispirazione. È semplicemente la conseguenza inevitabile dell’aver provato l’ebbrezza dell’ispirazione più grossa che ti possa mai capitare.

È per questo che da allora non faccio più film. Lo farò solo se troverò l’intuizione giusta, quella per cui vale la pena rimettersi in gioco, con annesso carico di aspettative legate al mio passato. Nel frattempo, però, resto presente nella scena artistica contemporanea in altre forme. Ad esempio dirigendo di tanto in tanto videoclip musicali dallo stile particolare. Una cosa che ho fatto anche in passato, come quel lavoro ben fatto anni fa su Wicked Game di Chris Isaak, e recentemente ho notato che internet reagiva benissimo alla cosa: i videoclip che ho diretto per Moby, Interpol e Nine Inch Nails sono ottimi rappresentanti della mia estetica del disturbo e son riusciti a conquistare il web. E poi sono anche tornato a produrre musica in maniera strutturata, da vero artista: Crazy Clown Time del 2011 e The Big Dream del 2013, due belle discese musicali nell’autocoscienza psichica, con quelle atmosfere fatte di spazi lenti, voci dell’aldilà e acustiche riverberate che vogliono portarvi dritto nei vostri sogni. Esattamente come fanno i miei film.

Di tanto in tanto si torna a parlare di me, lo so. La nuova stagione di Twin Peaks ha riaperto il dibattito sulla mia estetica, il Festival of Disruption quello sul mio background ispirativo, e poi ci sono ancora le uscite discografiche che tanto piacere fanno al pubblico musicale. Però sia chiaro: io non sto cercando in nessun modo di elettrizzare gli entusiasmi o prepararvi a nuovi capolavori. Non ho più l’età per queste cose di marketing. Quel che faccio è offrirvi sempre la cosa più importante che ho: la sincerità di un artista che libera i propri canali espressivi solo quando è mosso da una vera ispirazione. Solo quando ha davvero qualcosa da dire.

Quel che amate della mia arte è la potenza con cui dirompe fuori dalle immagini e dai suoni, per stamparsi in maniera indelebile nei vostri circuiti cerebrali. Con me accade lo stesso. L’idea che vi dicevo all’inizio. Quando è buona, spinge ogni giorno per uscire come un feto indemoniato disposto a squarciare il corpo che lo imprigiona. Da parte mia, l’unico grande regalo che posso farvi è garantirvi che da me vi arriveranno solo i frutti sviluppati e perfezionati delle idee migliori, scartando con rigore tutte le altre. Detto ciò, se voi mi considerate uno dei più grandi geni viventi, o il regista capace di trasmettere nel cinema le sensazioni di turbamento e disorientamento più acute mai avute, beh, non chiedetemi di avvalorare ufficialmente la vostra tesi. In fondo, io sono solo un simpatico perfettino dall’immaginazione fervida, a cui ogni tanto viene qualche buona idea.

Le monografie di Aural Crave sono monologhi immaginati in cui l’artista viene raccontato in prima persona. La verità che incontra l’interpretazione, un modo stimolante per riscoprire i personaggi chiave dei nostri tempi.

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