Cormac McCarthy, Meridiano di Sangue: un capolavoro (al di là) della frontiera

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Discutendo su chi sia il più grande scrittore vivente, ne salterebbero parecchi di nomi e cognomi fuori. Volendo però restringere il cerchio, perpetrando un infantile gioco di penitenza, tra i posti iniziali comparirebbe senza dubbio lui: Cormac McCarthy. 

Parlare di McCarthy non è semplice. Un artista che comunica soltanto attraverso i suoi libri. Un uomo schivo, che sfugge ai riflettori quasi fossero effimeri strumenti iniettanti ego filiforme, oppio illusorio che intacca la purezza.

Ogni epoca ha i suoi mostri e i suoi geni. Il nostro letterario, è lui. 

Prosa ricercata e contenuti di spietata durezza, i marchi di fabbrica che nel tempo l’hanno contraddistinto, segni peculiari che trovano il culmine in quello che unanimemente dalla critica è considerato il suo capolavoro: Meridiano di Sangue

Irto sul podio dei più grandi scrittori viventi, Cormac McCarthy è la testimonianza diretta di come la letteratura, quella vera, sia profondamente immorale, schierata a spada tratta dinanzi a loro, ribelli, banditi, reietti di ogni genere.

Meridiano di Sangue narra le vicende di una posse di cacciatori di scalpi di metà ’800 realmente esistita, che nella violenza scellerata sembrano trovare l’unica via per la sopravvivenza: la banda Glanton.

“E andavano avanti. Andavano avanti come investiti di una missione dalle origini remote, come legatari uniti da un patto di sangue a un ordine implacabile e antico. Perché sebbene fra loro ogni uomo fosse unico e distinto, la loro unione dava corpo a qualcosa che non era esistito prima, e in quell’anima comune si stendevano plaghe non più esplorabili di quelle regioni bianche sulle vecchie carte geografiche dove davvero vivono mostri e dove non c’è nulla del mondo conosciuto se non venti immaginari.”

Prendendo spunto da My Confession, libro di memorie di Samuel Chamberlain, un membro della famigerata brigata, McCarthy affresca quello che David Foster Wallace ha definito: “Il western che mette la parola fine a tutti i western.”

Cowboy. Indiani. Saloon. Cavalli. Pistole. Il mito della frontiera in America è ormai un’epoca masticata, sputata e calpestata. Ancora oggi artisti di ogni sorta si avvicinano a quel periodo storico cercando di riproporlo nelle più svariate sfaccettature.

Nessuno, tuttavia, sembra esserci riuscito con la forza dirompente ed evocativa di Cormac McCarthy.

Meridiano di Sangue obbedisce ad una sola legge: la violenza. È stato scritto da un solo Dio secondo suo volere, sua immagine e somiglianza. Non esistono nel libro scorci seppur minimi che si allontanino dal bieco influsso in cui è stato marchiato. È un coagulo perfetto e coerente anche, e soprattutto, per questo. La realtà narrata evapora negli stilemi cari all’autore, tra tutti l’espandersi e le conseguenze del male, inevitabile come il susseguirsi delle stagioni. Loschi individui condannati dalla nascita alla violenza, una violenza insensata, arcana, che esiste come esistono la pioggia e le maree, compositrice austera di azioni già segnate nel buio firmamento, laddove inghiottiti da un maelstrom di morte incombente, non esistono stelle, perdono o redenzione. 

Meridiano di Sangue è un romanzo non facile, e non solo per le scene raccapriccianti descritte. Trattandosi in parte di eventi tratti da fatti realmente accaduti, la costruzione e lo svolgersi della trama, elementi che hanno consacrato lo scrittore del Tennessee ad inarrivabile artigiano di storie, annoverando le sue opere tra le più sceneggiate al cinema, contano pochi intrecci e plot twist. Di impatto, magistrali, ma pochi. Gran parte del romanzo procede in balia di eventi burattinati da pervasive contingenze. 

