Quattro autori contro il totalitarismo neoliberale: Raffaele Alberto Ventura e Luca Ricolfi

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Nella prima parte dell’articolo sono stati esaminati i libri No Is Not Enough  di Naomi Klein e L’età dell’oikocrazia. Il nuovo totalitarismo globale dei clan di Fabio Armao. Klein si concentra sul significato e sulle conseguenze dell’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, che viene etichettato come il prodotto di un sistema di pensiero che cataloga gli esseri umani in funzione della razza, della religione, della sessualità e viene visto come figlio di una cultura del business che idealizza chi costruisce la propria fortuna ignorando le leggi e le regole e al contempo fa la guerra ai servizi pubblici e ai beni comuni. Armao, da parte sua, estende l’analisi dei nuovi network di potere ai ‘clan’, che si contraddistinguono per anteporre gli interessi economici (privati) a quelli politici (pubblici). Secondo Armao ci troviamo a vivere nell’età della “oikocrazia” ‒ un neologismo composto dai termini greci kratos (potere) e oikos (radice della parola ‘economia’) ‒ dei Paesi occidentali, che pretendono sempre maggiori risorse per poter mantenere i propri stili di vita, pur consapevoli che tale scelta implica un crescente impoverimento  del resto del pianeta e un aumento delle diseguaglianze anche tra i propri cittadini.

Raffaele Alberto Ventura si occupa a sua volta degli squilibri del capitalismo avanzato e del disagio occidentale nel suo La guerra di tutti. Populismo, terrore e crisi della società liberale, uscito per i tipi di minimum fax nel 2019. Se Armao nel suo studio aveva definito il populismo non un’ideologia ma un mood, Ventura lo qualifica a sua volta come “sentimento contraddittorio” che agita nell’inconscio dell’elettorato l’“attrazione e la repulsione per lo Stato, tentazioni sovraniste e raptus di anarchia” (Ventura 2019, location 631). Come Armao, pure Ventura si rifà alla Grande trasformazione, il classico della storia economica scritto nel 1944 da Karl Polanyi, che descrive il ruolo dell’alta finanza nel coordinamento dell’ordine monetario e geopolitico ottocentesco.

L’autore fa però notare che a causa del processo di «disintermediazione» incoraggiato dal sentimento populista, “che permette a ognuno di comporre la propria dieta informazionale su misura, rifiutando certe narrazioni a profitto di altre” (ib., location 648), la lettura di Polanyi può essere, a causa del ‘sovraccarico cognitivo’ che caratterizza questa nostra ‘Età del Sospetto’, “semplificata al punto di servire a qualche narrazione cospirazionista o persino antisemita” (ib., location 706). La comunità di ‘esseri sociali limitati e illetterati’ elevati secondo Armao a razza superiore da leader carismatici senza scrupoli è la stessa che Ventura vede indotta dal cospirazionismo contemporaneo a un eccesso di considerazione per le proprie facoltà (cfr. ib., location 755): ignoranti che non sanno di esserlo, ‘metaignoranti’ privi di spirito critico, stupidi incapaci di cogliere l’ironia di enunciati polisemici dati loro in pasto da politicanti in malafede il cui solo obiettivo è quello di manipolare il consenso.

I metaignoranti si sentono dunque in diritto di selezionare la narrazione della realtà a loro più gradita ma inoltre, in una società come quella occidentale che permette ad un elevato numero di persone di raggiungere un certo grado prosperità economica, desiderano pure “realizzarsi”, soddisfare cioè il “bisogno di essere riconosciuti socialmente per quello che /ritengono/ di essere o di meritare” (ib., location 2379). Per ottenere tale ‘riconoscimento’ è necessario accedere alle migliori posizioni sociali a discapito di qualcun altro. Per poterlo fare, bisogna formarsi, competere con chi ha le stesse nostre ambizioni, avere più soldi dei nostri competitor da investire in ulteriore formazione senza dover accontentarci di occupazioni meno invidiabili per mancanza di risorse. E queste aspirazioni stanno infettando l’amor proprio di una parte sempre crescente della popolazione mondiale, che “si concede finalmente il diritto di desiderare la stessa cosa che desiderano le classi medie americane ed europee, trascinando l’intero pianeta in un conflitto mimetico” (ib., location 2465). La conseguenza? Generazioni di giovani si impegnano a formarsi per professioni che non potranno mai fare; il sistema liberale si rivela alla fine incapace di “soddisfare la domanda di riconoscimento che esso stesso genera” (ib., location 3905).

