The Menu: un film sulle conseguenze delle ossessività post-moderne.

Sono decenni che le televisioni ci bombardano con programmi di cucina sia di persone preparatissime che da sedicenti chef. Cultori di chissà quale prodotto biologico d’élite per poi ridursi per denaro a fare le pubblicità per le patatine industriali o le gallette di riso. Ma, ed anche grazie alla recessione selvaggia che è sotto i nostri occhi, molti stanno ritornando ad avere un rapporto più sano con il cibo, senza badare alla tanto millantata esclusività nel pagare una bistecca da 50 euro, 250 euro. Questo si sa, anche se molti storceranno il naso diciamocelo è dovuto alla ossessione per un sistema economico che predilige i pochi per lasciare indietro i molti, e se ci sono persone che per miracolo mettono insieme il pranzo con la cena, c’è chi per un contorno paga 50 euro per delle verdure che potrebbe tranquillamente coltivarsi in giardino.

Da qui parte lo spunto del regista britannico Mark Mylod che intavola un horror/drama che ha sicuramente delle pecche, ma elargisce allo spettatore un significato profondo. Il maggior pregio del regista è mettere a nudo un sistema che non ha ben chiaro cosa sia la realtà, con persone (una ristretta cerchia a dire la verità) che vivono di questo riflesso irreale. La cosa più grave è che la maggior parte delle persone comuni non mirano ad eliminare questo genere di meccanismo imputridito, ma “sognano” di farne parte. È il caso di uno dei commensali, il bravo Nicholas Hoult, scrupoloso nel suo “fanatismo culinario”, altra grave pecca di quest’epoca, mischiata alle varie ossessioni che toccano innumerevoli argomenti. Il cast è di tutto rispetto ed oltre al sopracitato attore nativo di Wokingham, compaiono l’eterno Ralph Fiennes, sempre a suo agio in questi ruoli particolari e Anya Taylor – Joy che si conferma oramai attrice vissuta e duttile su molti gradi di recitazione.

THE MENU (2022) Trailer ITA del Film con Ralph Fiennes e Anya Taylor Joy

La lotta per la sopravvivenza in cui si trasforma la pellicola, prendendo una piega imprevedibile e ricordandoci in qualche modo anche le sette omicide/suicide che si sono formate negli Stati Uniti tra metà degli anni Sessanta e tutti gli anni Settanta, riesce a creare una suspense non indifferente. Il paragone che il regista e gli sceneggiatori Seth Reiss e Will Tracy insieme ad una truce satira sui nostri tempi, è proprio quella dell’esaltazione su cui si appoggiano le nostre convinzioni, non ammettendo il contraddittorio. Questo fenomeno, nato principalmente grazie ai Social network ma consolidatosi anche in classi politiche non proprio all’altezza della parola “Democrazia” nell’intero mondo occidentale, ci sta trasformando lentamente più che in esseri con un intelletto in mostri pronti a screditare con qualsiasi mezzo l’interlocutore.

Quella che è a tutti gli effetti una parodia culturale su cosa sia diventato l’Occidente, riesce ad acquisire a piene mani linfa dal teatro dell’assurdo tanto caro ad esempio a Ionesco e Beckett. Fare una riflessione sui rispettivi vantaggi e le contraddizioni che ci avvolgono sembra decisamente troppo per i “fortunati commensali”, ma quello che è certo, che anche ad una fetta di pubblico sia sfuggito molto della profondità espressa. Tanto che la possibilità di redenzione verrà offerta proprio a chi ha i piedi ben saldi sull’attualità e sulla situazione nella sala, ritornando all’umanità più pura che gli permette di godere in barba a tutti i piatti sofisticati di un semplicissimo hamburger. La domanda alla fine dell’opera sorgerà spontanea: “Quand’è che siamo diventati cosi?”, abbiamo sacrificato sull’altare di un presunto benessere i veri valori, su cui tra l’altro diverse classi politiche marciano, distraendoci dalle cose importanti e riportandoci in tema di diritti sociali all’Ottocento del secolo scorso.

Il dramma sociale ed umano è servito esattamente come i sofisticati piatti dello chef Julian Slowik/Fiennes e forse il regista avrebbe potuto addirittura spingere di più sul vuoto che le pressioni dell’impeccabile ci propinano quotidianamente, facendoci desiderare cose che poco hanno a che fare con la felicità.