Difficile poi inquadrare genere e personaggi secondo i dettami tipici della consuetudine letteraria maggiormente diffusa. Lo storico può divenire orrore e l’orrore permearsi in epico e l’epico sfumare in formazione per poi ridivenire epico, o addirittura fantastico, in un miscuglio di mire che non sottostà a nessuna regola, se non l‘estro di McCarthy. Come in ogni capolavoro che si rispetti, le etichette non aderiscono. Scivolano sul sudore di geni innati amanti del caos. E come se non bastasse una struttura per niente facilmente indicativa, la bussola fornita per orientarsi tra inseguimenti e fughe è una prosa austera e incantevole, che come i fatti esposti, lascia sbalorditi. La natura è onnipresente in ogni pagina, madre dagli occhi vigili a cui niente sfugge, e le ridondanti narrazioni dei vasti paesaggi prede di ambienti tanto selvaggi quanto immacolati possono mettere a dura prova la pazienza. Ma come il travagliato parto di un’alba cremisi, incipit all’apparenza simili trascendono in rappresentazioni uniche, poesia pura che regala picchi di lirica assurda e appagante:

“Il sole nascente sorprese la luna ad ovest, cosicché rimasero uno di fronte all’altra, ai due capi della terra, il sole di un bianco incandescente e la luna una pallida replica, come le estremità di un unico tubo la cui curva si perdeva nello spazio e i cui sbocchi infiammati bruciavano mondi invisibili.”

Parole aggraziate, leggere, che convivono senza perdere mordente in pagine pregne di orrori ed efferatezze, fiori che restano candidi sotto l’incedere di continue tempeste. Paura e seduzione si accarezzano dando vita ad un vortice di suggestioni che dilaga nell’epicità, alla stregua di antichi romanzi fantasy popolati da re, draghi ed elfi. Merito di un talento indescrivibile, un linguaggio più che elegante, pungente, mai azzardato. Frasi che si susseguono suscitando brividi, evocando alla mente scene di guerre da colossal, galvanizzanti, come quelle che annunciano l’improvvisa comparsa dei guerrieri Comanche in uno dei primi capitoli:

“Sorse un’orda fantastica di lancieri e arcieri a cavallo armati di scudi adorni di pezzi di specchio rotto che abbagliavano con mille frammenti di sole gli occhi dei nemici. Una legione di esseri orribili, a centinaia, seminudi o coperti da costumi attici o biblici o bardati di vesti uscite dal guardaroba di un sogno febbrile, pelli di animali e fronzoli di seta e brandelli di uniforme ancora macchiati del sangue dei precedenti proprietari, giubbe di dragoni trucidati, giacche di cavalleggeri con alamari e passamani. Uno aveva il cilindro in testa e un altro l’ombrello e un altro ancora calze bianche da donna e un velo da sposa macchiato di sangue. Alcuni portavano in capo penne di gru o elmetti di cuoio greggio con corna di toro o di bisonte e uno indossava un frac all’incontrario sul corpo nudo e un altro la corazza di un conquistador spagnolo, con la pettiera e gli spallacci profondamente segnati da vecchi colpi di mazza o di sciabola inferti in un altro paese da uomini le cui ossa erano polvere. Molti avevano i peli di altre bestie intrecciati nei capelli lunghi fino a terra, e le orecchie e la coda del cavallo adorne di pezzi di tessuto dai colori sgargianti. Uno aveva dipinto di rosso cremisi la testa del suo animale, e le facce di tutti i cavalieri erano coperte da pitture così sgargianti e grottesche da trasformare la cavalcata in una brigata di clown di mortale allegria, e tutti ululavano in una lingua barbarica e caricavano come un’orda uscita da un inferno ancora più spaventoso della landa sulfurea immaginata dai cristiani, fra urla e guaiti, avvolti dal fumo come quegli esseri fantastici che dimorano in regioni poste al di là della ragione umana, dove l’occhio si perde e la bocca sbava e si contrae.”

