Hejira: l’album di Joni Mitchell, il passaggio verso il futuro

La copertina di Hejira, nono album di Joni Mitchell, è una sovrapposizione (curata da Norman Seef su fotografie di Joel Bernstein) in cui una freeway lunghissima trova il proprio punto di fuga nel torace dell’artista, che spicca tra i confini della sua sagoma nera, mentre un deserto di ghiaccio (e i colori potrebbero essere benissimo quelli della sabbia) campeggia alle sue spalle. Fosse solo un’immagine suggestiva, poetica, non staremmo qui a parlarne: il fatto è che questa sintesi iconografica di elementi, disposti attorno e attraverso la figura principale della cantautrice, somiglia a un accorpamento di visioni ed emblemi collettivi di una generazione perennemente su quella freeway che scorre sempre a doppio senso, soprattutto se fuggire da qualcosa è sempre come esserne alla ricerca, o cercare altro.

In effetti, Joni Mitchell – che ha sempre amato moltissimo questa cover – ha rappresentato e fatto da eco allo spirito di tutti quelli che, cresciuti fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, anelavano a uno scollamento definitivo dai valori borghesi che tendono a normare o a reprimere desideri e sogni individuali. Mitchell ha scritto Woodstock (brano di Ladies of the Canyon) in una camera d’albergo di New York nel 1969, guardando i servizi televisivi sul festival a cui non aveva potuto direttamente partecipare perché il suo manager le aveva prenotato un’apparizione al Dick Cavett Show. Lo stesso brano sarebbe poi stato riarrangiato e reinterpretato da Crosby, Stills, Nash (all’epoca suo fidanzato) e Young, diventando solo allora, ironicamente, un inno della controcultura. In Blue (1971), River cantava la volontà di pattinare via da un nucleo domestico che si aggrega in una felicità claustrofobica e da un’atmosfera natalizia che non lascia spazio alla dignità del dolore. Lo stesso dolore si rivela evidentemente un rito di passaggio verso un mondo adulto che non è più in grado di estremizzare i sentimenti e ne mitiga i tumulti, accogliendo soprattutto quella vasta gamma di esperienze umane che si collocano “nel mezzo”.

Hejira è l’opera che arriva in questo momento decisivo. In un percorso artistico che progressivamente si schiude e comincia ad arricchire il folk-pop di influenze inedite, Hejira sorge all’apice della fama di Mitchell e insieme, coraggiosamente, al culmine di una fase fortunata, suggellando l’inizio di un tragitto verso lidi sconosciuti. Dopo il dittico Court and Spark e The Hissing of Summer Lawns, già anticipatori di una chiarissima tendenza, Hejira rinsalda e rinnova il centro d’interesse dell’artista, ovvero quel jazz rivoluzionato che è indiscusso protagonista della decade. Un jazz che, agli inizi degli anni Settanta, aveva già iniziato un processo spontaneo di adattamento all’ambiente musicale, fagocitando elementi rock sempre più importanti e raggiungendo lo zenit della sua fama proprio attorno alla metà del decennio. E Mitchell non si limita a prendere in prestito alcuni fra i migliori musicisti della scena jazz/fusion del momento, perché in realtà è lei a penetrare e ad amalgamarsi naturalmente a quel mondo in continuo adattamento. A parlare chiaro è tutto ciò che segue quest’album, l’esplorazione radicale e matura di questo genere musicale in varie forme che prosegue con Don Juan’s Reckless Daughter e l’omaggio dichiarato che è Mingus (a Mingus, appunto) fino ai giorni nostri, con rare incursioni in sonorità più pop: Hejira non è una fase, è una dichiarazione.

Ed è un’opera mediana, quasi conciliante. Prima di tutto fra due e più modi di intendere e comporre la musica, tra uno (il folk) che celebra le radici e l’altro (il jazz) che palpita nella smaniosa ricerca di configurazioni sempre nuove, aggiornate. Poi fra i due luoghi che delimitano un itinerario, una partenza e un arrivo: Hejira, parola araba che significa anche “emigrazione”, è anche il viaggio solitario dal Maine alla California, in automobile, durante cui Mitchell ha scritto e composto ogni brano dell’album. Non solo in senso strettamente geografico: il viaggio è un nuovo modo di concepire gli incontri, che in Hejira sono sempre fugaci (come quello con il “Coyote” che dà il titolo al primo brano), le persone, la vita stessa, ed è un cammino introspettivo che Mitchell compie all’interno di sé, imitando la rotta della strada che attraversa il suo cuore nella copertina. Le sonorità e le atmosfere ricalcano e amplificano lo spirito di un’esperienza on the road che da sola può mutare profondamente l’artista, darle un quadro d’insieme inedito sulle cose materiali e astratte. L’hejira araba è anche “rottura”, in senso stretto: rottura dei legami con ciò che viene prima e, di riflesso, con ciò che si è stati prima. Per Mitchell, che ha scelto questa parola rapita dalla J interposta nel titolo, è “fuggire via con onore […] lasciare il sogno, senza colpa”. A trent’anni, uscire da una relazione con onore, integri e in piedi, senza scivolare nella tragica tristezza di gioventù.

