Il processo a Gesù: ricostruzione, personaggi e responsabilità

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Il processo che portò alla crocifissione di Gesù Cristo è senza dubbio uno dei più famosi della storia dell’umanità, non solo per i credenti ma anche per gli appassionati di antropologia e di diritto. Si tratta di una vicenda che ha notevolmente suggestionato l’immaginario collettivo, al punto che alcuni degli attori principali della vicenda o taluno degli avvenimenti in essa inseriti sono entrati nel patrimonio della tradizione popolare, creando i presupposti per formulare detti o proverbi da adoperare nelle casistiche più disparate degli eventi umani. Basti pensare al “lavarsi le mani” di Ponzio Pilato o al “gallo che cantò tre volte” del rinnegamento di Pietro.

Nel corso di questa breve sintesi, cercherò di fare chiarezza sulle fonti religiose e storiche riguardanti il processo e la passione di Cristo, consapevole di dover operare determinate scelte motodologiche che, inevitabilmente, potranno trascurare elementi di un certo rilievo.

La ricostruzione dei fatti

Non potendo in questa sede affrontare nel dettaglio la spinosa questione storica della composizione dei vangeli, i tre sinottici (Marco, Matteo e Luca) e quello più teologico di Giovanni, è necessario premettere che la maggior parte degli studiosi ritiene che il racconto del processo e della passione di Gesù costituisca proprio il nucleo originario dei vangeli al quale, poi, sarebbero stati aggiunti gli episodi della vita, dei miracoli e finanche della natività. Insomma, si può dire che i quattro vangeli siano stati costruiti intorno all’evento apicale della vita del Maestro, la sua morte e resurrezione.

Sono abbastanza i noti i fatti che portarono all’arresto di Gesù. Dopo la condivisione del banchetto denominato “ultima cena”, Gesù si congedò dagli apostoli e fu arrestato nell’orto del Getsemani, nelle vicinanze di Gerusalemme. I quattro evangelisti sono concordi nel ritenere Giuda l’Iscariota il traditore del Cristo, seppure la sua figura sia delineata con alcune caratteristiche differenziate. La stessa responsabilità morale di Giuda potrebbe essere messa in discussione, in considerazione dell’ineluttabilità del destino che lo sfortunato apostolo era destinato a compiere.

I vangeli ci illustrano con particolari anche minuziosi come Gesù fu portato dinanzi alle autorità religiose e politiche, evidenziando le particolarità del sistema sacerdotale ebraico e la lungimiranza delle istituzioni politiche romane che riuscivano a governare lasciando le popolazioni assoggettate libere di disciplinare le proprie pratiche private e cultuali, semprechè riconoscessero l’autorità di Roma e pagassero i tributi all’erario imperiale. Da un lato incontriamo Anna, Caifa ed il sinedrio, elementi della cultura religiosa ebraica, dall’altra il governatore Pilato e lo stravagante Erode Antipa, il primo inviato direttamente dalla capitale dell’impero, l’altro sovrano di un piccolo regno sotto il protettorato romano.

I quattro evangelisti presentano versioni abbastanza simili del doppio procedimento inquisitorio cui fu sottoposto Gesù, prima davanti alle autorità religiose ebraiche e poi davanti a Pilato. Come abbiamo accennato in precedenza, Roma lasciava le province sottomesse libere delle proprie scelte sui costumi sociali e religiosi, ma fino ad un certo punto. Le autorità locali, infatti, non potevano “condannare a morte” un soggetto accusato di un reato anche grave, perchè lo “ius gladii” (letteralmente diritto di spada, quindi in maniera traslata “diritto di uccidere”) era riservato soltanto al governatore ed, in alcuni casi, era necessario il nulla osta dell’imperatore.

Per meglio inquadrare il sistema giuridico romano del tempo di Gesù, occorre precisare che siamo nel periodo del “principato”: soltanto qualche decennio prima Ottaviano Augusto aveva esautorato le istituzioni repubblicane, ma queste continuavano formalmente ad esistere.