Il romanzo inganna il lettore dalle prime pagine portandolo ad immedesimarsi nei panni di un ragazzo adolescente, the kid. Come già accennato, ricercare nel ragazzo un ruolo da protagonista di canonica concezione sarebbe elusivo. Il suo ritaglio non è per nulla periferico, ma neanche estremamente considerevole, pregno di quel peso ideologico o semplicemente presenziale riscontrato nella maggior parte dei protagonisti. 

The kid è un ragazzo violento, ed intrapeso uno sterrato cammino di perdizione, si aggregherà alla banda Glanton, incontrando, per caso o per destino, una personalità sinistra, forse il vero protagonista di Meridiano di Sangue: il giudice Holden. 

Secondo in comando nella banda dopo Glanton, quella di Holden è una delle figure più epiche che la letteratura abbia mai immortalato. Personaggio forse realmente esistito, ovviamente romanzato dalla fantasia di un autore che per il male sembra provare una sorta di mania. Nella raffigurazione di Holden, Cormac McCarthy ha pennellato il suo feticcio più completo. Le sue azioni, i suoi sermoni filosofici, il suo aspetto fisico, tutto fa di lui un personaggio impareggiabile, frutto di una caratterizzazione mastodontica. Il Diavolo, la morte in persona, la reincarnazione di un Dio della guerra, un’entità soprannaturale, tanti sono stati i critici desiderosi di incasellarlo in qualche schema che ne illuminasse il ruolo. Del suo passato, ogni traccia è evanescente. Qualsiasi membro della banda, prima di rivederlo alla testa di spedizioni punitive, sembra averlo incrociato per caso, una volta, in frangenti singolari. Ballerino provetto, suonatore di violino, poliglotta. Un demonio, verrebbe da pensare, un profeta diabolico salito dagli inferi per annunciare e mostrare la via di un uomo nuovo, che nulla vuol concedere e tutto vuol sapere per piegarlo alla sua volontà nichilista. La sua eloquenza da mediatore, da politico diplomatico in certi frangenti spaventa più dei suoi beceri atti infami. 

Capitano Achab Moby Dick, Grande Fratello, Generale Kurtz, il giudice Holden si innalza forse sopra tutti i villains meglio riusciti del panorama letterario mondiale. Una sagoma dai tratti fantastici, l’allucinazione di un incubo spasmodico. Albino come un fantasma, enorme come un orso, calvo come un uovo accompagna i personaggi in una spirale di morte e devastazione, uscendone sempre illeso. Appare, poi scompare per riapparire, quasi sempre seminudo, il sorriso sardonico stampato in volto. A volte per condurre, altre per punire o altre ancora per riscuotere. Tuttologo che illumina alla luce di fuochi di bivacco anime perdute tramite sproloqui sulla filosofia, la geologia, la guerra:

“Se Dio avesse voluto interferire nella degenerazione dell’umanità, non l’avrebbe già fatto? I lupi selezionano i lupi, amico. E la razza umana non è ancora più rapace? Tutte le cose del mondo sbocciano, maturano e muoiono, ma in quelle dell’uomo non c’è tramonto e il mezzodì del suo fiorire è già l’inizio della notte. Il suo spirito si esaurisce nel momento stesso in cui raggiunge l’acme. Per lui il meridiano è insieme il crepuscolo e la sera del giorno.”

Per l’opera immensa quale è, Meridiano di Sangue è entrato di diritto nell’olimpo dell’universalità. La violenza è una costante del mondo e la frontiera e il selvaggio West sono solo sfondi, teatri di follia in continua scena in tante zone geografiche remote all’immaginazione, che attanagliano ed attanaglieranno la terra sempre. 

Centellinato con la giusta curiosità ed apprensione, questo libro innalzerà il livello di ogni lettore allo step successivo, e quando echi lontani di conflitti mai sopiti giungeranno ai sensi, arduo sarà non immaginarsi il giudice Holden, seduto sulla cima di una immensa roccia, l’unica posta nel mezzo di un arido e sconfinato deserto, in attesa di nuovi e sperduti battaglieri armati macchiati di sangue, per guidarli alla volta di guerre e distruzione. Danzando, danzando ancora. Tanto lui, diceva, non morirà mai.

Alessandro Saviano