Coyote

Un senso di rottura si ripercuote anche sul piano sonoro: al piano e ai cori strutturati dell’immediatamente precedente The Hissing of Summer Lawns, Mitchell predilige il suono della percussionista soul Bobbye Hall e delle chitarre, acustica ed elettrica, con “strane accordature” (come Mitchell stessa le battezza) che, tuttavia, si accordano alla perfezione con le atmosfere del viaggio suggerito. A determinare forse il cambiamento più radicale nella struttura dei brani dell’artista è il glorioso basso fretless di Jaco Pastorius, che nel marzo dello stesso anno aveva registrato Black Market con i Weather Report di Joe Zawinul. Coyote, brano d’apertura e primo singolo estratto, introduce i nuovi suoni nel repertorio di Joni mantenendo ancora ben salda l’unione con le radici folk dell’artista: Pastorius costruisce linee di basso che finalmente valorizzano gli accordi sofisticati di Mitchell – l’artista non sopportava che i suoi session men soffocassero alcune “grace notes” e sottigliezze, e gli stessi consigliarono a lei di cercare un bassista jazz in grado di comprenderle – e la combinazione fra i due dà vita a un reiterarsi ipnotico di motivi musicali che accompagnano i lunghi versi, come nella title track Hejira (impreziosita dal clarinetto di Abe Most), in Black Crow e in Refuge of the Roads. Fra i nomi di spicco si conta anche quello di Larry Carlton, chitarrista degli Steely Dan in Katy lied e The Royal Scam e dei Crusaders dal ‘71, alla chitarra elettrica in Amelia, e tra gli eco della traversata di Mitchell compare l’armonica di Neil Young in Furry Sings the Blues.  Come Wayne Shorter le aveva rivelato, la musica di Joni Mitchell abbonda di accordi “sospesi”, che “mancano di risoluzione” da un punto di vista armonico, e questa sospensione si riflette nella narrazione di Hejira, fatta di storie aperte, insolute. Come in Amelia, intensa confessione sulla difficoltà di farsi da parte, di accettare la fine e la distanza sentimentale. Amelia è l’aviatrice Amelia Earhart, scomparsa in volo sul Pacifico, inghiottita “dal cielo, o dal mare” (in uno degli interrogativi più commoventi nella produzione dell’artista), figura fantasmatica che si schiude agli occhi di Mitchell a partire dall’immagine di “six jet planes” che sfrecciano sul “deserto bruciante”: il racconto è più un flusso di pensieri che comincia in un attimo di stasi in cui la vita si ferma e si presenta come un “travelogue” pieno di ricordi e immagini, come un resoconto su dove si è arrivati e dove si sta andando, che però impila soltanto domande e dubbi – “maybe I’ve never really loved” – e fatica a trovare risposte. I fantasmi tornano in Furry Sings the Blues, brano nato da una visita all’appartamento del chitarrista country-blues Furry Lewis: “old Furry”, sul letto con una dentiera e senza una gamba, è il triste simbolo di una Beale Street in “grigia decadenza” in cui è svanita ogni traccia dei fasti del ragtime blues, delle “good old bands”, degli snack bar anni Sessanta di cui rimangono solo le carcasse, dell’anima delle statue di bronzo, oggetti intrappolati e dimenticati in piccoli parchi. Si ritorna agli incontri casuali e le relazioni transitorie in Strange Boy: la conoscenza di un uomo che si aggrappa alla sua adolescenza – “he keeps referring back to school days and clinging to his child”, “even the war and the navy couldn’t bring him to maturity” – e che attrae l’artista perché la sua dolcezza e la sua intelligenza cerebrale, immatura, possono riportarla a un tempo felice, alla spensieratezza della giovinezza appena salutata. Confortata dalla naturalezza della malinconia, Mitchell confeziona con la title track Hejira il brano forse più personale e difficile, parlando del complesso ritorno a se stessi dopo una relazione a due, in cui il prezzo della condivisione e dell’amore è la perdita di un pezzo di sé, e delle infinite sfumature dell’esperienza umana, irriducibile agli estremi poetici e capace di trasformare ogni sconosciuto in un possibile doppio di noi stessi.

Ed è un doppio dell’artista la destinataria di Song for Sharon, una vecchia conoscenza che appare come ombra di un ricordo alla visione presente di un abito da sposa in una vetrina di Staten Island. Come ad Amelia, Mitchell racconta a Sharon del “pericolo ripetitivo” dell’amore, che l’ha condotta lì; dell’età in cui si tiene stretta in pugno l’illusione del controllo sul proprio destino – “You know it was white lace I was chasing” – e di come i sogni possano invertirsi, per ironia del caso. Come un corvo che si tuffa nella notte per raccogliere qualsiasi oggetto luccichi nel buio, così in Black Crow la cantante manifesta la sua disposizione e la sua promessa di vivere improvvisando, accogliendo la casualità in un elogio alla libertà. Il brano più classico dell’album, Blue Motel Room, è una ballata blues intrisa di malinconia e speranza in un ritorno sentimentale che sembra possibile solo come sogno (il riverbero dei cori lo conferma). L’incontro con un maestro di meditazione buddista in Refuge of the Roads ricalca alcune vibrazioni del precedente album e chiude l’album, proiettando l’artista verso un futuro incerto con il bagaglio ancora chiuso: l’ultima pagina del diario è una sorta di rendiconto che si alterna a piccoli e titubanti sprazzi di rivelazioni, una temporanea riconciliazione con il mondo. Una di queste rivelazioni è la certezza del cambiamento; la certezza dell’enigma, dell’incostanza, delle possibilità, dell’incredibile complessità che aspetta di essere esplorata, delle sue foreste e dei suoi animali, delle sue persone e delle sue autostrade, con le stanze blu dei suoi motel e i misteri dei suoi viaggiatori. Che, è certo, non si trova in nessun altro mondo conosciuto.