Anche se i racconti degli evangelisti sono abbastanza simili, molti particolari risultano alquanto diversi, come nella dinamica dei vari spostamenti dalla casa del sommo sacerdote, al sinedrio, fino al cospetto di Pilato (soltanto Luca aggiunge l’altra tappa presso Erode Antipa). Marco e Matteo parlano di due riunioni del sinedrio; Luca fa riferimento ad un solo incontro; Giovanni si limita a parlare degli interrogatori del sommo sacerdote Anna e del suocero Caifa. Tutti e quattro gli evangelisti sottolineano come Pilato non trovasse in Gesù nessuna colpa, volendo rimarcare la responsabilità delle autorità religiose ebraiche. Luca forse è quello che insiste di più sulla volontà di Pilato di salvare Gesù, probabilmente perchè la comunità dei suoi seguaci, quando fu redatto il suo vangelo, alcuni decenni dopo la morte di Gesù, era composta da “gentili”, cioè appartenenti al mondo pagano, tra cui anche numerosi cittadini romani. In quest’ottica allegerire la responsabilità dell’istituzione politica romana poteva risultare un’abile mossa strategica.

 I contenuti dei quattro vangeli, comunque, in linea generale, non devono essere considerati come vere e proprie “fonti storiche”, in quanto l’intento dei redattori non era quello di riportare fatti precisi, ma di sviluppare un determinato sotto il profilo teologico.

Dal punto di vista giuridico, non vi è totale accordo fra gli studiosi per poter stabilire se si sia trattato di due processi distinti o di uno soltanto, complesso ma unico. L’ipotesi prevalente è la seconda, alla luce dell’elemento già riportato in precedenza, che cioè solo il governatore romano poteva pronunciare una sentenza di morte e questa era appunto la pena voluta dai capi dei sacerdoti del sinedrio. Del resto nel Vangelo di Giovanni vi è un riferimento specifico a questa regola: “A noi non è consentito mettere a morte nessuno” (Gv. 18,31). Ai sensi del diritto processuale romano, il procedimento penale doveva cominciare con un atto di accusa formale, accusatio, che potremmo chiamare con linguaggio moderno “capo di imputazione”. In questo caso l’accusatio fu portata avanti dal sinedrio e presentata davanti a Pilato, quale magistrato inquirente.

È superfluo ribadire che nel già solido e ricco patrimonio giuridico romano le funzioni legislative, esecutive e giudiziarie, secondo la tripartizione illuminista, non erano ancora separate e ben poteva un magistrato con compiti di governo, come Pilato, essere chiamato a risolvere le controversie penali.

Alcuni esperti ritengono che i precedenti interrogatori a Gesù, ad opera del sommo sacerdote, abbiano avuto lo scopo di formalizzare l’accusa prima che fosse portato al cospetto di Pilato.

A questo proposito si richiama la Lex iulia iudiciorum publicorum emanata da Augusto, secondo la quale l’accusa doveva essere intentata seguendo una procedura che prevedeva un atto scritto e firmato. Dall’analisi delle diverse fasi del processo di Gesù, si può affermare che gli interrogatori presso le autorità religiose non abbiano avuto le caratteristiche di un procedimento a sé stante, ma che si debbano considerare come una sorta di sub-procedimento, al fine di condurre l’accusato davanti all’autorità civile romana.

La figura di Gesù

Ma quali furono le motivazioni che portarono all’ostilità degli ambienti sacerdotali della Palestina del primo secolo nei confronti di Gesù? E quale accusa, nel particolare, potè essere utilizzata per arrivare alla condanna a morte?

