Il Sacro Graal: tra storia, leggenda e simbolismi

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Tra i numerosi argomenti che affrontiamo oggi, quello del “Sacro Graal” è sicuramente uno dei più affascinanti e conosciuti, ma nello stesso tempo uno dei più complessi e sfruttati in termini letterari e cinematografici. Cercare di delineare una sintesi sulle origini del suo mito e sui molteplici significati simbolici relativi a questo misterioso oggetto, è senza dubbio un compito arduo ed irto di difficoltà, che deve essere portato avanti con la consapevolezza di dover operare scelte  di metodo e di dover trascurare inevitabilmente qualche elemento significativo.

Le leggende del Sacro Graal

Quando pensiamo al sacro Graal ed alla sua versione classica, il nostro pensiero è indirizzato a concepire la coppa con la quale Gesù celebrò l’ultima cena con gli apostoli e nella quale Giuseppe di Arimatea avrebbe raccolto il sangue versato dal suo costato, dopo la crocifissione. Una delle prime versioni consolidate del mito tradizionale del Sacro Graal è fornita da Robert de Boron all’inizio del Tredicesimo secoloche, nel poema Joseph d’Arimathie, lo elaborò alla luce anche dell’antica usanza in ambiente celtico del cosiddetto “calderone”. Nelle leggende celtiche, infatti, quest’ultimo era il simbolo di abbondanza materiale e di conoscenza illimitata, diventando anche il luogo dove poter gettare i defunti, in modo da farli resuscitare il giorno seguente. Come era avvenuto nell’area mediterranea del decadente impero romano d’Occidente, il Cristianesimo assimilò usanze antiche delle popolazioni nordiche, adattandole alle esigenze della nuova religione di stato. Ad imitazione del “calderone” che infondeva energia e forza nei guerrieri celtici, allo stesso modo il sangue contenuto nel sacro calice doveva essere in grado di tenere salda la fede dei Cristiani.

Già da questo breve preambolo, prima di illustrare ulteriori approfondimenti, si comprende come la leggenda del Sacro Graal affondi radici molto più antiche del Cristianesimo stesso. Alcuni anni prima del poema di Robert de Boron, vi era stata un’opera lasciata incompiuta dal francese Chretien de Troyes, una sorta di romanzo intitolato Perceval. Si tratta di uno dei primi scritti dove viene usato il termine graal, con riferimento ad un piatto d’oro incastonato di gemme, utilizzato durante una processione per trasportare l’ostia consacrata. Il protagonista della storia, un giovane cavaliere, rileva anche la presenza di una lancia sanguinante alla punta, alludendo con ogni probabilità all’arma che ferì il costato di Gesù sulla croce.

Gli storici si sono interrogati sulla natura della coppa utilizzata da Gesù Cristo nel corso dell’ultima cena. Era una normale coppa da tavola o possedeva qualche caratteristica particolare? Se si fa riferimento ai costumi della Palestina ai tempi di Gesù, è più probabile ritenere che si sia trattato di una coppa intagliata nel legno, oppure realizzata in gesso bianco o in altro tipo di roccia calcarea. Un contenitore di siffatto materiale sarebbe sopravvissuto molto difficilmente attraverso i secoli, mentre il discorso cambia, qualora il calice di Cristo fosse stato di metallo.

Lo storico britannico Richard Barber sostiene che le prime prove della coppa attribuita a Cristo risalgano alla seconda metà del settimo secolo, quando un vescovo, chiamato Arnolfo, partì per la Terra Santa, riportando un diario piuttosto dettagliato del suo viaggio. Arnolfo raccontò che in una chiesa del Santo Sepolcro in Gerusalemme aveva ammirato un calice d’argento, conosciuto come la “coppa del Signore”. E’ chiaro che l’oggetto esposto avrebbe potuto avere un significato eminentemente simbolico.

