Perché dire che “siamo in guerra” è mortificare la nostra anima sociale

È ormai un anno che ce lo sentiamo ripetere con tono imperativo: “Siamo in guerra!”, “È come una guerra!”, “Dobbiamo combattere!”, “Dobbiamo resistere!”, queste frasi sono impresse nel nostro subconscio in maniera così profonda da farci pensare ed agire di conseguenza. Ascoltiamo ogni giorno il bollettino dei morti, ci siamo abituati alle rinunce, ai sacrifici, al dolore, resistiamo al nemico e lottiamo contro i suoi alleati, i nemici sempre nuovi che arrivano di volta in volta ad offrire una spalla all’invasore, perché chiunque, esattamente come in una guerra, è un potenziale disertore, dunque qualsiasi comportamento ritenuto leggero ed irresponsabile può dare vita ad una nuova categoria di untori da colpevolizzare. Ed esattamente come una guerra è stata gestita la situazione pandemica fin da subitissimo, non soltanto a livello linguistico, basti pensare al quasi immediato schieramento dell’esercito per le strade ed alle conseguenze di una scelta del genere.

Abbiamo vissuto e stiamo vivendo, in una situazione di emergenza, di pericolo, di precarietà, acuite e drammaticamente fomentate nella nostra percezione dalla gestione militarizzata e dalla narrativa bellica: ci siamo sentiti vittime di un’invasione ed abbiamo e stiamo lottando per la nostra sopravvivenza. Questo ci ripetiamo da un anno, esattamente con queste parole, con il risultato di enfatizzare la sensazione di paura e pericolo e di sentirci impegnati in una lotta contro un nemico invisibile che non ci dà tregua. È questo che fanno precisamente le parole: danno forma alle cose, ai pensieri, alle emozioni, hanno questo di magico. In questo caso le parole scelte sono riuscite a definire e rendere sempre più verosimile il parallelo della situazione pandemica con la condizione di guerra permanente, spingendoci a stravolgere completamente le nostre vite sino a ritenere necessarie e giustificabili rinunce cui in nessun altro caso saremmo stati disposti, ma in guerra nulla è troppo, tutto è ammissibile, ogni sacrificio è necessario e giustificabile, pena la vita. Ecco che diventa chiaro quanto potere abbiano le parole e quanto sia importante usarle con consapevolezza e responsabilità; consapevolezza e responsabilità che dovrebbero spingerci a demilitarizzare il gergo: perché parole diverse avrebbero il potere di generare una reazione diversa, senza la metafora della guerra forse ci sarebbe stato un clima di maggior coesione sociale, forse non ci saremmo sentiti vittime necessariamente sacrificali e ci saremmo spinti a vedere possibilità ed opzioni alternative, forse, in certi casi, avremmo sentito il bisogno di qualche diritto e qualche tutela in più, forse non saremmo così psicologicamente provati, forse soprattutto avremmo potuto ambire all’affiorare di sentimenti diversi come la solidarietà e l’empatia, perché, guerra o non guerra, la pandemia è sicuramente qualcosa di difficile da gestire e forse sarebbe più semplice farlo in un clima di collaborazione e di cooperazione, piuttosto che accusandosi l’un l’altro.

Ormai è trascorso un anno dall’inizio di tutto questo e l’andamento epidemiologico non sembra migliorare, anzi, lo scenario resta il medesimo: guerra, catastrofe e morte, nessuna speranza, nessuna salvezza. E così le giornate sono un ripetersi inutile di azioni senza prospettiva in un eterno ritorno dell’uguale che non lascia spazio se non ad un’agghiacciante rassegnazione, perché fuori c’è la guerra, non sappiamo come salvarci e possiamo solo non fare niente e stare buoni buoni a casa ad attendere nulla, condannati all’inerzia. Perché nulla ha più valore: non il lavoro, non l’istruzione, non i legami affettivi, non le cose che rompevano la routine e che rendevano una giornata speciale. Certo che no, siamo in guerra. L’emozione collettiva ormai è quella dell’angoscia e se siamo catapultati in questo stato d’animo forse bisognerebbe evitare di aggravare la situazione spingendola al limite della nevrosi collettiva. La condizione è estremamente precaria, dal punto di vista emotivo, sociale, lavorativo, economico, e tutto questo è conseguenza di un’emergenza innanzitutto sanitaria, della quale i cittadini chiaramente non sono responsabili, ma della quale si trovano a subire le abnormi conseguenze, pertanto bisognerebbe smettere di continuare a colpevolizzarli per gli scenari apocalittici, smettere di raccontare di una guerra con un nemico troppo grande e troppo potente, perché ciò ha conseguenze enormi sul malessere individuale e collettivo e ci traghetta sempre più verso la nostra solitudine ontologica, privati come siamo della possibilità di sublimarla in uno spazio sociale di condivisione.

Sembra davvero ottuso ormai continuare a credere che andrà tutto bene nell’orizzonte puntiforme in cui siamo costretti a vivere, nella più totale assenza di progettualità; il rischio è che la precarietà non resti transitoria, ma diventi profonda, radicale, esistenziale, perché vivere senza prospettive, senza orizzonti, sacrificando tutto per un tempo indefinito e senza scadenze che non si sa quando ed in che modo finirà, sembra essere una partita già persa. E dunque, almeno facciamo attenzione a quello che diciamo ed a come lo diciamo, facciamo sì che le parole ci aiutino a costruire un orizzonte verso cui orientarci, una strada che ci conduca all’aggregazione (metaforica, per carità, senza assembramenti!) e non alla disgregazione, preserviamo una speranza ed una prospettiva di senso che ci permetta di non arrenderci alla sensazione d’ineluttabilità che incombe, perché la condizione psicofisica individuale e quella sociale sono davvero sul punto di esplodere. Usiamole bene, le parole, conservando la metafora, sono anch’esse un’arma potente.

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