Italo Svevo e Charles Darwin: la scienza dell’inettitudine

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Cosa succede quando la sensibilità letteraria incontra il genio scientifico? Nell’analisi della realtà oggettiva e sociale, Italo Svevo è stato capace di descrivere l’evoluzione di un mondo in un rapido, confuso e incontrovertibile cambiamento. Il suo pensiero innovatore e rivoluzionario è frutto delle più svariate influenze, tra le quali quella di uno dei più grandi lumi della storia umana in assoluto: Charles Darwin.

Quando Aron Hector Schmitz portava ancora questo nome ed il ben più noto “Italo Svevo” era nascosto ancora sotto le macerie di carte e conti della banca Union, l’Europa ed il mondo si preparavano a subire quella grande rivoluzione in tutti i campi del sapere umano che si sarebbe concretizzata, da lì a poco, nell’incredibile XX secolo. 

Nel suo stesso Profilo autobiografico, oltre che alle motivazioni del suo pseudonimo italianeggiante (trovate nella natura stessa della sua Trieste “alla porta Orientale d’Italia”), possiamo comprendere quanto la sua forma mentis culturale sia stata fondamentale per la strutturazione del suo complesso pensiero – per così dire – avanguardista. 

Il giovane Svevo dunque – nonostante le disgrazie che colpirono l’azienda familiare e lo costrinsero al lavoro in banca – riempì la sua personale libreria di svariati testi delle più grandi menti, sia del passato che a lui contemporanee. 

Era interessato, infatti, tanto ai classici italiani, alla narrativa francese ed al naturalismo di Zola, quanto alle filosofie rivoluzionarie di Schopenhauer e Nietzsche (le quali cambiarono i connotati stessi di interi filoni di pensiero nel vecchio continente). 

Non solo di lettere, ancora, il giovane Svevo si interessava; ma la sua grande operosità ed il suo occhio caleidoscopico lo portarono presto ad occuparsi di scienza. 

In particolare, la sua non comune curiosità declinò verso la scientifica relativa all’evoluzionismo

All’origine dell’ispirazione

Ricordiamo, infatti, che una delle più grandi illuminazioni nella storia del pensiero umano precedette di soli due anni la nascita di Italo Svevo.

Tale fondamentale rivoluzione partì alla fine del 1859: anno di pubblicazione de L’origine delle specie (On The Origin of Species). 

In questa opera, cardine indiscusso della storia della scienza, il naturalista inglese Charles Darwin inserì tutte le sue osservazioni compiute in viaggi ed in studi biologici approfonditi in molti anni, arrivando a formulare una teoria. 

La “teoria dell’evoluzione” afferma che gli organismi che fanno capo ad una specie si evolvono lentamente nel tempo attraverso un processo che lui stesso definisce “selezione naturale”

In sostanza il più forte, o meglio, chi si adatta di più al cambiamento, sopravvive e, sopravvivendo, evolve. 

L’origine delle specie non fu solo una svolta assoluta nel campo scientifico, ma in tutto quello del sapere umano; in quanto scardinò totalmente la visione universale e storica del Creazionismo, ossia la convinzione – di matrice religiosa o comunque mistica – che ogni essere vivente è perfetto e immutabile, in quanto creato da un qualche dio. 

Quest’opera trovò un enorme e rapido successo a livello globale, non solo per il suo contenuto illuminante, ma anche per la sua accessibilità ai profani della scienza. 

Forse anche per questo il giovane Ettore Schmitz si avvicinò precocemente a questa visione. 

Per fortuna, verrebbe da dire. 

Una vita tra due blocchi 

Svevo si trova, dunque, all’inizio della sua esperienza di scrittore, al centro di due grandi blocchi: da un lato la crisi del mondo oggettivo del naturalismo, dall’altro l’esperienza dell’individualismo, portato all’estreme conseguenze soprattutto dopo i primi esperimenti di un altro grande genio che influì non poco sul suo pensiero: Sigmund Freud

Tuttavia, trovandosi in mezzo a queste influenze, Italo Svevo ne percepisce in qualche modo una visione periferica, facendola confluire – insieme ad altre – in quello che sarebbe stato il suo pensiero innovatore, sperimentale e introspettivo, come prosatore italiano. 

I connotati di una certa logica razionale nella sua scrittura sono frutto, sicuramente, del pensiero scientifico-evoluzionista e dell’inclinazione naturale all’opera di Darwin. 

Così, nella sua narrazione, Italo Svevo sembra non dimenticare mai il fattore di una selezione naturale – ormai sposata come legge universale – in ogni esperienza dei suoi personaggi (e sua, di rigetto). 

Già dal 1886, infatti, nello scritto Un individualista, egli cerca di descrivere una collettività opprimente, che pone l’individuo in una posizione scomoda e di continua e necessaria lotta per la sopravvivenza. 

Tale concetto di lotta dell’individuo, il quale si muove in una società che sembra sovrastarlo in ogni modo, si ritrova tanto nel suo primo racconto del 1890, L’assassinio di via Belpoggio, quanto – se non più – nel suo primo romanzo, Una vita, del 1892. 