I quattro vangeli raccontano in maniera ricorrente gli attacchi di Gesù nei confronti degli “scribi e dei farisei”, le figure predominanti nelle sinagoghe del tempo, di cui criticava in particolar modo la pratica di un culto soltanto esteriore e formale, al punto che nel linguaggio comune attuale l’aggettivo “fariseo” o “farisaico” è diventato sinonimo di “ipocrita”. Memorabili sono i passi evangelici dove le autorità religiose ebraiche sono definite da Gesù “sepolcri imbiancati” (Mt, 23,27), “serpenti e razza di vipere” (Mt. 23,33), “ciechi e guide di ciechi” (Mt, 15,14). E’ chiaro, pertanto, come l’atteggiamento di Gesù potesse essere interpretato come sovversivo e non in linea con l’organizzazione socio-religiosa del suo ambiente. Il Maestro non risparmiò neanche i Sadducei che rappresentavano la parte aristocratica della casta sacerdotale, responsabili della gestione economica del Tempio di Gerusalemme, contro i quali si scagliò in vari episodi maggiormente dettagliati da Matteo, il più “tradizionalista” tra gli evangelisti, il cui messaggio teologico voleva tendere a rimarcare la continuità tra la religione giudaica e la buona novella annunciata dal Cristo.

Non bisogna trascurare un altro elemento importante, un sentimento profondamente umano che con il soprannaturale non ha niente a che fare: l’invidia.

Il seguito di Gesù cresceva giorno dopo giorno e la sua popolarità in rapida ascesa suscitava il risentimento dei navigati sacerdoti che temevano di perdere proseliti e, di conseguenza, entrate finanziarie, previste come periodiche offerte votive, nelle loro grasse casse.

Il Maestro proclamava “la conversione del cuore” ed operava sette giorni su sette, violando in varie occasioni il precetto del riposo sabbatico, provocando veementi reazioni da parte dei Giudei di ogni ceto sociale. In realtà, la sua attività era considerata pericolosa, non tanto perchè violava una disposizione religiosa, ma perchè si poneva in contrasto con i dettami sui quali si poggiava il tessuto socio-economico dell’epoca. Giovanni, poi, più attento all’analisi introspettiva, aggiunge un’altra motivazione importante, facendo riferimento ai timori della classe sacerdotale giudaica che il suo movimento potesse incrinare il precario equilibrio politico con i dominatori romani.

Tuttavia, le prove che i detrattori di Gesù andavano raccogliendo non potevano bastare, affinchè il governatore romano potesse decretarne la morte, finanche quella della sua autoproclamazione come “Messia”. Come abbiamo accennato in precedenza, il processo romano, seppure a livello embrionale, poneva qualche regola “garantista” di base. Lo stesso non si può dire per la frequente affermazione di Cristo che metteva sé stesso sullo stesso piano di Dio: questa era considerata una bestemmia e per la legge giudaica si poteva procedere a formalizzare l’accusatio per la condanna a morte. Come vedremo, neanche la bestemmia fu sufficiente per convincere Pilato.

Le autorità del tempo

Cerchiamo di capire quali figure fossero direttamente coinvolte nella triste vicenda.

I vangeli a volte si riferiscono “ai sommi sacerdoti”, utilizzando il plurale. Sappiamo che il sommo sacerdote in carica era solo uno, per cui nella lettura dei testi si è ingenerata una certa confusione. Al tempo di Gesù, il sommo sacerdote era Caifa che, comunque, era genero di Anna, ex sommo sacerdote, dal quale era ancora influenzato, per prestigio ed autorevolezza, nell’espletamento delle sue funzioni.

Il sommo sacerdote aveva due compiti istituzionali fondamentali: da un lato era il capo del culto religioso, al quale erano riservate determinate pratiche, come l’ingresso nel luogo dove era conservata l’arca dell’alleanza e dall’altro era una sorta di “presidente” del “sinedrio”, un consesso che aveva non solo giurisdizione religiosa, ma anche in campo civile e sociale. Non bisogna dimenticare che nel mondo antico non era stato affinato il concetto di “laicità” e, pertanto, gli incarichi religiosi erano molto spesso associati a quelli di carattere politico. Il sinedrio si componeva di 71 membri, incluso il sommo sacerdote, ed era composto soprattutto da Farisei e Sadducei, le due fazioni più rappresentate nel suo ambito. Come riporta lo storico Giuseppe Flavio, probabilmente il sinedrio si riuniva nel Tempio di Gerusalemme nella cosiddetta “sala delle pietre squadrate”, forse situata nei pressi del porticato/colonnato.

