Guardare Io Capitano di Garrone col mio amico Momi

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“Intervista? È solo un modo per travestire un rompi c**oni,
lascia in pace la gente”

Lino Pasquarelli

Start.

Avvio l’ultimo ciclo di lavastoviglie e inizio a gridare. Ci tuffiamo in macchina e ingraniamo verso l’unico cinema della città. È da poco finito il derby e i tifosi colorano le strade, siamo costretti a scegliere un percorso che potrebbe costarci il film.

La notte precedente, mentre architettiamo lo schema dei tavoli, tra la solita prolunga incastrata e il bagno intasato, il piano comincia a prendere forma. L’idea è di scappare tutti insieme, dopo il battesimo, all’ultimo spettacolo delle sei e mezza; poiché quella di domani è l’unica serata libera di Momi, abbiamo una sola possibilità prima che il film esca dal cartellone. Mouhamadou Mbaye detto Momi, è un uomo senegalese alto e slanciato che una mattina di diciassette anni fa apparve sulla soglia del ristorante con un pacco di cd avvolti in un elastico. Oggi è il factotum di questa e di un’altra struttura.

Dopo un breve e travagliato riposo, ci ritroviamo la mattina seguente di nuovo al ristorante. Ci fissiamo curvi sul bancone con gli occhi rossi e la tazzina di caffè in mano. Accendiamo la solita playlist e Restless dei Kakkmaddafakka ci scuote insieme al battere di mani dello chef: segnale che da inizio a una battaglia la cui fine è impossibile prevedere, ma non oggi. A mezzogiorno è tutto pronto e tirato a lucido ma gli invitati si presentano alle due. È tardi ma gli sventoliamo cinque antipasti sotto il naso in poco più di mezz’ora, continuando a scodinzolare, per dirla con Gadda, nonostante celiachie impreviste e intolleranze improvvisate. Il servizio procede a ritmi forsennati, abbiamo fatto tutti le ore piccole a causa degli eventi del giorno prima, ma nessuno se ne ricorda e i corpi danzano nel musical di paccheri al ragù d’agnello e scialatielli alle vongole. Tornato in cucina incrocio lo sguardo preoccupato di Momi e poi quello austero dell’orologio: i clienti si attardano in giardino, fumano e imprecano sui telefoni sintonizzati sul derby. Siamo tentati di sederci a masticare per loro, di radunarli come farebbe un allevatore o un cane da pastore.

Scema l’entusiasmo e affiorano le occhiaie, si sentono le articolazioni cigolare mentre il corpo rallenta, da ballerini viriamo rapidamente su qualcosa di contorto che potrei tradurre solo in un Edgar Abito. “È impossibile, sono le quattro e mezza e se il bambino non si sveglia non possiamo fare le foto con la torta”, sbuffa una collega. Siamo oramai tesissimi e sul punto di arrenderci, l’umore dello chef che pesa sulla bilancia emotiva della brigata continua a sputare sul piatto di una scaramanzia partenopea che non gli appartiene più. Ad un certo punto, proprio un attimo prima che la speranza raggiunga il punto di fumo, si manifesta un angelo travestito dalla mamma del bambino, viene da noi e ordina di servire la torta, ribolliamo di gioia e chiediamo se finalmente il figlio è tornato fra noi, e lei tuona: “Che si fotta!”.

Non ha detto così, ma ci sarebbe piaciuto.

Cavalchiamo il basso di Money dei Drums, e per poco non smontiamo anche gli infissi del ristorante. Finisco di pulire la macchina del caffè, avvio l’ultimo ciclo di lavastoviglie, svuoto i posaceneri e comincio a chiamare l’adunata. Tre camerieri della brigata si sacrificano per la causa finendo di passare scopa e straccio con orgoglio kamikaze. Scegliamo di prendere la superstrada mente sulla statale 80 sventolano bandiere bianco rosse sopra il frastuono dei clacson. Abbiamo fatto la scelta giusta, ma sono comunque le sei e vent’otto e lo chef, con la toque ancora in testa, sfreccia tra le proteste della moglie (incinta) e l’euforia del figlio undicenne, con l’idea neanche troppo velata di trasformare il cinema in un drive in. Ci tuffiamo fuori dalla macchina e cominciamo a correre, il nostro ingresso sembra quello dei rapinatori di banche nel vecchio west. Il film è iniziato da cinque minuti, dicono mentre cerchiamo di estorcere gli ultimi biglietti rimasti al botteghino. Un cameriere e una chef sono rimasti incastrati nella tela dei tifosi giallo rossi in trasferta, ma stanno arrivando e io che ho già visto il film mi offro di attenderli, ma lo stesso angelo del battesimo entra in possesso di Carlo, il bigliettaio, che ci strappa i biglietti dalle mani e fa: “Ci penso io, correte!”. Ci fiondiamo verso la sala, sporchi, puzzolenti e con gli abiti da lavoro.

