Il ragazzo e l’airone: il tópos della catabasi secondo Miyazaki

Seconda guerra mondiale. Il ragazzo Mahito perde la madre durante uno dei bombardamenti di Tokyo a opera degli Alleati. A seguito di quest’evento si trasferisce in campagna con il padre Shōichi, dirigente della fabbrica appartenente alla famiglia della defunta moglie. Ad attenderli c’è la zia Natsuko, divenuta nel frattempo seconda moglie di Shōichi che porta in grembo il futuro fratellastro di Mahito. Ma nella tenuta della ricca famiglia c’è qualcosa di strano che attira immediatamente la curiosità del ragazzino, sperduto nel suo dolore per la perdita della madre e restio ad accettare la nuova situazione familiare: un airone cinerino un po’ troppo chiacchierone che, tra sogno e realtà, lo invita a cercare sua madre nella torre nascosta nel bosco che sovrasta la magione.

Il tocco unico di Miyazaki emerge fin dalla prima scena: tutto, dal design caratteristico dei suoi personaggi alle tinte “impressionistiche” dei paesaggi, alle animazioni fluide e al tratto deformato che accompagna la sequenza del bombardamento e l’incendio dell’ospedale in cui lavora la madre di Mahito. Ma ben presto emerge che il film sarà qualcosa di diverso: se da una parte può essere considerato un sunto di tutto quanto girato dal Maestro in precedenza, tra autocitazioni esplicite e implicite e la ripresa di alcuni temi cari al regista che attraversano tutta la sua produzione – l’amore per la natura, l’orrore verso la guerra, l’antifascismo – dall’altra Il ragazzo e l’airone si spinge oltre, verso territori fino a questo momento sconosciuti, o quasi, per lo stesso Miyazaki. Ma è necessario scendere più a fondo, un poco alla volta, per comprendere la portata estetica e contenutistica del film.

In primo luogo, si tratta di un’opera che può essere apprezzata e compresa appieno, sempre che sia davvero possibile, non solo da qualcuno che abbia presente l’intera filmografia del regista, ma che possieda un bagaglio culturale sufficientemente ampio da cogliere i riferimenti letterari e artistici che, attraverso l’allegoria più o meno celata, accrescono il significato della pellicola rendendola, anche all’interno di una brochure da favola come quella del Maestro, un capolavoro.

A cominciare dall’Isola dei morti di Böcklin, che potrebbe tranquillamente essere usata come immagine di copertina del film, con i cipressi che si stagliano più volte nell’arco della narrazione sulla terra destinata ad accogliere le anime dei defunti. A chiunque sia noto il quadro del pittore svizzero, apparirà chiaro ancora prima dell’inizio del film che il viaggio che Mahito si accinge a intraprendere sarà una catabasi in piena regola, una discesa agli inferi – seppur inferi colorati e bizzarri, popolati da creature tutt’altro che demoniache quanto piuttosto soggette a metamorfosi fantasiose e a tratti conturbanti (altro tema ricorrente nella produzione del regista, in primis in Porco Rosso e La città incantata, ma anche La Principessa Spettro e Il castello errante di Howl) – per ritrovare non solo la zia Natsuko, scomparsa misteriosamente poco prima del parto, ma anche se stesso, per affrontare e superare una volta per tutte il lutto della morte della madre. A ribadire il concetto, la frase incisa sulla porta della torre, portale d’accesso all’aldilà, tratta direttamente da Dante, Inferno III: «Fecemi la divina podestate».

Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e ’l primo amore

Inferno III, vv. 4-6
Il ragazzo e l'airone, il nuovo film del maestro Premio Oscar Hayao Miyazaki | Trailer Italiano HD