Rivolgendo l’attenzione alle autorità civili, non si può non spendere due parole su Ponzio Pilato, un ambizioso e forse mediocre procuratore romano, passato alla storia (inserito perfino nel “Credo” della Chiesa cattolica, apostolica e romana) come colui che se ne “lavò le mani” davanti alla volontà dei Giudei di condannare a morte Gesù. Egli, in qualità di governatore della provincia della Palestina, risiedeva a Cesarea Marittima, designata come fulcro dell’attività politica e militare. Per determinati eventi, come in occasione di feste religiose di cui si prevedeva ampia partecipazione popolare o in caso di tumulti, Pilato si spostava a Gerusalemme per tenere sotto controllo la situazione.

Non si possiedono sufficienti testimonianze storiche per individuare con precisione la sede del governatore nella città di Gerusalemme, anche se la tradizione cristiana la identifica con la Fortezza Antonia, dalla quale si poteva godere di una vista privilegiata sull’area del Tempio. Oltre ai testi evangelici abbastanza indulgenti nei confronti del governatore, gli scrittori Filone e Giuseppe Flavio ci offrono un quadro abbastanza negativo della personalità di Pilato, non solo per azioni condotte nei confronti della popolazione della Palestina che dominava con inflessibilità e durezza, ma nei confronti delle stesse istituzioni romane, alle quali non sarebbe stato fedele, in quanto dedito alla corruzione ed alle appropriazioni indebite di beni per fini personali.

Soltanto il vangelo di Matteo menziona la moglie di Pilato (Claudia Valeria Procula, anche se l’evangelista non riporta il suo nome), addirittura santificata come santa Procula o Procla nel culto della chiesa ortodossa. Il mito nasce dal riferimento evangelico, secondo il quale la donna, dopo un sogno, avrebbe avvertito il marito Pilato di non condannare Gesù. Probabilmente è un elemento in più inserito nel testo per far capire come fosse tormentato lo stato d’animo del governatore nel corso del processo.

Cosa accadde intorno al processo

Per quanto riguarda la sequenza degli avvenimenti, notiamo una chiara discordanza tra quanto raccontato dai sinottici rispetto alla narrazione giovannea.

Infatti, Marco, Matteo e Luca parlano della ricorrenza della Pasqua ebraica, che si celebra il 15 del mese chiamato “nisan”, mentre Giovanni afferma che si trattava della vigilia della Pasqua (il 14 di nisan). Questa divergenza pone notevoli problematiche per ritenere veritiera l’evoluzione degli eventi, così come celebrata dalla tradizione  e cristallizzata nella liturgia del “triduo pasquale”. E’ probabile che l’ultima cena non si sia svolta di giovedì, ma che debba essere retrodatata al martedì.

Gli storici più accreditati, tra cui il Meier, privilegiano in questo senso il resoconto di Giovanni, essendo molto più verosimile che l’intera attività processuale e la stessa esecuzione di Gesù siano avvenute in un giorno di “vigilia”, piuttosto che di festa.

A ciò si aggiunge il fatto che Giovanni, nei fatti antecedenti alla passione di Cristo, a partire dal “miracolo” della resurrezione di Lazzaro, si riferisce ad una riunione del sinedrio avvenuta settimane prima, rendendo più verosimile la sequenza dei fatti.

I dati riportati dai sinottici presentano una situazione troppo caotica ed un arco temporale troppo limitato, perchè si possa credere che si siano concentrati tutti gli eventi. Anche sull’orario delle crocifissione, le versioni dei vangeli sono diverse: Marco parla delle nove del mattino, mentre Giovanni sposta la macabra scena a circa tre ore dopo, intorno a mezzogiorno.

