L’eptalogia di Rafael Spregelburd e il non-senso dell’esistenza a teatro

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In teatro, diceva Aristotele, esistono la commedia e la tragedia. E poi c’è Rafael Spregelburd. Argentino di Buenos Aires, classe 1970, attore e drammaturgo poco conosciuto da noi, anche se edito da Einaudi e messo in scena, fra gli altri, da Luca Ronconi.

Bisognerebbe non essere italiani per apprezzare le sue opere, perché in Italia a volte si ha l’impressione che il teatro sia rimasto fermo a Pirandello. Bisognerebbe essere argentini, per capire quanto il teatro abbia là un valore spiccatamente politico, popolare e guerrillero: in una terra che deve fare i conti con una Storia recente drammatica, con una crisi economica devastante (come devastante è stato l’impatto con l’Occidente) con la censura e le varie forme di fascismo, il teatro diventa una delle poche forme di resistenza, e della guerrilla ha i caratteri: l’urgenza e la precarietà (tanto che Rafael scrive e modifica i copioni a bordo palco durante le prove), il rifiuto della professionalità, la critica, l’abbattimento della distanza fra pubblico e palcoscenico, quando il palcoscenico c’è (il “teatro dell’oppresso” di Augusto Boal, brasiliano, non è nato molto lontano). Bisognerebbe essere sudamericani, perché esiste un’attitudine surrealista che solo i sudamericani sanno penetrare a fondo. Soprattutto, bisognerebbe essere dei pazzi o dei geni per capire Spregelburd: le sue opere distruggono qualsiasi canone letterario o teatrale, la recitazione è serrata e non dà possibilità di prendere fiato, i pretesti narrativi si rifanno ora alla fisica teorica, ora alla filosofia occidentale, ora ai B-movie, le trame già complesse costringono lo spettatore ad un coinvolgimento continuo e per certi versi frustrante. Perché Rafael non vuole farsi capire nel suo insieme, o meglio si fa capire a strati. Si ride, ai suoi spettacoli, ma la risata è acida e porta a scoprire nei testi nuovi lati nascosti; si resta sconvolti, perché sembra sempre che sfugga qualcosa; e quando sembra di aver colto, per pura fortuna, il senso del dramma, ecco che subito le certezze crollano e ti si rivolgono contro. È difficile tentare un’analisi delle opere di Rafael: proveremo a farlo con la più monumentale e significativa, per quanto possa essere opportuno parlare di significato al singolare.


Heptalogia de Hieronymus Bosch

“Dov’è la deviazione quando ormai non esiste più un centro? È possibile una trasgressione quando non c’è una legge fondante?”

Rafael Spregelburd

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Hieronymus Bosch, Sette Peccati Capitali

Si può scrivere un’opera a partire da un quadro? Se di per sé sembra già un’idea bizzarra, Spregelburd l’ha fatto sette volte. Dal 1996 al 2008, prendendo spunto dalla tavola dei Sette peccati capitali del fiammingo Hieronymus Bosch, una sorta di enciclopedia allegorica del senso di colpa cristiano tardo-medievale, il nostro intraprende una ricerca, lunga appunto sette opere, alla ricerca del fondamento morale del nostro tempo. Che, essendo il nostro mondo sostanzialmente senza Dio e senza umanesimo, al tramonto di qualsiasi ideologia, straripante di false vecchie autorità e sottoposto soltanto a una spietata legge di mercato, insomma un mondo lontano da quello di Bosch, non esiste. Esistono solo esseri umani monchi, divisi, insoddisfatti della propria vita, sempre alla ricerca di un compimento che non si dà, di una struttura esistenziale insondabile nella sua interezza.

L’eptalogia rispecchia fin da subito questa condizione: le sette piéce sono fruibili singolarmente, ma sono strettamente collegate l’una all’altra in modi che spesso sfuggono alla comprensione. La battuta minore di una dà il senso a un’altra, un elemento di scena della prima ritorna come tema complessivo nell’ultima e così via, in un vorticoso gioco ad incastro che resta tuttavia imperfetto. Una messa in scena di una di queste può durare da mezz’ora a quattro ore, può richiedere pochi attori e una scenografia scarna o, come nel caso della bellissima Paranoia, interi schermi retrostanti il palco che si alternano alla recitazione degli attori dal vivo.

Proprio la Paranoia è indicativa, dal punto di vista della trama, per capire con chi abbiamo a che fare: è la storia di un fisico spocchioso, una sceneggiatrice insoddisfatta e un astronauta dipendente da farmaci, rapiti da un commando militare (composto da un generale e da una suora!) per scrivere fiction televisive da inviare agli alieni. Perché? Perché questi alieni, o meglio Intelligenze, si nutrono di creatività umana e hanno già consumato tutta la nostra cultura: come gli extraterrestri di Arrival di Denis Villeneuve in anticipo di quasi vent’anni, essi vivono passato, presente e futuro in un unico tempo, e minacciano di far scoppiare l’apocalisse (letteralmente) se non ricevono una delle tante pessime serie terrestri da consumare. Quando Spregelburd l’ha scritta Netflix ancora non esisteva, quanto al resto sono presenti tutte le ossessioni del mondo occidentale e dell’autore: la religione, l’antimilitarismo, il salto spazio-temporale, i generi cinematografici horror e fantascientifico, l’incomunicabilità, l’industria, i personaggi ambigui e traumatizzati, l’inconsistenza della cultura umana, le autorità fasulle, la paura della morte, la necessità della stessa.