Riferendoci, poi, al termine “Graal”, gli studiosi lo fanno risalire al termine latino-medioevale gradalis, traducibile, a seconda dei contesti utlizzati, come “scodella” o “vaso”, o anche semplicemente come “contenitore”. Secondo altri storici il termine “graal” potrebbe derivare dal greco krater, che indicava un grande calice provvisto di maniglie. Alcune particolari raffigurazioni di “vasi” nei racconti mitologici classici volevano proprio indicare le azioni benefiche di entità superiori, come la famosa “cornucopia” dei Greci e dei Romani, ereditata poi dalla tradizione cristiana ed incisa o dipinta nelle opere artistiche di numerose chiese. Pochi anni dopo il già citato poema di Robert de Boron, in ambito germanico l’autore Wolfram Von Eschembach compose il Parzifal, inserito nel ciclo arturiano, dando vita ad un altro filone interpretativo del Sacro Graal. Secondo Von Eschembach il Graal non dovrebbe essere inteso come una coppa, ma come una pietra purissima in grado di regalare l’immortalità. Nel poema essa è denominata lapis exillis, da molti esegeti decifrata come lapis ex coelis, ossia “pietra caduta dal cielo”. Il fantasioso autore tedesco richiamerebbe un’antica leggenda irlandese che narrava di un popolo di semidei, i Thuata di Danan, che avrebbero portato con sè la miracolosa pietra dalla loro prima dimora situata nel cielo. Secondo Von Eschembach, la pietra da identificare con il Sacro Graal sarebbe uno smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero, portato sulla Terra dagli angeli rimasti neutrali durante la ribellione. Il Graal sarebbe stato, poi, affidato nelle mani di una principessa vergine, la sola che poteva permettersi di toccare un oggetto così sacro. Il figlio di questa, tuttavia, avrebbe subìto una grave menomazione, dove esser stato sedotto da una strega ed aver peccato con lei. Soltanto il giovane e puro cavaliere Parzifal, appartenente alla leggendaria Tavola Rotonda, avrebbe riscattato l’intero regno dal peccato, acquisendo la dignità di nuovo re del Graal. Risulta chiaro come i versi di Von Eschembach abbiano un contenuto didascalico e simbolico, con l’intento di rendere il Graal l’emblema del sacramento dell’eucaristia, difeso dai Templari che prosperavano, secondo alcune credenze, grazie alla forza sprigionata dal sacro oggetto. Ogni venerdì santo un colomba, simbolo della purezza e della pace, porterebbe sulla pietra un’ostia consacrata, capace di infondere nel Graal un potere impareggiabile.

Facendo un salto nel diciottesimo secolo e riferendoci alle visioni della monaca Anna Katharina Emmerick, il Graal diventa quasi un simbolo della storia della salvezza promessa da Dio all’umanità. Il sacro oggetto, infatti, viene immaginato come costituito da una materia sconosciuta e caduto dalla fronte di Lucifero dopo la ribellione, a similitudine della leggenda irlandese. La storia del sacro graal è oniricamente dipanata in una serie di innumerevoli periperizie a cominciare da Adamo, passando per Mosè, fino ad essere adoperato da Gesù durante l’ultima cena. È interessante notare come la tradizione, che individua nella pietra caduta dal cielo la forma corrispondente del Sacro Graal, sia riconducibile, in maniera verosimile, anche alla pietra nera custodita nella Ka’ba di La Mecca, secondo la versione islamica, portata dal paradiso sulla Terra direttamente da Allah. Gli Islamici che vantano di rifarsi al monoteismo abramitico puro, scevro dai rituali mosaici tipici dell’Ebraismo, ritengono che la pietra fu messa in salvo da Noè durante il diluvio universale, per poi essere recuperata dallo stesso Abramo nella regione dove sarebbe sorta La Mecca.