Il quarto evangelista, inoltre, è quello che lascia un quadro più completo della possibile formulazione dell’accusa finale, nel cosiddetto “titulus crucis”: Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto “Gesù, il Nazareno, il re dei Giudei”. Molti Giudei lessero questa iscrizione, perchè il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritto in ebraico, in latino e in greco (Gv 19,19-20). E’ chiaro l’intento di Giovanni di evidenziare come i detrattori di Gesù, accortisi che le loro argomentazioni religiose, perfino la blasfemia, non riuscivano a convincere Pilato a condannare a morte Gesù, avessero spostato il baricentro delle loro accuse sulle motivazioni politiche, suggerendo al governatore che il messia impostore voleva sostituirsi all’autorità dell’imperatore. Gli studiosi si sono anche chiesti se fosse possibile che un condannato a morte di una provincia periferica ricevesse così tante attenzioni, da meritare un’iscizione in tre lingue: l’ebraico, la lingua del posto; il latino, la lingua dell’impero; il greco, in versione “coinè”, la lingua più diffusa nel Mediterraneo, per prestigio ed autorevelezza culturale, in cui poi saranno redatti gli stessi vangeli e le lettere paoline.

Può darsi che il redattore del Vangelo, attribuito pseudoepigraficamente a Giovanni, peraltro composto probabilmente intorno al 90 d.C., quindi diversi decenni dopo la vita di Cristo, abbia voluto aggiungere una nota epica per rendere universale il messaggio del Maestro, rendendo il “titulus crucis” iscritto in tre lingue, di cui due erano le più importanti del bacino del Mare nostrum.

Si intuisce, in tale contesto, il fastidio di Pilato, per una vicenda di cui riteneva responsabili le autorità giudee, quando gli chiesero di cambiare l’iscrizione in: Egli ha detto Io sono il Re dei Giudei, la sua risposta lapidaria fu “quod scripsi, scripsi” (ciò che ho scritto, ho scritto- Gv 19,22).

Gli esegeti si dibattono da secoli su questo interrogativo: a chi attribuire, in definitiva, la responsabilità della morte di Gesù? Fino all’epoca contemporanea, la maggior parte degli autori cristiani tendeva a colpevolizzare il sommo sacerdote Caifa ed i membri del sinedrio, mentre gli studiosi di cultura ebraica, basandosi sulle tesimonianze di Filone di Alessandria, cercavano di sottolineare la responsabilità del procuratore romano, l’unica autorità a detenere l’imperium e lo ius gladii.

Seguendo lo studio approfondito elaborato dai fratelli Lemann, il sinedrio era fermamente deciso ad ottenere la condanna a morte di Gesù, a prescindere dalla sua innocenza, realizzando un procedimento che potremmo definire quasi “politico”.

I fratelli Lemann ribadiscono, inoltre, come anche nelle azioni promosse dal sinedrio, vi fossero precise regole da rispettare e come le stesse regole siano state ripetutamente violate nei confronti di Gesù.

In particolare, la Legge ebraica vietava di giudicare di notte e gli evangelisti riferiscono che “era notte”, quando il prestigioso consesso si riunì.

Altre importanti violazioni possono essere individuate nel fatto che il giudizio si era tenuto nella vigilia di una festa e nella singolare circostanza che Gesù fu interrogato da Caifa che ricopriva nel contempo le funzioni di accusatore e di giudice. Già il Deuteronomio (uno dei cinque libri che formavano il “pentateuco”, il torà biblico) vietava che la stessa persona fosse chiamata contemporaneamente ad accusare e a giudicare. Da ciò si evince, come del resto dicono i vangeli, che il sinedrio giustificasse le violazioni del proprio sistema giuridico, adducendo motivazioni connesse all’ordine pubblico ed al benessere collettivo.

Ponzio Pilato

Per capire l’approccio di Pilato alla questione di “Gesù”, bisogna tener conto che egli governava la Giudea già dal 26 d.C., quindi quattro anni prima dell’anno 30, in cui si sarebbe svolta la vicenda giudiziaria, così tristemente famosa. E ci sono due fattori che possono farci comprendere meglio l’atteggiamento di Pilato durante il processo.

