Questo articolo racconta il film Will Hunting di Gus Van Sant in un formato che intende essere più di una semplice recensione: lo scopo è andare oltre il significato del film e fornire una analisi e una spiegazione delle idee e delle dinamiche che gli hanno dato vita.
Esistono rari casi nel cinema dove un azzardo ha portato in gloria più che una intera generazione, un vero e proprio modo di essere. Lo squattrinato, che alla fine riesce a fare fortuna è stato un must su pellicola per molto tempo, anche grazie a quella voglia di rivalsa di tutti i socialmente esclusi, quelli che di solito sono ai margini delle nostre società tanto falsamente ed ipocritamente perfette. Pensate che, oltre al cinema, di questa sorta di stato d’animo ne ha giovato in primis la musica, partendo dai Beatles a finire alle band grunge di fine secolo.
Attualmente il trend è cambiato insieme all’accentuarsi della società dei consumi, che ha trasformato in prodotti, anche l’arte, sfornando ad esempio saghe infinite o addirittura musica preconfezionata con personaggi di scarso valore. Non è certamente il caso di un certo cinema però, che nonostante le immense difficoltà di distribuzione, oltre ai grandi nomi, riesce a mantenere con un minimo di indipendenza la barra dritta sui temi fondamentali.
Una vera e propria storia di “losers” che sono riusciti ad emanciparsi è chiaramente Will Hunting – Genio Ribelle di Gus Van Sant. Sceneggiato da due all’epoca giovani Matt Damon e Ben Affleck, inizialmente il film avrebbe dovuto porre le radici sul genere thriller, ma grazie ad un veterano del cinema americano come Rob Reiner, tra l’altro presidente della Castle Rock Entertainment, che gli suggerì di eliminare questo aspetto e di mettere in luce la relazione affettiva fra il protagonista e lo psicologo. Dopo avere chiarito questo aspetto, proprio la casa di produzione di Reiner ne acquistò al ribasso i diritti, pensando a grandi nomi per i protagonisti: Leonardo Di Caprio e Brad Pitt. Nel frattempo, i diritti di produzione vennero nuovamente ceduti alla Miramax, che sotto il consiglio proprio del duo di “improvvisati sceneggiatori” scelse alla regia Gus Van Sant. Nel frattempo i due riuscirono a strappare il ruolo di protagonista per Damon ed un ruolo secondario per Affleck, a differenza della Castle Rock che li aveva scartati a priori.
Il regista di Belli e dannati riesce a donare al film quel suo tocco vellutato che comprende appieno la giovinezza, ma anche l’esclusione sociale. La sua maniacale premura per tutto quello che riguarda la storyboard della pellicola, condita da una ipotetica Boston autunnale, riscalda ampiamente l’animo dello spettatore. L’opera è dedicata allo scrittore William S. Burroughs e al poeta Allen Ginsberg, venuti a mancare nel 1997 (anno del film), e sembra avere assimilato molto dai racconti e le poetiche dei due artisti, tanto che il gruppo di amici con a capo Damon rivestono bene i panni dei beatnick moderni.
Il solcare così profondamente nei comportamenti umani è un tratto tipico del regista, fornendo all’opera personalità complesse da gestire, facendo primeggiare un enorme senso di lacerazione e paturnia dolceamara. Il quattro girovagare dei giovani, ricorda ampiamente in ambito musicale gli Smashing Pumpkins di Mellon Collie and the Infinite Sadness e la loro 1979, riuscendo quasi a percepire l’animo e gli odori di quelle avventure giovanili.
Il tema principale è l’abbandono e come gestirlo, la rappresentazione forse della paura più recondita dell’essere umano. La sofferenza può avere diversi volti, soprattutto oggi nella società dell’apparire, dove è sempre più difficile rimanere se stessi con i propri demoni interiori, tra insicurezze legate ad un mondo che le prova tutte per farti fallire. Uno dei ruoli migliori, che emerge dirompente in un caos calmo di Morettiana memoria è il dottor Sean Maguire, interpretato da Robin Williams. Nella migliore interpretazione della sua carriera, il compianto attore di Chicago sviluppa una raffinata empatia con Will/Damon, provenendo nella storia, dagli stessi ambienti sottoproletari di “Southie”, (quartiere di Boston).
L’intensità dei dialoghi si abbassa di rado, nonostante le due ore di girato, regalandoci perle elucubrate da Williams nei confronti del suo giovane assistito. L’opera è diventata un cult assoluto degli anni Novanta e, oltre agli attori sopracitati, comprende Minnie Driver, che proprio in quel decennio diede prova di grande bravura anche nel capolavoro di Barry Levinson Sleepers, e che avrebbe meritato in seguito ruoli di eguale intensità. Altri meritevoli di citazione sono senz’altro Stellan Skarsgård, nei panni del professor Lambeau, “scopritore del talento di Will”, ed un giovanissimo Casey Affleck che si ritaglia grazie al fratello un piccolissimo ruolo, che però lo porterà ad una carriera luminosa.
La pellicola è riuscita a portare a casa due dei premi più prestigiosi alla notte degli Oscar, con la migliore sceneggiatura originale a Matt Damon e Ben Affleck e il migliore attore non protagonista all’immenso Robin Williams. Anche la colonna sonora è magnifica, spazia da Al Green ai The Dandy Warhols, raccogliendo anche una nomination agli Oscar per Miss Misery del cantautore americano Elliot Smith. Chiunque abbia a cuore la Settima arte e vuole assaporare una complessità di dialoghi non indifferente dovrebbe per forza guardare questo film, le riflessioni sulle possibilità negate e le nuove partenze, saranno naturali. Così come il duo di sceneggiatori che avendo avuto una occasione si sono consacrati nell’Olimpo del cinema mondiale.