A partire dall’età medioevale, la straordinaria dignità, in qualità di coppa adoperata da Gesù Cristo nell’Ultima cena, fu attribuita a molteplici oggetti, collegando l’etimologia dei termini francesi san greal (sacro graal) a sang real (sangue reale), per alludere in maniera chiara al sangue del Messia, interpretato da alcuni anche con il significato di “stirpe” o di “discendenza”, come riprenderà in maniera fantasiosa, ma efficace, Dan Brown nel best seller del 2003, Il Codice da Vinci. Uno dei primi autori che operò tale collegamento fu Jacopo da Varagine nel 1260, raccontando che durante la Prima Crociata del 1099 i Genovesi avrebbero ritrovato il calice di Cristo. In realtà, si trattava di un vaso, intagliato in una pietra verde lucida, condotto nella Repubblica di Genova da Guglielmo Embriaco Testadimaglio, attualmente conservato nel Museo del Tesoro della splendida cattedrale dedicata a San lorenzo nel capoluogo ligure. Un altro oggetto che la leggenda ricollega al Sacro Graal è il santo caliz, una coppa di “agata”, custodita nella cattedrale di Valencia, la terza città della Spagna. Sul calice “spagnolo” vi è incisa un’iscrizione araba ed esso, secondo la leggenda, fu dapprima portato da San Pietro a Roma, anche se i primi riferimenti certi alla sua storia risalgono soltanto alla fine del quattordicesimo secolo, quando fu donato al re Martino I di Aragona da parte del monastero di San Juan de la Pena, in cambio di una coppa d’oro. E’ inutile aggiungere che sono state fatte numerosissime altre  speculazioni sui luoghi dove possa essere custodito il Sacro Graal. Senza perderci in un’interminabile quanto oziosa elencazione, possiamo ricordare i luoghi più signficativi e legati al folclore popolare, come l’enigmatico ed impareggiabile Castel del Monte in Puglia, l’imponente Maschio Angioino di Napoli o la Cattedrale di Bari, sul cui portale è tratteggiata un’immagine di Re Artù. Altri immaginano il sacro graal seppellito in un profondo pozzo di Aquileia, il cosiddetto puteum aureum, oppure nascostonella cappella di San Galgano a Montesiepi in Toscana e così via. Per quanto riguarda l’estero, altrettanto numerosi sono i luoghi dove la leggenda colloca il Sacro Graal. Ne citiamo soltanto alcuni, come il castello di Gisors in Francia, dove lo avrebbero portato i Templari, la Cappella di Rosslyn in Scozia, a Valona in Albania, all’interno della Sagrada Familia a Barcellona, nella chiesa di Rennes-le Chateau in Francia, sull’isoletta di San Patrizio, poco distante dall’isola di Man, dove una certa tradizione colloca in maniera fantasiosa la tomba di Giuseppe di Arimatea, o perfino nell’isola di Oak nel lontano Canada.

Un’annotazione a parte merita il Meseta di Somuncurà, uno dei deserti patagonici, dove sarebbero approdati i Templari, sfruttando antiche mappe create dai Fenici, alcuni secoli prima della scoperta ufficiale del continente americano da parte di Colombo. I Templari sarebbero partiti da La Rochelle, città francese sulla costa atlantica, per arrivare in Patagonia, dove avrebbero fondato alcune città che gli indigeni avrebbero denominato “città dei Cesari”. In questa regione sono stati trovati importanti reperti archeologici, come una pietra con incisione templare che, se non confermano in  maniera inequivocabile la narrazione della migrazione del mitico Ordine, offrono spunti di ricerca e di approfondimento interessanti.

L’Ordine dei Templari, fondato nel 1118 dall’aristocratico Hugo de Payns, su iniziativa di Bernardo da Chiaravalle, è stato associato alla ricerca del Sacro Graal, con sviluppi narrativi diversi nei secoli successivi. Non è la sede per approfondire la complessa e misteriosa storia dell’Ordine, meritevole di una trattazione specifica a sé stante. Mi preme, tuttavia, precisare che si trattava di un Ordine all’inizio istituito per difendere dagli infedeli i pellegrini che viaggiavano in Terra Santa, con sede sul luogo dove si credeva che nell’antichità sorgesse il Tempio di Salomone. L’Ordine fu riconosciuto dalla Chiesa nel 1129 e nei decenni successivi godette di ampissimi privilegi, accumulando prestigio ed ingenti ricchezze nell’intera Europa. Nel 1307 iniziò una campagna persecutoria ai danni dei Templari da parte di Filippo il Bello, re di Francia, che li accusò di sodomia, tradimento, avidità ed idolatria, che si concluse con un processo sommario ed una tremenda condanna al rogo. Nel 1312 l’Ordine dei Templari fu formalmente soppresso dal Concilio di Vienna. 