In primo luogo, poco dopo il suo insediamento a Cesarea ordinò ai suoi soldati di innalzare, nella città di Gerusalemme, le insegne romane con immagini ritenute blasfeme dai Giudei (l’imperatore raffigurato come una divinità). L’affronto alla popolazione locale fu compiuto di notte, affinchè al risveglio i cittadini si trovassero di fronte al fatto compiuto e si evitassero violenti tumulti. In tale circostanza gli Ebrei supplicarono il procuratore di rimuovere i vessilli per cinque notti e cinque giorni davanti al suo palazzo di Cesarea, al punto che Pilato si decise a cedere.

Come secondo episodio importante, avvenuto qualche anno dopo, si narra che Pilato dovette rimuovere dal suo palazzo alcuni “scudi” esposti in onore all’imperatore Tiberio che, comunque, non contenevano iscrizioni blasfeme. L’aspetto più significativo è ravvisabile nella circostanza che i Giudei, per la rimozione degli oggetti, si rivolsero direttamente a Tiberio che, in qualche modo, sconfessò il suo governatore, in pratica delegittimando il suo operato.

Pertanto, al momento del processo a Gesù, Pilato sentiva il suo potere vacillare, temendo questo filo diretto tra il sinedrio che detestava, come l’intero modo di pensare ebraico, e l’imperatore Tiberio.

Come già si è detto, dalle citazioni evangeliche emerge come Pilato abbia cercato di non condannare Gesù, ma che non l’abbia impedito, perchè intimorito dal sinedrio che addirittura invocava la liberazione del noto malfattore Barabba.

È stata peraltro avanzata l’ipotesi che Pilato, a dispetto della mediocrità e della viltà che la tradizione comune gli attribuisce, abbia compiuto una sottile valutazione politica: il governatore, messo alle strette, avrebbe preferito che la condanna di un giusto fosse ascritta al sinedrio giudeo, piuttosto che al volere diretto di un alto rappresentante della politica romana. Insomma, Pilato temeva che il sinedrio, così inferocito e determinato ad ottenere la condanna a morte di Gesù, si rivolgesse direttamente all’imperatore, descrivendolo come un nemico di Roma, trovandosi, poi, costretto a dover revocare una sua eventuale decisione più clemente.

A differenza degli storici ebraici, come Filone e Giuseppe Flavio, i cui scritti sono intrisi di nazionalismo, i vangeli sono molto più obiettivi nel descrivere la figura di Pilato. Di grande suggestione è la frase rivolta a Gesù: Quid est veritas? (Gv 18,38), rivelando una personalità tutt’altro che “scettica” e priva di interessi spirituali.

Ed, infatti, i capi dei sacerdoti comprendendo che Pilato non avrebbe ratificato una condanna a morte per motivi religiosi, iniziarono ad accusarlo come rivoluzionario anti-romano, al punto che un eventuale rifiuto da parte sua di condannarlo, sarebbe stato quasi certamente ribaltato da un eventuale ricorso proposto all’imperatore.

Anche la proposta di rilasciare uno dei condannati, Gesù o Barabba, può essere letta come l’estremo tentativo di Pilato di salvare il Maestro. Considerata l’accoglienza che aveva ricevuto pochi giorni prima, all’arrivo a Gerusalemme, Pilato sperava che la folla chiedesse la liberazione di Gesù. E forse aveva anche ragione, ma i vangeli ci dicono che gli esponenti del sinedrio sobillarono il popolo affinchè chiedessero il riscatto di Barabba.

L’affermazione di Pilato non lascia spazio ad equivoci: “sono innocente del sangue di questo giusto, pensateci voi” (Mt 27,24), così come il gesto di “lavarsi le mani” non deve essere per forza interpretato come un voler rimanere indifferente davanti a ciò che stava accadendo. Pilato aveva studiato le abitudini ebraiche e sapeva benissimo che presso quel popolo il gesto di lavarsi le anni voleva indicare il prendere le distanze dalla colpevolezza (nel libro del Deuteronomio tale gesto si compiva, quando ci si imbatteva in un cadavere e si voleva far capire di non essere stati colpevoli della sua uccisione).