Il congenito alimentare il desiderio che è germano alle società borghesi porta l’homo oeconomicus a rivaleggiare per i consumi che servono a definire un rango sociale: i beni posizionali. È questo uno dei fenomeni su cui si concentrano le riflessioni di Raffaele Alberto Ventura nel libro che in qualche modo riesce propedeutico alla Guerra di tutti: ci riferiamo a La teoria della classe disagiata, pubblicato sempre da minimum fax nel 2017. Qui l’autore si aggancia al concetto di «distinzione» elaborato da Pierre Bourdieu, che è alla base del desiderio di consumare i beni posizionali che “servono a stabilire i ruoli sociali e l’accesso a[…] quel «capitale simbolico» che viene accumulato e scambiato attraverso l’ostentazione di certi consumi culturali” (Ventura 2017, loc. 127). Viene poi richiamata la nostra attenzione, sulle orme di René Girard, su uno dei paradossi più clamorosi del sistema democratico, “che volendo farci uguali ci mette nella condizione di una guerra permanente di tutti contro tutti” (Ventura 2017, location 2067).

La corsa ad investire in formazione per conquistare il ‘riconoscimento’ del proprio rango sociale risulta spesso fonte di grande frustrazione per tanti nostri laureati, che finiscono per risultare sovraistruiti rispetto alle qualifiche richieste dal mercato del lavoro. Non è infatti vero che essere bravo, tenace e determinato sia sufficiente per ottenere il successo, dato che tutti gli altri fanno la stessa cosa. La maggior parte non riesce ad accedere alle posizioni dei loro sogni ma si rifiuta di autodeclassarsi rispetto alle proprie aspirazioni: il risultato, vista l’”impossibilità di derogare alla propria classe di provenienza” (ib., location 2291) e alle proprie speranze sociali, è spesso la ‘disoccupazione volontaria’. Oggi una parte della popolazione non dispone infatti delle risorse per partecipare al sogno di imborghesimento di massa e si ritrova suo malgrado a partecipare a quella che Ivan Illich chiamava «lotteria obbligatoria» ‒ un’altra lotteria, dopo quella ‘della nascita’ evocata da Armao ‒ e “truffaldina per preparare i più poveri a entrare in una società signorile di massa nella quale non entreranno mai” (Ventura 2017, location 2466).

La società signorile di massa è pure quella evocata da Luca Ricolfi nel libro dal titolo omonimo pubblicato nel 2019 da La nave di Teseo, grazie al quale portiamo a compimento questo breve excursus su cinque libri che negli ultimi tre anni hanno trattano la crisi della società liberale.

Ricolfi si concentra sul caso dell’Italia, in cui, al netto di 5 milioni di non-cittadini (gli immigrati), i cittadini che l’autore definisce ‘non-poveri’, certo distribuiti su un amplissimo spettro di condizioni economiche e sociali,  ammonterebbero a 52 milioni di individui (su 55). Il 94% di quanti hanno la cittadinanza italiana, quindi, apparterrebbero alla ‘società signorile di massa’, il cui nucleo economico l’autore individua nel binomio ‘opulenza + stagnazione’, mentre quello sociale sarebbe la frattura “fra una minoranza di produttori, che lavora e genera il surplus, e una maggioranza di inoccupati, che al surplus può accedere senza contribuire a produrlo” (Ricolfi, location 224). La struttura dell’Italia secondo Ricolfi è composta da tre segmenti: un 7,9% di stranieri (di cui un terzo in povertà assoluta), un 39,9% di italiani che lavorano e un 52,2% di italiani che non lavorano, questi ultimi spesso in relazione di parentela con il segmento precedente. Il processo che ha condotto in Italia alla formazione di una società signorile di massa ha richiesto circa mezzo secolo a causa di tre condizioni: il crollo del tasso di occupazione, il consumo opulento e la fine della crescita.