L’ispirazione mistica ed ascetica dei Templari favorì il nascere di svariate leggende sul loro conto, come il presunto ritrovamento del Sacro Graal o dell’Arca dell’Alleanza, riuscendo ad acquisire un potere tale da oscurare tutti quelli politici del tempo e le stesse istituzioni ecclesiastiche. Gli storici sono abbastanza concordi nel ritenere che le cause che portarono alla loro soppressione debbano ascriversi, per lo più, ai timori dei poteri politici ed ecclesiastici coevi, per il grande potere raggiunto dall’Ordine in così poco tempo. Pertanto, anche nei controversi contenuti delle leggende relative ai presunti “grandi tesori” raccolti dai Templari, vi potrebbe essere qualche fondamento di verità. Senza entrare nel merito di una vicenda molto articolata, la storiografia ha accertato che i beni confiscati ai Templari, dopo la loro soppressione, confluirono nelle casse della Chiesa e degli stati territoriali, in apparenza utilizzati per scopi benefici e di solidarietà collettiva. Tra questi tesori  potrebbe esserci stato anche il calice di Cristo che i Templari avrebbero recuperato non in Terra Santa, ma durante il saccheggio di Costantinopoli nel 1198, insieme alla presunta corona di spine di Gesù, attualmente conservata nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Nella città dei due continenti, i Templari avrebbero recuperato il cosiddetto Trono di San Pietro, ivi portato dalla città di Antiochia, dove il primo pontefice della cristianità avrebbe soggiornato a lungo. Nascosto, sotto il trono del santo, ci sarebbe stato il calice di Cristo. Il trono sarebbe entrato in possesso prima di Federico II, che lo avrebbe custodito a Castel del monte in Puglia, e successivamente sarebbe arrivato a Venezia e poi collocato nella chiesa di San Pietro. Per suffragare la veridictà dell’arrivo del sacro graal a Venezia, si menziona il fatto che nella chiesa di San Barnaba della città lagunare si trova la tomba di Nicodemo de Besant-Mesurier, considerato da una certa tradizione come uno dei cavalieri custodi del graal. Tra l’altro, la chiesa di San Barnaba fu consacrata nel 1230 a Maria Maddalena, uno dei personaggi femminili più discussi dell’ambiente cristiano e da sempre legata alla leggenda del sacro graal.

Ed è proprio partendo da Maria Maddalena che introduciamo un ulteriore argomento, chiedendoci se davvero dobbiamo considerare il “graal” nella sua materiale essenza di calice di Cristo, oppure se esso sia l’emblema di un’eredità spirituale ed esoterica antica, arricchita dalla dirompente diffusione del Cristianesimo a cominciare dall’età medioevale.