Gli stessi Ebrei capirono benissimo dove il governatore volesse andare a parare, rispondendo “che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” (Mt 27,25).

Sono le stesse parole di Gesù, però, ad assolvere, almeno parzialmente, il comportamento di Pilato: “chi mi ha consegnato a te è colpevole di un peccato gravissimo. Tu non avresti nessun potere su di me se non ti fosse dato dall’alto” (Gv 19,11). E’ come se il Cristo esprimesse un certo sentimento di empatia nei confronti di Pilato, rimarcando anche l’ineluttabilità del compimento del proprio destino per la salvezza dell’umanità. In un certo qual modo ci troviamo, seppure con connotazioni del tutto diverse, di fronte ad un dilemma morale, fluttuante a metà strada tra il determinismo e l’arbitrio individuale, come nel caso del tradimento di Giuda, dallo scrivente ampiamente analizzato nel testo I miti-luci e ombre, pubblicato nel 2018.

Gli altri personaggi

Non tutti i membri del sinedrio erano ostili a Gesù: tra questi spicca la figura di Giuseppe di Arimatea. In realtà solo Marco e Luca rimarcano l’appartenenza di Giuseppe al prestigioso consesso (Marco lo definisce “autorevole membro”).

Giovanni sottolinea come Giuseppe di Arimatea fosse da tempo discepolo di Gesù, ma che mascherasse l’adesione alle sue dottrine per evitare ritorsioni da parte della casta sacerdotale. In particolare la sua figura è legata alla deposizione dalla croce ed alla sepoltura del corpo di Gesù. Molti storici hanno messo in dubbio la storicità di Giuseppe di Arimatea, considerandolo un personaggio creato dai primi scritti a cui attinsero i redattori dei vangeli per giustificare la successiva miracolosa resurrezione di Cristo. Gli studiosi si basano sul fatto che le consuetudini romane prevedevano che i giustiziati fossero lasciati sulla croce ed esposti agli animali predatori e che, poi, fossero sepolti in una fossa comune senza alcuna cerimonia né pubblica, tantomeno privata. Tra le fonti storiche mancano testimonianze di eccezioni a tale procedura.

Tuttavia, convengo con coloro che osservano che, in relazione al processo ed alla passione di Gesù, nessuna regola codificata o prassi tramandata oralmente fu rispettata e, pertanto, non si può escludere che un personaggio così autorevole come Giuseppe di Arimatea possa aver ottenuto dal governatore il corpo di Gesù per assicurargli una degna sepoltura. Non dimentichiamoci che Pilato “non volle assumere su di sé la responsabilità dell’uccisione di Gesù” e quel gesto di umanità nella consegna del cadavere potrebbe essere interpretato come un modesto riguardo nei confronti di un uomo che riteneva “giusto” e le cui parole forse l’avevano impressionato nel corso dell’interrogatorio. Il gesto di Pilato potrebbe essere considerato anche come un piccolo atto di rivalsa nei confronti del sinedrio che disprezzava. Su Giuseppe di Arimatea sono fiorite numerose leggende che lo vedrebbero collegato alla Britannia ed alla ricerca del sacro graal, nonché, in una fantasiosa ricostruzione, complice di Nicodemo nell’aiutare Gesù, deposto dalla croce in uno stato di morte apparente, a fuggire verso l’India.

Nicodemo è presente solo nel vangelo di Giovanni, descritto come dottore della legge e membro del sinedrio. Egli avrebbe aiutato Giuseppe di Arimatea a deporre Gesù dalla croce e a riporre il suo cadavere nella tomba con “una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre” (Gv 19,39). La tradizione attribuisce a Nicodemo un vangelo apocrifo: si tratta di certo di un’attribuzione pseudo-epigrafica, in quanto composto  verso la metà del II sec. d.C.. Lo scritto è interessante perchè si dilunga sulla fase di deposizione del corpo di Gesù e si sofferma sulla figura di Pilato.