La prima condizione che difinisce la società signorile di massa ‒ più inoccupati che occupati ‒ viene raggiunta già a metà degli anni Sessanta, quando le imprese riducono drasticamente il ricorso a giovani, donne e anziani. La transizione  verso la seconda condizione ‒ l’accesso di massa a consumi opulenti da parte di cittadini che non lavorano ‒ avviene invece tra gli anni Ottanta e i primi anni Duemila: seconde auto, seconde case, attrezzature da sub o da sci, weekend lunghi e ripetuti, pacchetti all-inclusive per località esotiche, tv con collegamenti satellitari e abbonamenti on demand, corsi di lingue e sport per i figli, “apericena”, medicina alternativa diventano  comportamenti e consumi comuni. La terza condizione ‒ l’arresto della crescita del sistema economico ‒ si è verificata con la doppia recessione del 2008-2009 e del 2011-2012. Dal 2009 il tasso di crescita medio quinquennale dell’Italia è diventato negativo o prossimo allo zero, segnalando l’ingresso del nostro Paese in un regime di stagnazione. Soddisfatte tali condizioni, la società signorile di massa si ritrova a poggiare secondo Ricolfi su tre pilastri fondamentali: il primo è l’enorme ricchezza reale e finanziaria accumulata dalla generazione che aveva “fatto la guerra” e da quella seguente; il secondo pilastro è la distruzione della scuola (un punto, quello delle conseguenze prodotte dall’abbassamento degli standard dell’istruzione, trattato anche da Ventura 2017); il terzo pilastro è la formazione in Italia di una struttura paraschiavistica, formata dagli stranieri provenienti da Paesi molto meno ricchi del nostro.

È proprio il terzo pilastro individuato da Ricolfi che ci permette di chiudere il cerchio del nostro ragionamento, visto che ci apre gli occhi sul fatto che le società signorili di massa che caratterizzano soprattutto i Paesi dell’Europa occidentale  ‒ ricordiamo peraltro che l’Italia è l’unica tra le ventinove società avanzate del mondo a presentare sia le tre condizioni primarie summenzionate che tutti e cinque i tratti secondari rappresentati da un’alta presenza di giovani che né studiano né lavorano (NEET), dall’allocazione ineguale del lavoro, dal primato del tempo libero, dall’invecchiamento della popolazione e dalla tendenza delle donne a non fare figli ‒, non sarebbero concepibili senza la disponibilità di manodopera (semi)schiavile. Lavoratori stagionali concentrati nei ghetti, prostitute di strada, personale di servizio, dipendenti in nero. Una parte della popolazione residente si trova dunque collocata in ruoli servili o di ipersfruttamento, per lo più a beneficio di cittadini italiani (e di altri Paesi europei). Una condizione che, nel caso degli immigrati ‒ chiosa Ricolfi ‒ “è aggravata dall’impossibilità di esercitare il diritto di voto, proprio come gli schiavi veri e propri nell’antica Gracia, culla e origine della democrazia” (Ricolfi, location 659). È merce recuperata nelle aree più derelitte del pianeta, esclusa dalla guerra per il riconoscimento ingaggiata dai borghesi disagiati, collocabile ad un gradino appena superiore ai dannati della Terra schiavizzati a casa loro, epitome del mondo intollerabile vomitato dal Behemoth neoliberale.

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