L’enigmatica figura di Maria Maddalena, ampiamente presente nei vangeli canonici ed apocrifi, è ricordata come una delle più devote seguaci di Gesù. Il vangelo del colto Luca, che utilizzò la lingua greca più forbita, utilizza riferimenti più precisi, recitando così “Maria chiamata la Maddalena”, alludendo probabilmente alla sua provenienza geografica, una piccola cittadina sulla sponda occidentale del lago Tiberiade, anche se non sono mancate altre interpretazioni storiche ed etimologiche. Maria Maddalena fu uno dei pochi personaggi ad assistere alla crocifissione di Gesù sul Golgota, insieme a Maria sua madre ed al discepolo Giovanni, indicato come il prediletto dal Messia. Non è la sede per approfondire le varie identità che sono state attribuite alla donna, tra le quali mi limito a menzionare Maria di Betania, una delle sorelle di Lazzaro e Maria la peccatrice che con le lacrime e con l’unguento profumato purificò i piedi di Gesù. E’ necessario, a tale proposito, osservare come il fatto che una donna fosse ammessa alla ristretta cerchia dei fedelissimi di un profeta, in una società dai ferrei costumi patriarcali come quella ebraica, abbia destato sempre un notevole sconcerto negli esegeti più critici. E’ pur vero che l’universale messaggio rivoluzionario del Cristo era rivolto a tutti indistintamente: pubblicani, donne, pagani, peccatori ed emarginati di ogni sorta, capovolgendo i valori delle strutture socio-politiche del tempo. Come abbiamo visto in precedenza, gli scritti riferiti al Sacro Graal risalgono quasi tutti all’epoca medioevale, mentre nei secoli successivi, complice forse anche l’attività inquisitoria della Chiesa Cattolica, l’interesse per tale argomento sembra svanire. Soltanto nel XIX secolo riemerge l’attività letteraria dedicata al sacro Graal, sviluppandosi in maniera esponenziale soltanto negli ultimi decenni con ben tre best-seller: il già menzionato Codice da Vinci di Dan Brown, Il Santo Graal di Baigent, Leigh e Lincoln, Il mistero del sacro Graal di Hancock.

In particolare, i primi due romanzi descrivono il santo graal come sang real, ossia il sangue reale di un’ipotizzata discendenza derivata dall’unione di Gesù con Maria Maddalena di cui, tuttavia, non si possiede alcun documento specifico, se non ricostruzioni abbastanza azzardate da parte dei rispettivi autori. Una delle tracce più accreditate sarebbe presente nel famosissimo dipinto L’ultima cena di Leonardo da Vinci, dove uno degli apostoli raffigurati, identificato dalla tradizione con Giovanni, ha un aspetto insolitamente femmineo. Risulta chiaro che la rappresentazione del grande Leonardo non può costituire una prova inequivocabile della presenza della Maddalena durante l’ultima cena e che gli scopi raffigurativi della particolare delicatezza dei tratti somatici di Giovanni potrebbero avere altre motivazioni, come spiego nel libro I miti-Luci e ombre (editore Cavinato international, 2018).

Secondo le precitate opere, Il Santo Graal ed Il codice da Vinci, la discendenza originata dall’unione di Gesù con la Maddalena sarebbe sopravvisuuta fino ai nostri giorni, realizzando vari incroci dinastici, in particolare quello dei Merovingi, e riuscendo a rimanere nella segretezza. Secondo la leggenda, la Maddalena sarebbe fuggita da Gerusalemme, dopo la morte in croce di Gesù, stabilendosi ad Alessandria d’Egitto, dove avrebbe partorito una bambina, Sara (in aramaico vuol dire “principessa” o “regina”). Alcuni anni dopo, quando Sara avrebbe raggiunto più o meno l’età di 12 anni anni, madre e figlia si sarebbero imbarcate verso la Gallia. È interessante notare, in tale contesto, che il termine Merovingio può essere scomposto in due sillabe fonetiche, da cui si ricava mer e vin, potendo alludere, pertanto, alla “vite di Maria”, ossia alla sua discendenza dalla stirpe di Davide in linea materna.

