Assassinio sull’Orient Express: il manierismo di Kenneth Branagh

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Quando ci si appresta a vedere un adattamento cinematografico o televisivo di un’opera letteraria del calibro di Assassinio sull’Orient Express, la prima cosa di cui bisogna essere consapevoli è che il romanzo dal quale è tratto è stato scritto nel 1934: tanti, tantissimi anni fa. I tempi erano diversi, la società era diversa, il concetto stesso di racconto di suspence era completamente diverso.

La seconda cosa di cui bisogna tenere conto è che si tratta di un romanzo che, oltre ad essere una pietra miliare del whodunit, ha già avuto numerose trasposizioni che spaziano dal cinema al teatro fino alla televisione. È quindi un titolo ben radicato nell’immaginario collettivo non solo per via del successo editoriale enorme del romanzo, ma anche grazie alle numerose trasposizioni che si sono susseguite nel corso degli anni.

Kenneth Branagh, che ha alle spalle una lunga formazione teatrale e che ha attraversato ormai tre decenni di cinema come attore e regista, è perfettamente consapevole di queste cose e, per l’adattamento di questa storia da lui diretto e interpretato, sceglie di creare un film che più che essere fedele alla lettera al romanzo di Agatha Christie (cosa che tecnicamente non è) si rivela un riassunto di tutto ciò che è stato Assassinio sull’Orient Express nel corso dei decenni.

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E così, come nella versione diretta da Sidney Lumèt, troviamo un cast stellare a prestare volto e corpo ai personaggi della carta (Michelle Pfiffer è la signora Hubbard, Johnny Depp è Mr. Ratchett, Daisy Ridley è Mary Debenham e così via) mentre dalla versione televisiva del 2010, diretta da Philip Martin e con David Suchet, arrivano alcune trovate visive (la parrucca di Michelle Pfeiffer, idea ripresa dall’interpretazione di Barbara Hershey nella precedente versione) e la decisione di dare maggior rilievo al dilemma morale di Poirot giunto alla soluzione del mistero.

I tempi, come già detto, sono cambiati e nel 2017 gli elementi davvero interessanti di un’opera estremamente nota come questa non possono essere tanto la soluzione finale, ma tutto ciò che ne consegue.

Il risultato finale è efficace a metà, perché se da un lato Branagh riesce in pieno nel modernizzare il personaggio del detective Hercules Poirot, rendendolo più umano (forse c’è stata una storia d’amore nella sua vita) e piu super (bisogna pur sempre ricordare che siamo nella golden age dei supereroi al cinema: servono protagonisti brillanti e infallibili) allo stesso tempo, a riempirlo di piccole ossessioni personali (quella per l’equilibrio e la simmetria perfetta che lo porta ad alcuni divertenti siparietti comici) e a dargli finalmente i baffi enormi ed elaborati sempre richiesti dalla Christie, dall’altro lato non riesce a infondere la giusta intensità alla storia, se non negli ultimi minuti.

In un adattamento moderno di questa storia serviva un treno bloccato dalla neve che fosse un “teatro di morte” protagonista della vicenda quasi quanto gli stessi personaggi (molto più efficaci le scene sul treno nel film del ’74) ed era necessario far avvertire la presenza incombente dell’assassino fino ad una soluzione finale in grado di ribaltare le carte in tavola e convincere, per un attimo, gli spettatori a tifare contro al Poirot eroe visto fino a quel momento: tutto questo purtroppo non avviene, o avviene in minima parte, e tutto scorre in maniera molto tranquilla fino al pre finale, dove si ha finalmente qualche scossa.

La sensazione è quella di stare assistendo ad un buon adattamento teatrale, più che ad un buon film: gli attori, salvo poche eccezioni (Penelope Cruz, praticamente assente) interpretano sostanzialmente loro stessi, a partire da una Judy Dench che non assomiglia ad una principessa russa nemmeno per un frame e da un Johnny Depp pieno di cicatrici e sguardi inquietanti che fin dall’ingresso in scena lascia presagire il destino del proprio personaggio, ed ognuno di loro indossa costumi di scena talmente appariscenti ed elaborati da tradire facilmente l’impostazione teatrale del tutto, un esempio su tutti il Conte Andrenyi di Sergei Polunin, a metà strada tra il Conte Dracula e un ninja.

Per modernizzare ulteriormente il racconto, Branagh adotta uno stile di regia debitore dell’esempio di Guy Ritchie in Sherlock Holmes (2009), ma riesce a mantenersi su un piano più elegante, più consono ad una storia decisamente statica come quella di un omicidio a bordo di un treno degli anni ’30.

Il prodotto finale, per quanto inferiore al lavoro di Lumet, è comunque una piacevole rilettura del più importante romanzo giallo di tutti i tempi, e la perfetta fotografia di ciò che il grande pubblico chiede oggi al cinema di intrattenimento, tra grandi star che sembrano ripercorrere il meglio dei rispettivi repertori, scenari da cartolina e un finale che apre le porte all’avvio di un nuovo franchise: prossima tappa il Nilo.

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