Scivoliamo come delle ombre schiacciandoci in prima fila, gli unici posti rimasti. A pochi metri da noi, Seydou e Moussa, i protagonisti del film, suonano uno strumento a percussione che Momi riconosce subito come Sabar. Lo guardo accarezzarsi il pizzetto spolverato di bianco, fiero di essere l’unico in sala a non leggere i sottotitoli. Intanto i due protagonisti cominciano il viaggio e noi li seguiamo sulle corde di Azamane Tiliade, il blues del tuareg Bombino torna a casa e non può astenersi dal mordere l’obiettivo che fluttua in controluce tra le dune e la carovana nel deserto. Mi giro ancora verso Momi e lo vedo bagnato dalla luce del Sahara che gli precipita addosso.

IO CAPITANO di Matteo Garrone (2023) - Trailer Ufficiale HD

Oltre alla tecnica, Garrone lavora in equilibro tra la retorica pericolosa di un cammino sospeso sulla corda dei sentimenti, e la banalità di inciampare in sentimentalismi stucchevoli, arrivando dall’altra parte con la fermezza e il coraggio di un funambolo. A differenza di questa frase.

Mouhamadou Mbaye vive in Italia da quasi vent’anni, tre di questi trascorsi da clandestino. Il suo viaggio comincia su un aereo diretto in Spagna, ciò nonostante, riconosce benissimo la veridicità degli eventi narrati dal film, moltissimi dei suoi amici hanno fatto il Viaggio e altri si stanno organizzando per farlo. Le ragioni che lo hanno spinto a lasciare Dakar, non sono né la fame né la miseria, infatti, era un rappresentante ittico di alta qualità e guadagnava molto bene: “Io i soldi non li ho conosciuti qua!”. Dopo la morte del titolare, l’azienda cessa le sue attività e Momi guarda per la prima volta all’Europa, poiché l’alternativa sarebbe un retrocedere di carriera e soprattutto di stipendio. Racconta il trauma nello scoprire persone che vivono e muoiono in mezzo alla strada, ricalcando esattamente la scena del commerciante che tenta di dissuadere i protagonisti del film dal partire. “In Senegal chi vive per strada è perché è fuori di testa, ma anche lui può bussare e trovare un letto e un po’ di cibo”.

Quando Momi torna a Dakar per le vacanze, si ritrova a fare lo stesso discorso a chi vorrebbe o sta per intraprendere il viaggio: “L’Europa non è quella che immaginate, non è il paradiso che pensate voi”. Chiaramente è difficile trovare un luogo sul pianeta che rispecchi le aspettative di chiunque, e l’intento di Momi non è quello di dissuadere, ma di preparare. “Quelli che vedi qua in Italia a chiedere soldi per strada, che fanno l’elemosina, che non mangiano bene, non si vestono bene e non dormono bene, che quando entri dove abitano senti solo odore di merda, prima di tornare in Senegal si vestono bene e fanno credere che vivono bene, perché si vergognano”, me lo dice dritto negli occhi, continua: “Quello del film, che si arrabbia con i protagonisti, è andato in Europa, sa che cosa ci sta ed è tornato a casa sua e fa il suo piccolo lavoro. Certo puoi avere fortuna ma non è…facile”. Momi invece dice di aver trovato subito il quartiere dove acquistare, a prezzi irrisori, pacchi di dischi e capi d’abbigliamento cinesi che vendeva abbastanza in attesa del permesso di lavoro. Arriverà tre anni più tardi sul tavolo di una generosa cliente abituale del solito ristorante. Sarà lei a sfruttare il “cavillo” creato dalla sanatoria Berlusconi del 2009, e lo assume in casa per il tempo necessario alla documentazione. Forse c’è ancora speranza per il genere umano.

Ci prepariamo una tazza di tè, a lavoro Momi si diverte a inventare infusi raccogliendo erbe e foglie intorno al ristorante; ricorda la prima volta che mettendo il piede in sala incontra il figlio del titolare. Quest’ultimo gli permette di allestire un banchetto di dischi e dvd vicino alla cassa “Lui garantiva con i clienti per me, diceva che se poi un dvd non andava bene io glielo cambiavo, così si fidavano e vendevo senza disturbare nessuno”. Un giorno alla volta Momi comincia a svolgere mansioni insieme al ragazzo, prima la spazzatura, poi il pavimento; sotto gli occhi del titolare che non si fidava come faceva suo figlio, “Un giorno il capo comincia a darmi dei soldi da cambiare, cinque euro, io uscivo, cambiavo i soldi e tornavo. Poi cinquanta euro, poi cento, cinquecento, mille… Io prendevo i soldi, andavo fuori, li cambiavo e tornavo”. Aveva guadagnato anche la fiducia del padre, e Momi invece sbotta: “No! La fiducia è arrivata un giorno quando è venuto da me e ha comprato due dvd porno”. Scoppio a ridere e un po’ mi vergogno pensando alla scena del film in cui Seydou setaccia le maioliche al compagno per guadagnarsi la libertà. Con tanto sforzo associativo immagino Momi che lo fa grazie a un paio di porno.  