I sette peccati originali erano lussuria, invidia, superbia, avarizia, gola, ira, accidia; quelli moderni, e le rispettive opere di Spregelburd, sono Inappetenza, Stravaganza, Modestia, Stupidità, la già citata Paranoia, Cocciutaggine, Panico. Ci focalizzeremo su quest’ultima, per concludere (o almeno illuderci di farlo) un quadro generale sull’autore.


Il Panico

“I morti provano terrore, terrore per quel momento infausto di lucidità nel quale comprendono di essere morti, e che lo sono per sempre. I vivi, semplicemente, hanno paura di tutto.”

Il Panico - Luca Ronconi | Trailer

Diciassette personaggi, una trama principale, diverse sotto-trame una più assurda dell’altra: una madre alcolista e degenere cerca, assieme ai due figli sull’orlo della povertà, la chiave per aprire la cassetta bancaria con l’eredità lasciata dal defunto marito (che è anche suo figlio adottivo) in custodia ad un’impiegata molto burocratica; la figlia maggiore prepara uno spettacolo di danza con una coreografa alquanto sciamanica e criptica; il figlio minore si innamora di una sensitiva insoddisfatta alla quale la famiglia si è rivolta, e finisce per provarci con un’amica della sorella che lui crede transessuale; lo psicoterapeuta della madre organizza scommesse clandestine; un’agente immobiliare cerca di vendere una casa infestata dai fantasmi; una prostituta, amante del marito della protagonista, viene accusata dell’omicidio del padre dell’impiegata bancaria e ha un incontro metafisico con delle divinità psicopompe. In tutto ciò il “morto principale” non si è ancora accorto di essere defunto e vaga tranquillamente per la scena come niente fosse. Se già questo vi sembra eccessivo per “appena” 90 pagine di copione, sappiate che il tutto si riconduce ad un mito egizio del Libro dei Morti: il dio Seth, impazzito per la morte dell’amata, la riporta in vita e gli altri dei, temendo che gli uomini possano divenire immortali ed ergersi al loro livello, nascondono la chiave dell’aldilà in un posto “che non ha nome”. È la chiave metaforica che cerca la famiglia protagonista, attraversando tutti gli ambiti del mondo contemporaneo e neocapitalistico: nell’arte, nella ricchezza delle banche, nella psicanalisi, nella superstizione, nel sesso, nell’alcol. Sullo sfondo, una Buenos Aires distrutta dalla povertà, dove si ha paura a girare da soli per strada e nessun legame ha più senso, in particolare quello familiare.

Potrebbe essere definita un’opera comica di spiccato black humor, quasi una parodia dei film horror a basso costo: si ride quando la sensitiva cerca di chiamare uno spirito al telefono e le risponde la madre anziana; si ride quando il fantasma del marito offre the e sfogliatine agli ospiti in casa, che non lo possono vedere; si ride con la rappresentazione degli uffici bancari dove gli impiegati si comportano come robot; si ride, tanto, quando entra in scena lo psicoterapeuta con la zip dei pantaloni abbassata e improvvisa metodi di analisi che farebbero cadere di bocca a Freud il famoso sigaro. Eppure c’è un senso di inquietudine, di profondo disagio, di panico appunto, che pervade lo spettatore dall’inizio alla fine: non solo perché quella che viene rappresentata è probabilmente la congrega di disperati più mortificante di tutta la storia della letteratura, ma perché ci si rende conto mano mano che fra i suddetti disperati e chi guarda non c’è troppa differenza. Come non c’è differenza apparente, sul palco, fra mondo dei vivi e mondo dei morti, perché entrambi cercano qualcosa che non otterranno mai: gli uni una vita ormai finita, gli altri qualcosa che dia senso alla propria mortalità. È così da millenni, ma in un mondo senza più fondamento morale, materialistico, egoista, misero, la tragicità di questa verità diventa ancora più opprimente. La chiave, quella della cassetta come quella dell’esistenza, ovviamente non verrà trovata: i vivi continueranno a non comunicare più con i morti e, soprattutto, a non riuscire più a comunicare fra di loro. Lo psicanalista e psichiatra Goldstein, esponente della scuola della Gestalt, definiva “panico” come la sensazione di perdita di sé derivante dal fatto che non ci sia più nulla da fare. È davvero, ci dice Spregelburd, non c’è nulla da fare.

“Darò agli uomini cento parole, mille se servono. Ma non darò mai loro la parola che designa il posto dove si nasconderò la chiave. (…) Gli uomini, da allora, lo cercarono ciecamente. Lo cercarono negli intervalli della musica. Nei gesti fatti per niente. Nel suono delle parole ammucchiate. Nelle rime. Nella luce pomeridiana sui bagnanti. Nel nero del carbone. Ormai migliaia di anni fa. Adesso, ormai da migliaia di anni.”

Cover image: Luca Ronconi in Panico. Foto: Laselva

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