La Traviata: la storia e il significato dell’opera di Giuseppe Verdi

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Madame Alphonsine Rose Plessis, più conosciuta come Marie Duplessis, contessa di Pérregaux, ha ventitré anni quando muore di tisi, nel 1847. A dispetto del titolo, acquisito per matrimonio nel 1846, non fa parte della nobiltà, anzi: vissuta in condizioni di estrema povertà fin da bambina e con un padre violento e alcolizzato, cerca in tutti i modi di sopravvivere svolgendo i lavori più disparati. Quando, sedicenne, si trasferisce a Parigi per cercare fortuna, diventa l’amante di un commerciante, inizia a farsi conoscere nell’alta società della capitale francese che, in poco tempo, la eleva a centro della vita mondana del tempo. Secondo le testimonianze, Marie è una giovane molto affascinante, istruita in modo impeccabile e da autodidatta, interessata alla musica. Antesignana della Marinella di cui canta De André più di un secolo dopo, questa giovane cortigiana vive il proprio “giorno come le rose” per circa sei anni e segna in modo indelebile la cultura del suo tempo, arrivando fino a noi.

Tanti sono stati gli amanti di Madame Duplessis, ma il più autorevole di essi rimane Alexandre Dumas figlio, con il quale trascorre undici mesi a Saint-Germaine-en-Laye, vicino a Parigi. In memoria di questa ragazza dai capelli neri, la carnagione chiarissima e gli occhi allungati, lo scrittore le dedica uno dei romanzi più belli della letteratura francese, La Dame aux Camélias (“La signora delle camelie”), da cui trae anche una versione teatrale.

Affascinato dal dramma a cui assiste in Francia nel 1852, Giuseppe Verdi decide di trarne un’opera lirica, aiutato dal librettista Francesco Maria Piave – che viene informato della scelta in una lettera in cui il Maestro gli chiede di mettersi al lavoro:

“[…] affinché questo soggetto sia il più possibile originale e accattivante nei confronti di un pubblico sempre teso a cercare in argomenti inusuali un confine alla propria moralità”

Pavarotti- La Traviata- Brindisi

Scritta in circa quaranta giorni, La Traviata fa parte della cosiddetta “trilogia popolare” (insieme a Trovatore e Rigoletto) che vede come protagonisti tre personaggi non nobili. Per sfuggire al controllo della censura e non rendere troppo evidente la critica ai vizi del mondo borghese suo contemporaneo, Verdi è costretto a spostare l’ambientazione dal XIX al XVIII secolo – pregando nel modo più assoluto di non fare indossare agli artisti anche le parrucche tipiche del Settecento, così da evitare di rendere il melodramma eccessivamente ingessato.

È il 6 marzo 1853 – appena due mesi dopo l’esordio del Trovatore a Roma – quando il sipario della Fenice di Venezia si alza per dare inizio alla prima di questa nuova opera verdiana. Probabilmente a causa delle non adeguate capacità degli interpreti e il loro non essere adatti neppure dal punto di vista fisico/estetico, però, la rappresentazione è, per usare le parole dello stesso compositore, “un fiasco”. Verdi, comunque, non se ne stupisce né se ne rammarica, avendo già espresso i propri dubbi in merito alla compagnia con i dirigenti del teatro e arrivando a proibire ogni altra replica se non avessero cambiato almeno i cantanti protagonisti. All’editore Ricordi, inoltre, scrive:

“[…] non indaghiamo sulle cause, la storia è così. Colpa mia o dei cantanti? […] Il tempo giudicherà”

 e ad un amico di Genova:

“[…] io credo che l’ultima parola sulla Traviata non sia quella di ieri sera, la rivedranno e vedremo!

Lungimirante come tutti i grandi geni, ma più probabilmente sicuro delle proprie capacità e della validità dell’opera, Giuseppe Verdi ritorna a lavorarci per portare la nuova versione – quella definitiva – in scena il 15 maggio 1854 al teatro San Benedetto di Venezia. Da questo momento in poi, il destino di La Traviata è costellato di successi che la portano ad essere, oggi, la più rappresentata delle ultime quattro stagioni a livello internazionale con 629 recite.

La protagonista, Violetta Valéry, è somigliante sia alla Marguerite Gautier del romanzo di Dumas sia alla “reale” Marie Duplessis. Tutte e tre condividono una breve vita da cortigiane d’alto bordo durante la quale conoscono la povertà, la passione e la malattia che le conduce alla morte. La cosa che più colpisce, però, è il grande sacrificio che Marguerite e Violetta – sulla scorta di quanto accaduto a Marie con il duca Agénor de Gramont – compiono per salvaguardare il buon nome dell’amato (Armand Duval/Alfredo Germont) in società e che le porta a completa redenzione spirituale, nonostante la dissolutezza delle loro esistenze.

La Traviata: "Sempre libera" (Marina Rebeka)

Il lavoro che Verdi compie musicalmente e Piave drammaturgicamente sul personaggio di Violetta è quanto di più raffinato e completo si possa chiedere. Nel corso dell’opera si percepisce un cambiamento che è tanto vocale quanto psicologico: dall’“usignolo meccanico”, interpretabile soltanto da un soprano d’agilità che raggiunga velocemente note anche molto distanti sul pentagramma e molto alte, che impariamo a conoscere nel primo atto, arriviamo ad una giovane donna caratterizzata da un canto drammatico, profondo anche nelle tonalità acute, passando, nel secondo atto, per la sofferenza del compimento del sacrificio per amore di Alfredo cantata con vocalità di soprano lirico. È un processo, questo, volto a mostrare la vera personalità di Violetta, spesso considerata frivola e vagamente disposta al pentimento cristiano, immortalata ad un passo dalla morte, nel buio della propria camera durante il periodo del Carnevale (che si svolge fuori da casa sua come se nulla fosse), nella splendida e tragica aria “Addio del passato”. Violetta, a dispetto della giovane età, è del tutto cosciente di ciò che attende lei e la propria memoria, si rivolge spesso a Dio accompagnata da una melodia che la segue come un presagio dal preludio al primo atto. La vita mondana, l’usignolo meccanico, le feste nella società perbene, perfino l’amore di Alfredo – che torna da lei, con la coda fra le gambe, quando sta esalando gli ultimi respiri e il cui padre si presenta al suo capezzale per chiedere perdono quando è troppo tardi – sono ormai ricordi. La breve esistenza di Violetta Valéry, nonostante lo scintillio di facciata, nasconde il dolore di quelle “più belle cose” che vivono “solo un giorno come le rose”.

Un altro elemento fondamentale dell’opera di Verdi è la concezione del tempo. La protagonista sa che non le rimane molto da vivere, che la malattia la sta logorando e non più piano piano ma sempre più rapidamente; ciò lo possiamo ascoltare, musicalmente, nell’utilizzo del valzer – all’epoca considerato ballo immorale perché l’uomo e la donna ballano insieme “chiusi” e perciò descrittivo anche del personaggio principale – in tre ottavi che rappresenta delle spirali, dei vortici in cui Violetta viene imprigionata e che, spesso, diminuendo di terzine, diventa sempre più veloce. È il famoso “Libiamo ne’ lieti calici” l’esempio più conosciuto di valzer scritto da Verdi in quest’opera, da rappresentare rigorosamente senza alcuna coreografia in scena, il cui intervallo di sesta è la trasposizione musicale del gesto che si fa levando il bicchiere durante il brindisi.

È un’opera emblematica quella del maestro di Parma, che rende dignità, al pari del romanzo di Dumas, alla storia sfortunata di una giovane donna che il destino, dopo la morte, ha voluto consegnare al mondo.

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