My Way di Frank Sinatra: l’ultima confessione di un artista rassegnato

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Era finita. Davvero. Per Frank Sinatra non c’era futuro nel mondo dello spettacolo nel 1968 e lui non ne faceva mistero, neanche a sé stesso. Di fronte a lui c’era Paul Anka, “The Kid”, come era solito chiamarlo, a cui raccontava quanto la rivoluzione pop degli anni ’60 lo avesse messo all’angolo dello show business, sempre più concentrato sui giovani e su sonorità che erano troppo lontane da lui. E poi c’erano anche le continue accuse di essere in contatto con la mafia, che facevano lievitare smisuratamente il suo fascicolo dell’FBI (J. Edgar Hoover non mollava facilmente), costringendolo a cambiare numero telefonico di continuo per dribblare le intercettazioni. Era stanco, svuotato, sostanzialmente depresso e non voleva stare più al centro dello spettacolo.

Anka lo ascoltava e sentiva che il vecchio leone era davvero esasperato e pronto al ritiro. Ma non poteva accettarlo e tentò di convincerlo a non farsi fagocitare dal momento: d’altra parte, quante ne aveva già passate? Aveva già superato altre crisi, come quando negli anni ’50 era stato sbattuto fuori dalla Metro Goldwyn Mayer per qualche battuta di troppo sul vecchio Louis B. Mayer, un tipo poco propenso al perdono e che soprattutto considerava finita l’esperienza nei musical del linguacciuto cantante.

Anche la Columbia non gli aveva rinnovato il contratto e di colpo The Voice era per tutti finito. Ma poi la riscossa era arrivata, grazie alla sua ostinazione (per molti disperazione) e all’aiuto di Ava Gardner, che spese molto del suo credito per trovargli un posto in Da qui all’eternità, film con cui vinse un Oscar e rilanciò la sua figura. La difficile relazione con la diva fu burrascosa e non priva di strascichi quando terminò, ma intanto Sinatra era tornato in sella e aveva firmato per la Capitol: per la piccola e ambiziosa etichetta incise molte delle sue canzoni più famose e fronteggiò con perdite (ma meglio di molti altri) l’ascesa del rock’n’roll e del suo alfiere ancheggiante, conosciuto come Elvis Presley.

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The Sultan Of Swoon & The King Of Rock’N’Roll

No, effettivamente gli anni ’50 non erano stati come i trionfali e irripetibili ’40 e lui non era più l’incontrastato crooner di milioni di giovani americani, ma almeno la sua carriera era proseguita e gli aveva permesso di reinventarsi, cosa niente affatto scontata. Quindi perché non riprovare, perché non tenere duro ancora un po’? Chi meglio di Sinatra aveva dimostrato che le mode sono passeggere, mentre Ol’ Blue Eyes era in grado di restare sempre sulla cresta dell’onda? Ma anche se queste parole lo inorgoglivano, qualcosa dentro si era rotto davvero: stavolta era più dura. E lui era più vecchio.

Non sopportava neanche le canzoni che cantava: detestava Strangers In The Night, il suo ultimo successo (“la peggior canzone mai sentita”, andava ripetendo). Ma al pubblico piaceva e lui la cantava comunque a ogni spettacolo. Paul Anka lo salutò dopo quella conversazione, con la forte sensazione che la carriera di Frank Sinatra era agli sgoccioli e che lui non poteva permettere che questo avvenisse senza avergli dato almeno una canzone.

Partì per la Francia e lì si imbatté in un brano, Comme d’habitude, che lo colpì molto e che stava dominando la classifica francese. La canzone di Claude Francois e Jacques Revaux parlava della fine di un amore, ma non era questo che importava, bensì l’atmosfera che emergeva dalla melodia e che gli sembrava adatta per The Voice. Anka, dopo aver ottenuto i diritti della canzone per il classico tozzo di pane, iniziò a scriverne il testo, ma stavolta non sarebbe stato il solito e scontato adattamento dall’originale. Il giovane artista, che non era riuscito a togliersi di dosso l’amarezza di Sinatra, provò a immaginare cosa avrebbe scritto Frank se fosse stato lui ad avere sotto mano la canzone, infilando in essa tutto lo spirito dell’uomo: nacque così My Way.

“And now the end is near…” dava il via al racconto orgoglioso di un un uomo alla fine della vita, costretto al bilancio di sconfitte e vittorie, vissute comunque “alla sua maniera”: la canzone cambiò letteralmente e divenne altro. L’autore di Diana (il cui successo negli anni ’50 lo accostò proprio a Ol’ Blue Eyes) corse letteralmente all’aeroporto per Las Vegas e portò My Way a Sinatra, che prese volentieri il brano e promise di dargli presto notizie.

Mesi dopo una telefonata proprio di Sinatra gli permise di ascoltare per la prima volta My Way interpretata da The Voice: il successo fu enorme e la rese “la canzone” di Sinatra, quella che più di ogni altra lo avrebbe rappresentato negli anni a venire. La sua potenza interpretativa rendevano vero e credibile quel testo proprio perché metteva a nudo le difficoltà dell’uomo e dell’artista.

I discografici di Anka non presero bene la sua decisione di non incidere per primo My Way: il canadese si difese sostenendo che, pur avendo la voce per cantarla, non disponeva “degli anni” per farlo. Comunque le pressioni furono tali che Anka pubblicò la propria versione di My Way a breve distanza da quella di Sinatra.

Frank Sinatra si allontanò lo stesso dal mondo dello spettacolo tra il 1971 e il 1973, ma quando tornò a esibirsi My Way accompagnò ogni suo spettacolo fino al ritiro definitivo. Con il tempo pare fosse arrivato a detestarla, perché troppo auto-indulgente e pomposa, mentre il pubblico continuava ad amarla fino a farne addirittura una delle canzoni più richieste ai funerali un po’ in tutto il globo. Alle esequie di The Voice, comunque, non ci fu traccia del brano.

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Luca Divelti scrive storie di musica, cinema e tv su Rock’n’Blog e Auralcrave. Seguilo su Facebook e Twitter.

 

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