BLUMUNN: la piece teatrale di Marina Confalone ci ricorda Eduardo De Filippo

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Eduardo in una celebre intervista disse che finalmente dopo la censura fascista poté dedicarsi: “alla forma teatrale alla quale da sempre avevo aspirato, ed è poi la più antica: la corrispondenza ideale tra vita e spettacolo, fusione ora armoniosa ora stridente tra riso e pianto, grottesco e sublime, dramma e commedia, abbandonando quell’artificio scenico che è la netta divisione fra farsa e tragedia. Mi domandavo: perché per oltre due ore il pubblico deve o solo ridere o solo piangere? E perché gli spettatori, mettiamo, di Molière, accettavano le sue commedie tragiche – o tragedie comiche – e quelli di oggi non ci riescono?”.”Non c’è ragione valida, c’è solo l’uso, divenuto tradizione, di tale artificiale divisione”. 

Le sue pièce erano così comiche e drammatiche, tragiche ed ironiche. Metteva alla luce le ipocrisie della società, liberava il senso dell’esistenza, ponendo i suoi protagonisti in modo interrogativo verso i luoghi comuni. Con l’ironia e quel senso comico che in fin dei conti riesce a tenere tutto insieme ed a farci fare il salto di qualità. 

Spesso ricorreva al sogno, che si mescolava al ricordo, come punto di partenza per sgominare le incrostazioni del vivere comune, sotto le quali si nascondono le contraddizioni umane e le sofferenze sociali. 

La pièce teatrale BLUMUNN, scritta e recitata da Marina Confalone, sembra seguire la visione del teatro del grande Maestro, che oltretutto la rese protagonista via via, fin dall’età giovanissima, nelle sue rappresentazioni.  

La sua opera è drammatica e comica, non teme l’aspetto più nevrotico dell’esistenza ma nemmeno nega il balsamo e l’intelligenza dell’ironia, della delicatezza, dell’autoironia. 

Non manca la prerogativa tipica del teatro eduardiano, la messa in discussione dello status quo iniziale, che sembra perfetto ma è pieno di lacune, rapporti viziosi, insicurezze, nevrosi. Il sogno ed il ricordo attraverso cui si fa avanti quella luce, che seppur inizialmente drammaticamente incomprensibile, dal profondo delle tenebre della nostra psiche, mescola le carte, le sorti, mette infine ordine alla nostra vita. 

In questa opera si affronta il dramma, antico ed universale, di dare un senso all’esistenza nel seguire il nostro daimon seppur in contrasto con le nostre precostituite ed altrui aspettative. 

Nella storia uno dei due protagonisti è un giovane, orfano di madre e succube del padre. Quest’ultimo gli impone di trasformare  un vecchio night club in una rivendita di surgelati, come una che già possiede, replicando così la sua vita con quella del figlio. Con la figura archetipa del padre-padrone, proiezione  psicologica della società e delle sue regole, che inconsapevolmente soffoca la  grande passione del ragazzo verso la musica. 

Questo equilibrio inizialmente apparentemente perfetto, tipico eduardiano, nasconde nevrosi, insofferenze, fino a quando arriverà l’incontro con la sua Musa, il sogno, che proverà a liberarlo, in un gioco di follie, incomprensioni, esaltazioni, pianti e risate. 

Il testo scritto da Marina Confalone ha la forza di non fermarsi alla semplicemente esaltazione del seguire il proprio demone, che diventerà il proprio destino. Mostra l’intera realtà nelle sue sfaccettature. 

Inseguire le proprie passioni significa avere talvolta un mondo esteriore contro, la società, i pregiudizi, i suoi meccanismi economici, talvolta gli affetti stessi, che cercano per paura di metterci al riparo, non avvertendo, nella solitudine, il nostro sentire. 

Ci mostra anche il senso etimologico di passione: “patire”. Le passioni si patiscono e forse anche per questo ci fanno paura. Mettono in gioco la totalità dello scopo della nostra esistenza,  hanno un senso drammatico, in senso alto del termine, sebbene gioioso. Richiedono l’ausilio di ogni singola energia nervosa, il coinvolgimento di ogni lembo del nostro corpo. La solitudine.

Non a caso Eduardo con la sua consapevolezza, avvertiva quel “gelo” quando faceva il suo teatro.

La passione inevitabilmente ci metterà a contatto con lo squallore, la nudità più rimaneggiata, lo stremo delle nostre forze fino alla Bellezza, alla creatività, al piacere, al sublime, per certi versi all’eterno. 

Come si dimostra nella pièce, la passione vede tra i tasti neri e bianchi di un pianoforte la musica, così come Michelangelo vedeva già nel blocco di marmo la sua opera. Vede in un locale squallido ed abbandonato, un luogo di fantasia e di incanto. 

Chi insegue la passione, preso dalla creatività, nemmeno se ne accorge della povertà del punto di partenza, del foglio bianco. Perché la creatività ci rivolge verso il futuro.  Come diceva Eduardo “Forse è perché l’unica cosa che conta veramente nella vita di un artista è il futuro, e il passato, a insistervi a lungo, limita la creatività e la voglia di essere creativi.” 

Marina Confalone affronta quindi ogni paradigma: i rischi, la follia, la libertà, la leggerezza, la gioia, dell’inseguimento delle proprie passioni. Con una visione teatrale che ricorda il grande Maestro, mettendoci però una nota di vivacità, l’intuito di una femminilità napoletana, materna, moderna. Un punto di vista più generoso, più umano, meno altero e per questo infine più sentito.