Anche solo a quest’altezza si può capire la portata metafisica della pellicola, forse più alta e approfondita rispetto a quanto accada in qualunque altro film del regista. Ma proseguiamo insieme a Mahito nella discesa, in quell’abisso che è il regno dei morti ma anche dei vivi, della mente e del cuore. In un costante ondeggiamento tra un registro altissimo e uno volutamente più semplice, tenero, che rende il film accessibile (anche se solo al minimo delle sue potenzialità) anche a un pubblico infantile, il primo incontro di Mahito nel mondo ctonio è quello con Kiriko, una sorta di guardiana dell’isola dei morti, avamposto per così dire dell’aldilà, che è nient’altro che la versione più giovane di una delle anziane serve della magione della famiglia di Natsuko (con un ribaltamento di prospettiva sul rapporto giovinezza-vecchiaia che, ne Il castello errante di Howl, vedeva invece la giovane Sophie ritrovarsi nel corpo di una vecchia a causa di una maledizione), l’unica accompagnatrice del ragazzo oltre all’airone che, da animale inizialmente elegante e minaccioso, già si è trasformata in una creatura grottesca che imbroglia per sopravvivere ma, come una palinodia del Virgilio dantesco, è eletto dal Signore della Torre a guida del protagonista. E con la giovane Kiriko vengono introdotti i Warawara, teneri esserini bianchi e rotondi che richiamano esteticamente in rapporto quasi 1:1 i piccoli abitanti della foresta de La Principessa Spettro, ma che di fatto possono essere visti come la rappresentazione in chiave Miyazaki delle idee platoniche che dimorano nell’iperuranio: davanti al loro moto ascensionale verso il cielo, Mahito chiede a Kiriko dove stiano andando ed ella risponde con semplicità che sono pronti a nascere nel mondo terreno come esseri umani. La loro ascesa è però ostacolata dai voraci pellicani, creature mondane confinate inspiegabilmente agli inferi (reminescenza dell’albatros di Coleridge?), finché non appare la figura di una ragazza avvolta dalla fiamme che li allontana, causando però anche la morte di alcuni Warawara.

Mahito è pronto per scendere un altro gradino verso il fondo dell’abisso. Tra lui e Natsuko ci sono però i temibili parocchetti, che da buffi pappagallini si sono strasformati in goffi ma pericolosi volatili umanoidi. Ad aiutare il ragazzo nella sua ricerca di Natsuko, una volta separatosi da Kiriko, è proprio la ragazza di fuoco, poco più che una bambina, che chiama Natsuko “sorellina”; ed è qui che lo spettatore più attento e navigato, che già aveva probabilmente intuito la cosa fin dalla prima apparizione della ragazza, avrà la conferma che Hiri non è altri che la madre di Mahito, anch’essa precipitata in fanciullezza in quell’abisso e poi tornata a casa dopo un anno esatto senza ricordare nulla delle avventure vissute. Il paradosso è sempre difficile da digerire, ma l’atemporalità dell’aldilà rende possibile l’incontro di madre e figlio, inconsapevoli a quest’altezza del film, come quasi coetanei. Prima di condurlo da Natsuko, Hiri mostra al protagonista il modo di tornare nel mondo reale: numerose porte lungo un corridoio circolare che portano in diversi mondi e in diverse epoche (e qui il precedente più vicino è il chiavistello magico de Il castello errante di Howl, dove il misterioso settore nero conduce in un luogo che non ha un’interpretazione definitiva: potrebbe essere la mente di Howl come i suoi ricordi, così come un limbo atemporale). Ma non è ancora il momento di attraversarle.

Mahito raggiunge finalmente Natsuko nella sala parto di questo stravagante mondo degli spiriti, ma questa reagisce con rabbia alla sua presenza, gridandogli di lasciarla sola e andarsene; solo quando, finalmente, il ragazzo la chiama “mamma” (come la donna aveva chiesto di fare durante il loro primo incontro), Natsuko cambia atteggiamento e gli chiede di scappare, sì, ma per salvarsi da quel luogo pericoloso. I due vengono infatti attaccati da origami affilati (altra citazione a La città incantata, con gli uccelli di carta che inseguono Chihiro e Aku), ma nell’animo di Mahito qualcosa è già cambiato, almeno per quanto riguarda l’accettazione di Natsuko. Nella confusione che segue, Mahito e Hiri vengono rapiti dai parocchetti ma, in sogno, il ragazzo incontra finalmente il Signore della Torre, che si rivela essere il suo antenato che molto tempo prima era sparito proprio all’interno della torre e dato per morto. Egli è divenuto il signore di quel mondo, che ha plasmato grazie a delle costruzioni in pietra bianca, pietra tombale, e a poteri sovrannaturali derivatigli da una roccia misteriosa venuta dallo spazio – un rimando alla kasbah islamica o “semplice” manufatto alieno? Forse nessuna delle due cose. Allo spettatore l’ardua scelta di interpretazione. Egli è però ormai troppo vecchio e desidera che Mahito divenga il suo erede, anche se solo dopo che il ragazzo è stato in grado di svelare l’inganno dei pezzi di pietra, che il suo antenato sosteneva fossero in legno (una classica prova di agnizione che si ritrova, ad esempio, anche ne La città incantata per quanto riguarda i genitori di Chihiro trasformati in maiali).

