Cesare Pavese: una sorta di malinconico precoce

Lo scorso nove settembre Cesare Pavese avrebbe compiuto 102 anni, più di un secolo. Ma cos’è un secolo se confrontato alla grandezza delle proprie opere? Per qualcuno poco, per qualcun’ altro tanto, considerando la giovane età in cui lo scrittore scomparve.

Nacque nel 1908 nella tenuta familiare di Santo Stefano Belbo, luogo che per motivi lavorativi del padre i Pavese furono costretti ad abbandonare. In età adulta dichiarò di aver rimpianto per tutta la vita il clima sereno del paese natio. Il distaccamento e la morte prematura del padre accrebbero nel giovane Cesare una sorta di malinconia precoce; nelle sue opere, sentimento onnipresente.

Santo Stefano Belbo, anche se non citato esplicitamente, è il paese in cui è ambientato La luna e i falò (1950) . Il protagonista, Anguilla, dopo essere entrato a far parte dei movimenti antifascisti, per fuggire alla cattura parte per l’America. Spinto dalla malinconia però, torna in una Belbo post bellica. Attraversando il paese e i luoghi dell’infanzia si accorge di quanto i ricordi, con il tempo, storcano gli avvenimenti del passato. Durante i trentadue brevi capitoli, Anguilla, ricordando, si abbandona alla malinconia e analizza le ragioni che lo hanno portato all’antifascismo e alla conseguente fuga. La luna e i falò, titolo che prende spunto dal mito delle stagioni; (la luna simboleggiava il destino mentre i falò erano l’emblema delle feste contadine), scritto tra il settembre e il novembre del 1949, probabilmente, è l’opera che riassume tutti gli elementi della poetica pavesiana.

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”

La luna e i falò.

Prima de La luna e i falò, Cesare Pavese vince il Premio Strega con La bella estate, raccolta di tre romanzi brevi: La tenda, Il diavolo sulle colline, Tre donne sole. Il filo conduttore dei tre testi è il passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta, e durante il tragitto, i personaggi, non acquistano altro che delusione e frustrazione. Esempio lampante è Gina, protagonista de La bella estate che lavora come e sogna un amore da favola. Tramite un’amica conosce Guido, un pittore bohemien, se ne innamora e inizia con lui una relazione passionale. Quando Gina si accorge che l’unico interesse dell’uomo è prettamente carnale ciò che le resta è delusione e solitudine. Intanto nella sfera privata di Cesare Pavese amore è sinonimo di fallimento, ogni relazione o idea di essa finisce in malo modo. Siamo nel 1935 e a Torino, le abitazioni degli intellettuali ritenuti di avere contatto con l’antifascista Leone Ginzburg vengono perquisite. In casa Pavese viene ritrovata una lettera di Altiero Spinelli, comunista recluso a Roma. Dopo anni si scoprì che Altiero non intratteneva corrispondenze con Cesare ma con la donna di cui lo scrittore si era innamorato.

A causa di ciò Cesare, tracciato di antifascismo, fu detenuto a Torino e a Roma. Dopo il processo venne confinato a Brancaleone Calabro.

Fu con l’arrivo in Calabria che, ad ottobre di quell’anno, iniziò a tenere un diario che dopo la sua morte fu pubblicato come Il mestiere di vivere.

Per ben 15 anni annotò in questo zibaldone, curato in occasione della pubblicazione da Natalia Ginzburg, Italo Calvino e Massimo Mila, la maggior parte delle sue sensazioni. Il primo pensiero appuntato risale all’ottobre del ’35, e l’ultimo, al 18 agosto 1950, poco più di una settimana prima dalla morte.

“… si presenta come confessione esistenziale, ora sottilmente compiaciuta, ora crudamente impietosa, sino al punto in cui lo scrittore sembra tentare una sorta di psicoanalisi letteraria di se stesso”. .

Marziano Guglielmetti, critico letterario

L’opera, seppur composta da brevi frammenti è un continuo susseguirsi di crude riflessioni riguardo le sfumature della vita.

“Ma la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente.”

Il mestiere di vivere.

“Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.”

18 agosto 1950, ultima annotazione.

Oltre all’attività narrativa è da ricordare anche quella di traduttore; infatti fu uno dei primi intellettuali a divulgare le opere straniere. Fu il primo a tradurre Moby Dick; (la prima edizione italiana pubblicata nel ’32 porta la traduzione di Pavese), e tra le altre traduzioni troviamo Uomini e Topi di Steinbeck e David Copperfield di Dickens.

Cesare Pavese, lo scrittore che visse tra guerre mondiali e guerre personali, prima di morire sul frontespizio de I dialoghì con Leucò scrisse:

Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.

Messaggio di addio.

Per molti il nome di questo scrittore è sinonimo in primo luogo di suicidio, e poi di letteratura, come se la depressione fosse stata l’unica componente della sua scrittura e non un’influenza come tante. Cesare Pavese è altro; ha raccontato la civiltà contadina, l’amore e i sogni di un paese a cavallo tra l’industrializzazione e la paura della guerra. Grazie alle sue traduzioni, l’Italia, ha conosciuto grandi romanzi e inoltre, fu uno dei mentori di un certo Italo Calvino, e per questo non possiamo che ringraziarlo ulteriormente.

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