I simbolismi e le interpretazioni

Oltre alle interpretazioni iconografiche tradizionali del santo graal, la sapienza ermetica ci insegna che il prezioso oggetto potrebbe non essere altro che una rappresentazione simbolica dell’animo umano che, trasfigurato in ambito cristiano, si potrebbe intendere come contenitore dell’ostia consacrata e, quindi, della grazia di Dio. L’espressione sang real (sangue reale) non indicherebbe, pertanto, la fantasiosa discendenza dell’unione tra Gesù e la Maddalena, ma l’essenza stessa dell’uomo, creato ad immagine e somiglianza da Dio, come espresso nel libro della Genesi. Nelle vene dell’uomo scorrerebbe sangue del Creatore, al quale si attribuisce anche il titolo omnicomprensivo di Re dell’Universo (soprattutto nelle persona di Cristo). Nella sapienza ermetica, più nello specifico, il sacro graal è associato al principio dell’eterno femminino, l’archetipo eterno della Grande Madre, in grado di dispensare vita e salute a tutte le creature. Gli Egizi personificavano tale principio nella dea Iside, la Vergine Vedova, madre di Horus, che offre all’iniziato la luce della conoscenza. Nella tradizione celtica-druidica, come abbiamo accennato in precedenza, la coppa era sostituita dal calderone, pur volendo richiamare gli stessi principi simbolici. Non a caso anche in ambiente iranico-zoroastriano ed induista, l’uomo che aspira alla perfezione spirituale deve immergersi in un calderone di olio bollente, in alcuni rituali pieno di compresse di mercurio, quasi si trattasse di un “brodo alchemico primordiale”.

Dal punto di vista gnoseologico, il graal rappresenta l’occhio invisibile che è capace di vedere il soprannaturale con la sapienza del cuore. Si può notare una similitudine interessante tra il termine graal e la parola araba qlb (la q araba è tradotta spesso con la nostra g) che ha il significato di cuore e di anima. Questa riflessione ci riporta all’emblema del graal come recipiente, in quanto per gli antichi il cuore era appunto la sede dell’anima e della sapienza. Ed un invito ad immergerci nelle profondità della nostra anima è proprio il motto alchemico VITRIOL (visita interiora terrae rectificando invenies occultum lapidem- visita la profondità della terra ed operando in essa troverai la pietra nascosta). Ed è proprio conoscendo gli abissi del nostro cuore, che possiamo raggiungere la sapienza (sophia) che è silente come una pietra nascosta.

In questa accezione, le operazioni alchemiche sui metalli e sui minerali, in linea generale, non sono altro che specchi delle interminabili e difficili ricerche spirituali.

In sintesi, si può dire che nella simbologia del santo graal siano compresi elementi di natura ermetica, alchemica e di origine gnostica, che possano condurre l’uomo verso un viaggio interiore, alla ricerca di quel principio di trascedenza, chiamato anche scintilla divina, offuscato dagli impulsi dettati dal mondo materiale.   La sapienza antica raffigurava questa “anima razionale” con l’immagine di una fanciulla, anche se ciascuna corrente di pensiero la elaborava in maniera diversa. Gli Gnostici svilupparono il concetto di “sophia”, i Cabbalisti la incentrarono nella decima sephirà (la Schekhinah), mentre i Catari, ereditando l’ideale gnostico dei secoli precedenti, sostituirono la figura di “sophia” con quella più popolare di Maria Maddalena.

Un’importante traccia della corrispondenza tra il simbolo della coppa e quello del cuore, lo troviamo nelle carte da gioco diffuse in Europa, in particolar modo nei due repertori più famosi, da cui sono derivati con modeste varianti tutti gli altri, le carte napoletane e quelle francesi. L’origine delle carte da gioco è ancora per molti versi misteriosa e non è questa la sede per procedere ad un accurato approfondimento.                La maggior parte degli studiosi, tuttavia, è abbastanza concorde nel ritenere che i quattro semi si riferiscano alle corrispondenti classi sociali predominanti nel basso Medioevo: spade-picche, i Nobili, coppe-cuori, il Clero, denari-quadri, i Mercanti, bastoni-fiori, i Contadini. Al di là dei significati sociali di immediata evidenza, le carte da gioco celano anche una semantica esoterica, a cui sarebbe interessante dedicare una specifica trattazione. Per quanto riguarda i riferimenti al sacro graal, il fatto che le coppe delle carte napoletane siano speculari ai cuori delle carte francesi, è un aspetto di certo non trascurabile. L’asso di coppe/ asso di cuori è proprio la carta da gioco associata alla simbologia tradizionale del santo graal. L’iconografia classica rappresenta questa carta con una coppa di color rosso  con coperchio a forma di cittadella turrita. Come simbolo delle acque superiori (esterne all’io) e delle acque inferiori (interne all’io), l’asso di coppe/asso di cuori è la carta assimilabile al santo graal che, con riferimento alla struttura psichica umana, sottolinea la necessità di dominare sé stessi.