Nel frattempo, il re dei parocchetti, in una parata che è evidente parodia di Mussolini e del Fascismo, sta trasportando Hiri dal Signore della Torre in cambio della potestà su quel mondo. Nemmeno il tempestivo arrivo di Mahito, liberatosi grazie all’aiuto dell’airone, riesce a impedire al re di innescare senza volerlo l’autodistruzione di quel mondo: impilando malamente i pezzi di pietra per dimostrare di essere degno di quel ruolo, l’impettito aspirante dittatore costruisce una struttura instabile che crolla non appena ultimata.

La fine del viaggio è arrivata: Mahito riconosce Hiri come sua madre e le chiede di attraversare con lui la porta per tornare a casa. Ma il destino della ragazza è un altro, un’altra porta, un’altra epoca che la condurrà prima a divenire madre di Mahito e poi a perire nell’incendio dell’ospedale di Tokyo. Ma davanti all’esperienza della maternità e all’amore incondizionato per il figlio, Hiri affronta con coraggio il suo destino e si separa con un ultimo abbraccio da Mahito. A questo punto, la mutatio animi del protagonista è compiuta, con la sua accettazione dell’inevitabilità della morte della madre. Appena prima che il mondo degli spiriti collassi definitivamente su se stesso – non è chiaro se per poi ricrearsi e dare inizio a un nuovo ciclo – Mahito e Hiri attraversano le rispettive porte. E, ancora una volta, tornano a sentirsi gli echi de La città incantata, film cui Il ragazzo e l’airone è forse più legato: Mahito, come Hiri prima di lui (e come Chihiro e i suoi genitori), è infatti destinato a dimenticare quanto accaduto nell’aldilà, ma con una speranza, rappresentata dal pezzo di pietra bianca che il ragazzo si è inavvertitamente infilato in tasca durante il secondo incontro con il Signore della Torre. Ma quello che con certezza non dimenticherà mai è l’amore che prova verso sua madre e quello che sua madre ha provato per lui, un sentimento che va aldilà di ogni tempo e dimensione e non può essere cancellato nemmeno dalla morte.

Dopo essersi congedato dall’airone, divenuto suo malgrado un amico, quello che è ormai un giovane uomo va incontro al padre insieme a Natsuko e a Kiriko, oltre a tutti i pellicani e ai parocchetti tornati alla loro dimensione originaria, riconducendo finalmente all’unità la sua nuova famiglia.

Tempo dopo, a guerra finita, Mahito è pronto a tornare a Tokyo con un fratellino in più. Mentre lo vediamo riporre le proprie cose nella borsa, Miyazaki ci fornisce uno spiraglio di speranza simboleggiato dal pezzo di pietra bianca che il ragazzo ancora conserva: quello che non ha potuto e voluto fare nell’aldilà, potrà farlo nel Giappone devastato del secondo dopoguerra, contribuendo a ricostruire un Paese migliore, forte dell’esperienza maturata nel suo percorso di crescita spirituale compiuto nell’aldilà.

In conclusione, ne Il ragazzo e l’airone ci sono tutto Miyazaki e tutti i suoi film, per un’opera che può essere considerata il perfetto testamento spirituale del più grande regista giapponese del XXI secolo.

Inutile dire che l’analisi condotta in questa sede non ha la pretesa di porsi come esegesi esauriente di un’opera di tale portata e così ricca di riferimenti intertestuali, in particolare per quanto riguarda tutto ciò che concerne le allusioni a simboli e tematiche della cultura tradizionale giapponese, territorio quasi sconosciuto per chi scrive. Quello che ci si è proposti di fare è stata un’analisi il più completa e un’interpretazione il più credibile possibile per quanto è consentito a uno spettatore occidentale anche se, inevitabilmente, ciò che chi scrive ha notato o interpretato in un determinato modo potrà non essere stato notato e letto nella medesima chiave da qualcun altro, o ciò che a chi scrive è sfuggito potrà essere stato invece colto da un altro spettatore. Ma è anche questa la magia di capolavori densi di simboli e di significati come questo: il circolo quasi infinito di ermeneutica che si sviluppa a partire dalla pellicola, che si configura in questo modo come un’opera che, riprendendo un’espressione di Italo Calvino, non avrà mai finito di dire ciò che ha da dire e si può pertanto definire già ora, anche innanzi alla prova del tempo, come un classico.