La banca “Maller” del suo primo romanzo, non è che una trasposizione (nemmeno troppo velata) della sua esperienza di vita lavorativa. 

Il simbolo, se vogliamo, di una realtà capitalistica che consuma e si nutre del piccolo borghese; e su di esso costruisce i suoi vasti ed aurei imperi. 

Sebbene la conclusione del romanzo e della storia di Alfonso Nitti sia quella del fallimento totale dell’individuo, della rinuncia e della solitudine, vi è comunque una verità palesata nel procedere degli eventi.

Impossibilità di alienazione 

Una verità che si sposa totalmente con gli ideali darwiniani; ossia l’attualizzazione della teoria evolutiva

Chi è che, tra le specie, riesce a sopravvivere? 

Quella che si adatta meglio al cambiamento, abbiamo detto.

Dunque, anche in questo caso, anche nella società umana a lui contemporanea, questa rimane una legge universale. 

Infatti è proprio chi riesce a sfruttare il sistema capitalistico, chi non cede alle emozioni ed alla sensibilità, chi lavora a capo chino cercando di salire più gradini possibili nella scala sociale; è proprio costui che riesce a sopravvivere e prendere parte a quel processo evolutivo che – come insegna appunto Darwin – lascia i più “deboli” indietro. 

Ovviamente, cambiando le regole della sopravvivenza, cambiano anche i meccanismi per definire chi sia, adesso, il soggetto debole… e chi quello forte. 

L’uomo in quanto animale sociale, e così riconosciuto già dai tempi di Aristotele (passando per l’esperienza del trascendentalismo di Thoreau e la “gettatezza” di Heidegger)  non può alienarsi dalla società per vivere e sopravvivere. 

Per tal motivo i rapporti di forza sono strettamente connessi alle linee guida della società contemporanea; imprescindibile legge della sopravvivenza e, di conseguenza, dell’evoluzione è sapersi adattare e vincere in questi rapporti di forza. 

Il paradosso dell’inetto 

Italo Svevo ce lo dimostra ampiamente nelle sue parole, nelle sue storie, nei suoi personaggi: lui è l’inetto

È colui che non è adatto; che non riesce, appunto, ad adattarsi al cambiamento; cambiamento che, così spesso nella società a lui contemporanea, si traduce in una conveniente e deliberata svendita del proprio essere.

In ragione di ciò, probabilmente, possiamo guardare alla sua stessa natura di scrittore; natura che, ovviamente, è caratterizzata da una marcata sensibilità e da una visione analitica della realtà: più profonda, diversa dal comune e comunque non istintivamente finalizzata alla mera sopravvivenza. 

Svevo, proprio per questa ragione, compartecipò al collasso del romanzo quale strumento di evasione dalla realtà, insieme ad altri grandi romanzieri europei, quali in particolare furono Proust e Joyce

In Italia fu lui il primo vero grande pioniere della “scrittura analitica”

In verità, proprio questa sua esternazione di eclettismo non gli permise, almeno all’inizio della carriera, di avere il meritato successo per i suoi romanzi. 

Sostanzialmente, in un’Italia dove lo spiritualismo e la prosa poetica la facevano da padrone, il suo stile innovativo venne considerato addirittura “sgradevole”, sia per i concetti espressi, sia per il senso di inquietudine che la lettura dei suoi scritti poteva infondere in menti poco allenate. 

La fortuna letteraria, infatti, per Svevo arrivò solo in una rilettura in prospettiva europea, dove giganteggiavano appunto figure come Proust e Joyce nel romanzo; dove Freud, Schopenhauer  e Nietzsche mettevano in discussione tutto ciò che fino a quel momento si era creduto vero ed innegabile; dove le rivoluzioni industriali e l’evoluzione della tecnica stravolgevano l’individuo ed il suo modo stesso di concepire l’esistenza. 

L’uomo, dice Svevo, in quanto il più debole fra gli animali, è il vincitore della “struggle for life”, della lotta alla vita.

Gli animali – come osserva Darwin – tendono ad adeguare per necessità i propri organi ai cambiamenti ambientali; l’uomo, invece, in quanto affetto dalla malattia dell’anima, è perennemente  “malcontento”, insoddisfatto. 

L’essere umano si trova in un perpetuo stato di “abbozzo”, sempre in divenire. 

Ragion per cui è dunque in grado di sopravvivere a tutti i cambiamenti dell’ambiente e del mondo. 

In maniera tanto incredibile quanto paradossale, Italo Svevo, scopre che è proprio l’inettitudine – ossia l’incapacità di adattarsi – che riesce a salvare l’uomo, a farlo sopravvivere ed evolvere, in quanto l’insoddisfazione insita nel pensiero razionale (mancante negli animali) lo porta a cercare nuovi metodi per continuare ad esistere. 

Cosa succede, dunque, quando la sensibilità letteraria incontra il genio scientifico? 

Beh, viene disvelata una seppur minima parte di questa complessa, intricata, mutevolissima trama che noi mortali usiamo chiamare “esistenza”. 

O almeno riusciamo a coglierne un qualche insperato, fievolissimo abbaglio. 

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