Pink Floyd, Wearing the inside out: rivestiamoci della nostra pelle

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“Date parole al dolore: il dolore che non parla bisbiglia al cuore sovraccarico e gli ordina di spezzarsi”

William Shakespeare

Per quanto la letteratura possa apparirci una realtà poco tangibile e poco propensa a darci delle soluzioni pratiche e immediate alla realtà pandemica che stiamo vivendo d’altra parte forse può darci gli strumenti per entrare in ascolto empatico al dolore provocato da questo periodo difficile. Già Shakespeare ci suggeriva di dare parole al dolore prima che il nostro cuore si spezzi. Ungaretti nel pieno della guerra non cede al logorio, persegue alla riva del Piave tra corpi morti e bombardamenti la ricerca di quel porto sepolto, di quel mondo, quell’umanità, quella vita fiorita nella parola:

“Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso.”

Giuseppe Ungaretti

Ora che il tempo asettico dei disinfettanti e dei distanziamenti si è ormai mimetizzato con la vita di tutti i giorni ci troviamo a contatto con un’umanità nuova. Un’umanità stordita dalle applicazioni, confusa negli odori e nei gesti, uomini e donne che faticano a relazionarsi, a capire come e in che modo interagire, toccare, guardare, sentire; la realtà virtuale ha chiaramente preso il sopravvento sull’hic et nunc dell’esperienza umana e sulla volontà di trovare dentro l’esperienza sensibile un senso, un’autenticità, modificando la percezione che abbiamo di noi stessi, del mondo e degli altri.

È qui che l’arte può soccorrerci. Siamo rimasti per molto tempo necessariamente nascosti, rovesciati, freddi al tocco umano. Un vecchio e poco conosciuto testo dei Pink Floyd ci direbbe che è il momento di  vestirci al contrario, di ricominciare a vestirci della nostra pelle. Di tutti quei tocchi, quegli sguardi, quei gesti che per molto tempo sono rimasti fuori uso e che di fatto ci rendono umani in mezzo ad altri esseri umani. Distogliendoci dalla sequenzialità degli schermi, dalla programmaticità dei pc e dalla fredda sistematicità che ne consegue possiamo riscoprirci intorpiditi, spossati, scocciati ma ancora capaci di provare emozioni e sentimenti. Forse, con le giuste misure, sarà questa la nuova rivoluzione.

From morning to night I stayed out of sight
Didn’t recognise what I’d become
No more than alive I’d barely survive
In a word…overrun

Won’t hear a sound
From my mouth
I’ve spent too long
On the inside out
My skin is cold
To the human touch
This bleeding heart’s
Not beating much

I murmured a vow of silence and now
I don’t even hear when I think aloud
Extinguished by light I turn on the night
Wear its darkness with an empty smile

I’m creeping back to life
My nervous system all away
I’m wearing the inside out.

Da mattina a sera stavo nascosto
Non m’ero accorto d’esser diventato
Poco più che vitale, sopravvivevo a stento
In due parole… fuori giri

Non sentirete un suono
Dalle mie labbra
Ho passato troppo tempo
Rovesciato
La mia pelle è fredda
Al tocco umano
Questo cuore è sanguinante
Non batte granchè

Ho mormorato un voto di silenzio e adesso
Non sento neanche più quel che penso ad alta voce
Estinto dalla luce accendo la notte
Indosso la sua oscurità con un sorriso vuoto.

Torno strisciando alla vita
Il sistema nervoso tutto all’aria
mi sto vestendo all’incontrario

Wearing The Inside Out

“This bleeding heart’s not beating much”.. “I’m creeping back to life”. Questo nostro cuore sanguinante che non batte granché, questo nostro sistema nervoso “all away” , tutto all’aria, fuori squadra, torna  strisciante alla vita. Ricomincia a vestirsi al contrario, smette di cercare il vestito giusto, quello che lo ripara di più, torna ad appropriarsi della sua pelle e a mostrarla per quella che è. Una pelle più sensibile forse proprio perché si tratta di una pelle nuova, inesperita, immacolata, reduce di un ripetuto disinfettare che lasciava poco tempo al vivere spensieratamente.

Per molto tempo è stato un esperire nel rischio di venire contaminati. Forse siamo ancora troppo coinvolti e non del tutto pronti per ripensare al contagio come qualcosa di positivo: l’allegria può essere contagiosa, la gioia, l’entusiasmo, la poesia. Ricominciare a vestirsi al contrario significa questo: riprovare ad avere fiducia. Realizzare serenamente che ciò a cui ci esponiamo non deve essere necessariamente qualcosa di pericoloso, un corpo da temere. Riprovare ad avere fiducia vuol dire anche lasciare che le parole felici tornino alla bocca senza sentirci in colpa per la fortuna che abbiamo di essere ancora qui a discapito di chi non c’è più. Piano piano.