Oltre al lavoro, la vita di Momi si divide tra preghiera e politica. A Dakar aveva l’abitudine di frequentare il cinema, ma una volta in Europa ha smesso di farlo. “Non conoscevo Io Capitano, non mi piacciono i film di oggi, preferisco i documentari di politica”. Per lui le vicende del film sono da sempre pane quotidiano: “Tutti quelli che fanno il viaggio raccontano cose come quelle, sempre, soprattutto se arrivi in Marocco e vieni rimandato indietro”. Si arrabbia quando gli parlo dei politici che negano l’esistenza dei campi di concentramento in Libia, “Questo è ridicolo, lo sanno tutti”. Beve un sorso di tè, una miscela acquistata dai beduini del Wadi Rum in Giordania che ci riporta nuovamente nel deserto, in particolare alla frustrazione che dice di provare nei confronti della mafia libica, “Dopo la morte di Gheddafi è cominciato tutto questo, prima non sarebbe mai potuto esistere”. Racconta del colonialismo francese e statunitense, passando dall’Unione africana a Charles Pasqua:

“Devono lasciare gli africani da soli, abbiamo ricchezza, manodopera, sono tutti giovani, se ci lasciano stare io domani torno a casa! Non ci sono le montagne possiamo coltivare tutto, se scavi c’è l’acqua, oro, petrolio e persone intelligenti (cervelli in fuga) in giro per il mondo. Tra vent’anni sarete voi a venire da noi per lavorare. Ma i poteri non lasceranno mai l’Africa.”

“Cosa pensi sia utile nel prossimo presente?”

“Lo sai che dobbiamo fare? Dobbiamo lasciare perdere i visti, il mondo è di tutti, per andare in Africa non serve il visto, perché per uscire sì?”

“I confini ci fanno credere di essere più diversi di quanto non siamo, che differenza hai notato appena arrivato in Italia?”

“Gli Italiani sono simili ai senegalesi, sono simpatici e accoglienti, sono aperti, non sono chiusi, non sono freddi. In due tre giorni che sono arrivato qua mi ricordo che avevo fatto già molte amicizie. Secondo me gli italiani sono senegalesi bianchi. L’unico difetto che hanno senegalesi e italiani è che con il potere, con i soldi, mettono la cravatta e diventano freddi e chiusi. Si dimenticano.”

Torniamo a parlare di Io Capitano, di come anche il figlio undicenne dello chef sia rimasto abbagliato dal film, e dagli stessi particolari decantati da Momi che ne esalta l’attenzione per i dettagli: “Si vede tanta Africa, c’è tanta cultura e diversità”. Attratto dalla purezza del protagonista, dalla scena in cui è l’unico a tornare indietro per aiutare la donna nel deserto, dice che i senegalesi fanno così, “Loro tornano indietro e ti aiutano, non lo fanno tutti”. Lo stesso vediamo nelle scene in cui Seydou attraversa le varie comunità senegalesi alla ricerca del cugino e senza volerlo rimedia un posto dove stare. Gli domando se le scene di realismo magico lo abbiano disturbato, scuote la testa: “Assolutamente no, è una metafora, mi piace quando l’angelo accompagna Seydou dalla madre, nel sogno desidera farle sapere che è ancora vivo”. Io nella mia idiozia realizzo in quel momento che è lo stesso angelo del battesimo e del bigliettaio Carlo, senza il quale non saremmo mai arrivati in tempo.

“Che cosa diresti del film a Matteo Garrone?”

“Che lo ha fatto veramente bene. Io quando vedo il film… io vedo tanti tipi di africani, tanta cultura africana, la diversità! Si vede come sono. È bellissimo, è perfetto.”

Nell’ultima scena Garrone rivela l’origine del titolo del film, ricordandoci ancora una volta la potenza della semplicità. Scorrono i titoli di coda, si accendono le luci e di fianco emerge una massa informe, si muove verso di me con le gambe large e le mani spalancate, si scopre un volto rigato di lacrime: “Vaffanculo Daniè” tuona la moglie incinta dello chef.

Stop.

Grazie a Mouhamadou Mbaye per essersi prestato con entusiasmo a questa intervista, scusandomi per le ore prese in prestito alle preghiere.