Il dolore che trasforma: l’Anno Terribile di John Fante

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Quando si arriva a percepire la realtà, a riconoscere il qui e ora e la casualità degli eventi, si hanno due opzioni: si può tornare indietro, nel proprio guscio, e tentare di trovare delle certezze a cui ancorarsi, oppure si usa il dolore che ne deriva come agente di trasformazione costante. Questa seconda strada è quella intrapresa da John Fante, e che intraprende a sua volta Arturo Bandini, il celebre alter-ego letterario dello scrittore italo-americano, nei romanzi più noti al grande pubblico quali La strada per Los Angeles o Chiedi alla Polvere. Ma Bandini non è l’unico.

L’anno di Dominic Molise, il giovane protagonista del romanzo di Fante 1933. Un Anno Terribile, inizia con un rigidissimo inverno. Orecchie a sventola e maschera di lentiggini, Dominic si appresta ad affrontare l’ultimo anno di liceo con la consapevolezza che è il momento per cambiare la sua vita. Infatti, figlio di un muratore trasferitosi dall’Abruzzo al Colorado alla ricerca di una fortuna mai trovata, sul ragazzo grava il peso del riscatto paterno. Ma i suoi progetti vanno nella direzione opposta a quella tracciata dal padre: Dominic sogna la California, sa di poter diventare un giocatore di baseball professionista. Il Braccio, il suo braccio sinistro che lo ha reso il miglior lanciatore di Roper, è lì per ricordagli costantemente che lui è destinato a qualcosa di grande, gli ricorda che deve dare un senso a tutto ciò che lo circonda. Quando il mondo vacilla, Dominic si prende cura de Il Braccio con il balsamo Sloan, a lui si confida e si affida. Il talento si fa carne come monito: egli ha il dovere di affrontare l’orrore della vita e farne qualcosa di buono.

“Il Braccio mi dava la forza di andare avanti, il mio dolce braccio sinistro, quello più vicino al cuore. La neve non poteva fargli male e il vento non poteva ferirlo perché lo tenevo ricoperto di Balsamo Sloan, una bottiglietta che avevo sempre in tasca. Ero intriso di quel fetore, a volte venivo mandato fuori dalla classe per andarmi a lavar via quell’acuto odore di pino, ma io uscivo a testa alta, senza vergogna, ben conscio del mio destino, corazzato contro i sogghigni dei ragazzi e i nasi tappati delle ragazze”

1933. Un Anno Terribile è un romanzo spesso sottovalutato, anche se è un concentrato dell’essenza letteraria di Fante. Un “bignami” della sua poetica, 122 pagine in cui lo scrittore americano, con la solita ironia, ha messo il senso della propria esistenza. Il romanzo è ambientato in Colorado, luogo in cui Fante ha trascorso la sua infanzia e adolescenza. Fondamentali, dunque, i ricordi dello scrittore che conferiscono all’opera un senso di nostalgia profonda e al tempo stesso paradossale, dal momento che il protagonista è giovanissimo. Prima di Arturo, c’è Dominic.

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John Fante

Fante abbozza l’opera a metà degli anni ’50, per poi accantonarla, come accaduto con diversi progetti. Ma, non a caso, come riporta il suo biografo Stephen Cooper, lo scrittore riprende in mano quelle pagine in seguito ad un viaggio tra Denver e Boulder, intorno ai primi anni ’60, dopo una sorta di pellegrinaggio attraverso i suoi ricordi. Nell’opera in questione sono presenti tutti i temi che Fante tratta nella più celebre saga di Arturo Bandini: la condizione degli immigrati italiani negli Stati Uniti e il conseguente rapporto tra la prima e la seconda generazione di migranti; il sogno americano e il senso di colpa dato dalla rottura con le proprie radici; il rapporto padre-figlio che riprende la dicotomia tradizione-nuovo. Anche la questione amorosa viene affrontata da Dominic, attraverso l’ossessione per la sorella del suo amico, ma è ancora in una fase, giustamente, embrionale ed infantile.

Figura cardine per lo sviluppo di Dominc è quella del padre, il quale rappresenta le sue origini. Un’eredità pesante che rischia di schiacciare il giovane protagonista del romanzo, ma che alla fine, invece, lo condurrà alla salvezza. Dominic sa dove vuole arrivare, ha chiara la sua meta, ma non la strada per raggiungerla. La soluzione ai suoi problemi sembra risieda nel rifiuto della figura paterna e di ciò che rappresenta. Rinnega il modo in cui il padre ha gestito la sua vita e quella della sua intera famiglia, ripudia quel senso di rassegnazione, quell’impossibilità di reagire che sembra aver intrappolato i Molise nella miseria.

“Ecco fatto. Il libro era terminato. La tragica Vita di Dominic Molise, scritta da suo padre. Parte prima: L’ebrezza del muratore. Parte seconda: Divertimento nella Legnaia. Parte terza: Come Lasciare che Vostro Padre vi Rovini la Vita. Parte Quarta: Qui giace Dominic Molise, Figlio Obbediente […]. Rimasi lì seduto, carezzandomi Il Braccio, dandogli dei colpetti, cercando di calmarlo mentre piagnucolava come un bambino.[…] Non toccherò mai un mattone – giurai – Che Dio mi fulmini se prenderò mai in mano una cazzuola.”

Ma mentre tenta di distruggere il simbolo delle fatiche paterne, con un ultimo e disperato gesto di ribellione che sa di liberazione, il mondo gli si rivela per quello che è: caotico, ingestibile e terribilmente tragico. Dominic capisce che non c’è un ordine stabilito delle cose, capisce di essersi perso.

Perché per perdersi davvero è necessario avere la consapevolezza di esserlo.

Perché per superare la tormenta, si ha bisogno di radici salde. E in quel momento, quando Dominic comprende che non c’è niente più di ciò che è tangibile, saranno le sue radici a tenerlo saldo e ad indicargli la strada giusta. L’accettazione dei compromessi che il mondo impone e il ricongiungimento con il principio di realtà segnano l’ingresso nell’età adulta. Un ingresso che non può che essere doloroso e, in quanto tale, portatore di cambiamento e Dominic incarna quell’esatto momento: con estrema e spietata tenerezza ci ricorda che spesso non c’è alternativa al reale.

Consacrato dal ricongiungimento con le proprie origini, con quella parte di sé da sempre rinnegata, non ha altra scelta che affrontare la realtà.

“[…]piansi per mio padre e tutti i padri, e anche per i figli, perché eravamo vivi in quell’epoca, per me stesso, perché sarei dovuto andare subito in California, e non avevo scelta, dovevo farcela.”

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