Secondo la magistrale interpretazione di Renè Gunon, il Graal si pone soprattutto come simbolo dell’integrità della tradizione iniziatica, potendo ben essere raffigurato sia come vaso/coppa, quale dispensatore di benefici, sia come “libro”, ossia come strumento di acquisizione della conoscenza graduale (gradalis) per accedere al dominio del proprio mondo spirituale.

In altro ambito esoterico, quello dei Rosacroce, il significato del Graal è stato collegato all’immagine tipicamente medievale della discesa del Cristo-Sole nel calice della Luna. Il filosofo-teologo Rudolf Steiner, richiamando alcune scene del già menzionato Parsifal, sottolinea come la discesa dell’ostia consacrata nella coppa, con la falce dorata di luna che riflette i raggi solari, indichi nel contempo la luce fisica e quella spirituale occulta. A tale proposito, non si può dimenticare che la liturgia ecclesiastica dei primi secoli fissò la solennità della Pasqua, in concomitanza della prima luna piena di primavera, quando decrescendo verso la falce, il nostro satellite inizia gradualmente a scomparire, favorendo la visione del Cristo-Sole che, al contrario, entra nella sua fase astronomica ascendente.

Un’originale interpretazione del graal è stata data di recente dallo storico Daniel Scavone che lo ha identificato con la sacra Sindone. Lo studioso ha ipotizzato che la leggenda del graal sia nata, a seguito delle contraddittorie notizie su un oggetto legato alla sepoltura di Gesù, che ne avesse contenuto il sangue. Questa credenza si sarebbe unita, nel corso dei secoli, con alcune storie mitologiche preesistenti relative ad una coppa o piatto. A testimonianza di tale ipotesi, Scavone indica un particolare rituale riportato da alcune fonti antiche, nel quale la sacra sindone veniva dispiegata “in maniera graduale”, in modo da offrire una mistica visione di Cristo, prima bambino, poi ragazzo, fino all’età della maturità ed alla morte in croce. In più, Scavone contesta il supposto viaggio di Giuseppe d’Arimatea in Britannia, in quanto tale interpretazione deriverebbe da una errata lettura del termine Britio (intesa come Britannia), indicante invece il nome del palazzo reale di Edessa dove, secondo un certo numero di storici, la Sindone sarebbe stata custodita tra il VI ed il X secolo.

Al termine di questa breve carellata sui vari significati attribuiti al sacro graal, partendo dalle origini fino ai nostri giorni, probabilmente saremo portati a nutrire ancora più dubbi sulla sua reale esistenza. I lettori più scettici di sicuro affermeranno che il sacro graal non costituisce che un mito come tanti altri, prodotto dall’inesauribile e complessa immaginazione dell’uomo, desideroso di oltrepassare i propri limiti e di elevarsi dalla propria quotidiana banalità. I religiosi tradizionali, invece, si limiteranno a vedere nel sacro graal l’iconografia materiale e spirituale della storia della salvezza cristiana, culminata nel sommo sacrificio di Gesù Cristo, nello stesso tempo vittima, altare e sacerdote. Gli appassionati di esoterismo, seguendo altre linee interpretative, magari continueranno ad individuare nel sacro graal la via maestra per acquisire una più accurata coscienza di sé ed un livello di conoscenza superiore. Per noi donne e uomini comuni, molte volte afflitti dagli eccessi del modernismo, persi in realtà virtuali e in sempre più intense comunicazioni digitali, la ricerca verso l’ignoto non può mai fermarsi. L’affascinante leggenda del santo graal assume, pertanto, un senso soltanto se vista nell’ottica dell’elevazione spirituale e ci insegna che non dobbiamo perdere di vista i nostri obiettivi, cercando di avere sempre chiare le strade da percorrere. Forse con tenacia e determinazione ciascuno potrà raggiungere il proprio graal, se riesce a capire quale cammino intraprendere.

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