Walter Benjamin pensatore e filosofo del ‘900 si dedicò allo studio estetico dell’arte e dell’impatto dei media nella vita quotidiana delle persone. Ad oggi la sua opera più celebre “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” può esortarci a un importante rieducazione dei sensi e un importante ricerca: la ricerca dell’esperienza auratica, ovvero quel singolare intreccio di spazio e di tempo: apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina. Seguire placidamente in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della loro apparizione – tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo.

Riprendiamo con il testo:

Look at him now
He’s paler somehow
But he’s coming round
He’s starting to choke
It’s been so long since he spoke
Well he can have the words right from my mouth

Guardatelo adesso
É in qualche modo più pallido
Ma sta arrivando
Inizia a tossire
É passato tanto tempo dalla sua ultima parola
Ma posso dargli parola direttamente dalla mia bocca

Guardiamoci adesso, in un qualche modo più pallidi, fuori da noi stessi, usciti dal lungo rifugio nelle nostre stanze e delle nostre teste. Iniziamo a tossire e stavolta non perché siamo malati ma perché è passato tanto tempo dall’ultima parola detta senza paura. Possiamo darci la parola direttamente dalla nostra bocca. Abbiamo ancora voce in capitolo.

Gunther Anders in L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale parlava di “Vergogna prometeica” : nella metafisica della tecnologia la macchina è separata dal corpo, la cultura dalla natura, e tutto ciò porta inevitabilmente al veloce perfezionamento delle tecnologie a discapito del lento cambiamento dell’uomo stesso che, nell’epoca odierna, si trova a dover fare i conti con la perfezione delle proprie creazioni e all’imperfezione della biologia che lo contraddistingue. Calcolatori perfetti contro una mente più lenta, macchine ultrapotenti di fronte alla fragilità del corpo. L’uomo si vergogna della propria insufficienza al cospetto della straripante perfezione delle macchine che costruisce. Smette di parlare, diventa spettatore passivo di fronte a una società in costante mutamento, di fronte a una tecnologia sempre più presente e avanzata.

Abbiamo visto però quali sono stati i limiti e i vantaggi della didattica a distanza, dello smartworking, dei colloqui e delle riunioni di lavoro su zoom, delle prenotazioni online per entrare e prendere appuntamento nelle strutture pubbliche, del qr code da mostrare per entrare nei ristoranti, della necessità impellente di creare un’identità digitale: il mondo si è spostato nel web. Da una parte la macchina del web sembra proseguire nella sua corsa verso la perfezione, l’ottimizzazione del tempo e delle energie fornendoci sempre più comfort, dall’altra ci lascia indietro nel momento in cui accanto a quei comfort non coltiviamo il valore umano delle relazioni.

Torniamo al testo:

 And with these words I can see
Clear through the clouds that covered me
Just give it time then speak my name
Now we can hear ourselves again
I’m holding out

E con quelle parole vedo
Chiaro attraverso le nubi che mi coprivano
Date loro il tempo poi dite il mio nome
Ora riusciamo di nuovo a sentire
Ora resisto

Ascoltiamo le nostre parole? Ascoltiamo i nostri desideri? Vediamo chiaro attraverso le nubi che ci coprivano? Attraverso le nubi che ci sono piombate in casa spesso senza il nostro volere?

Nel giro di lunghi periodi storici, insieme con le forme complessive di esistenza delle collettività umane, si modificano anche i modi e i generi della loro percezione sensoriale. E così anche i nostri desideri e il modo in cui l’uomo concepisce il mondo, ciò che intercetta e ciò che rifiuta. Abbiamo vissuto un periodo in cui, più di tutti gli altri, gli avvenimenti venivano a noi senza che noi scegliessimo di andare verso di loro. Il mondo ci è stato fornito a casa, nei nostri pc, nei nostri smartphone e da che il mondo ci è fornito a casa non ne andiamo più così tanto spesso alla scoperta e forse è proprio così che per molti il rapporto uomo-mondo è diventato unilaterale, un mondo che non è ne presente ne assente, un mondo fantasma: intangibile. Così che anche il desiderio è diventato qualcosa di percettibilmente lontano, veicolato per lo più dalle immagini ad effetto proposte dai media che non dalla ricerca empirica e singolare di ciascuno di noi.

When all the clouds
Have blown away
I’m with you now
Can speak your name
Now we can hear
Ourselves again


Ora che le nubi
Si sono dissolte
Ora sono con te
Riesco a dire il tuo nome
Ora riusciamo
Di nuovo a sentirci.

Ma possiamo tornare a sentirci, a dirci il nostro nome a pieno titolo. A trattare con un nuovo mondo, a dare le dimensioni e le misure a quelle nubi. E forse questo può essere un inizio.