Al di là dei ruoli che ricoprirono i due personaggi alla fine della vicenda processuale di Gesù, è importante notare che emerge come il sinedrio non fosse del tutto compatto. Questa constatazione ci porta a credere che forse proprio la consapevolezza dei capi religiosi che il messaggio di Cristo stava facendo breccia in tutte le classi sociali, perfino all’interno della casta sacerdotale, abbia contribuito alla formulazione della sua atroce condanna.

Le altre fonti

Ed, avviandoci alla fine di questa sintesi, è giusto chiederci se via siano state altre fonti, oltre ai quattro vangeli, che abbiano attestato il processo di Gesù. Tra queste, una delle più importanti è riportata negli Annali di Tacito, quando lo storico romano riferì della decisione di Nerone nel 64 d.C. di accusare i Cristiani dell’incendio di Roma (….omissis…origine di questo nome era Christus, il quale sotto l’impero di Tiberio era stato condannato all’estremo supplizio dal procuratore Ponzio Pilato).

Molti studiosi non ritengono attendibile il riferimento di Tacito che scrive nel secondo decennio del II secolo d.C. e potrebbe essere stato influenzato dai vangeli e dalla diffusione di notizie ormai già dilaganti sulla nuova setta cristiana.

Ed ancora si parla del processo nella “Storia universale del popolo giudaico” di Giuseppe Flavio, redatta alla fine del I sec. a.C., anche se molti esegeti la ritengono un’interpolazione aggiunta da copisti cristiani. Si cita, inoltre, anche il Talmud babilonese che racconta di un “maestro anticonformista” giustiziato nella vigilia di pasqua per stregoneria ed apostasia. Una parte degli studiosi non ritiene che tale menzione possa essere riferita al personaggio di Gesù Cristo.

Per quanto riguarda i fatti narrati nei vangeli apocrifi, non bisogna prestarci molta attenzione, in quanto elaborati tra il II ed il III secolo d.C., molto tempo dopo rispetto agli eventi descritti ed adattati ad una tipologia di visione gnostica e sapienziale, lontana da ogni pretesa di carattere storiografico.

Stabilire se la condanna di Gesù sia stata determinata da motivazioni religiose o da cause politico-sociali rappresenta una problematica di difficile soluzione. Ciascun interprete ha cercato di dare la propria spiegazione, ovviamente condizionata dalla personale sfera di pre-comprensione, ossia dal rispettivo bagaglio formativo e culturale.

È d’obbligo prestare attenzione al fatto che non siamo di fronte ad un resoconto di tipo storico o giornalistico, ma i quattro vangeli che costituiscono le fonti storiche del processo a Gesù sono da considerarsi narrazioni di impostazione teologica, la cui attendibilità richiede una seria ed approfondita esegesi di tutti gli elementi in gioco.

È certo, comunque, che Gesù incarnava il prototipo del personaggio rivoluzionario ed anticonfomista che mirava ad “una conversione del cuore” e si scagliava contro i rigidi formalismi dei rituali sacerdotali ebraici. L’universalità del suo messaggio, al di là dell’aspetto religioso, facendo anche solo un discorso di tipo sociale, aveva scandalizzato i tradizionalisti Farisei e gli aristocratici Sadducei. Di certo non si poteva tollerare un “maestro” che aveva come seguaci pubblicani, peccatori e perfino donne, cosa impensabile in una società rigidamente patriarcale come quella ebraica.

Ed allora forse non è così azzardato, sulle orme di Erasmo da Rotterdam, affermare che Gesù, come Socrate, nonostante le evidenti differenze di appartenenza culturale (giudaica e greca), andò incontro alla morte, fedele al proprio ideale, favorendo lo sgretolamento del sistema sociale in cui era vissuto.

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