Nicholas Roerich, il pittore delle nevi tibetane

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La montagna insegna il silenzio. Disabitua dalle chiacchiere, dalle parole inutili, dalle inutili, esuberanti effusioni.

J. Evola

Nicholas Roerich, nato nel 1874 a San Pietroburgo, divenne presto figura di spicco nel mondo culturale della capitale, interessandosi, fin da giovane, al mondo dell’arte, dell’archeologia e dell’esoterismo. I riconoscimenti pubblici non si limitarono a quelli ottenuti nella madrepatria: dopo la Rivoluzione d’Ottobre si trasferì con la famiglia in Finlandia, per lasciarla nel 1920 alla volta dell’America, dove era stato invitato dal direttore dell’Art Institute di Chicago per una collaborazione accademica.

Occidentale (se così può essere definito un russo) tra gli orientali, o orientale tra gli occidentali, viaggiò per la prima volta verso est nel 1923, soggiornando per cinque anni tra Cina, Tibet, India, Mongolia e studiando alacremente cultura ed usi di quei popoli, tanto diversi da quelli occidentali. Da quel momento in avanti, i rapporti con l’Est del mondo rimasero costanti: fondò un centro di ricerca etnografica ed antropologica nella valle di Kullu (India) e nella sua mai interrotta produzione artistica e letteraria le suggestioni asiatiche, insieme a quelle mistico-teosofiche, furono protagoniste fino alla morte, avvenuta in India nel 1947, a seguito della quale le sue ceneri vennero sepolte alle pendici dell’Himalaya. Ad ogni modo, la risonanza di Roerich anche a livello politico è da non sottovalutare: convinto che Bellezza e Conoscenza fossero le pietre angolari del mondo, il “Patto Roerich” deve il nome proprio allo studioso russo: fu il patto che imponeva, in tempo di guerra, il rispetto di luoghi di cultura (musei, università, biblioteche, …) come per gli ospedali. Il trattato venne firmato nel 1935 alla Casa Bianca.

La vita di questo artista, dunque, venne dedicata al peregrinare e all’arrampicarsi, al salire fisico verso luoghi sempre più rarefatti e all’innalzarsi spirituale; non compì il percorso da solo, fu sempre affiancato dalla moglie Helena Ivanovna Šapošnikova, che lo accompagnò spesso anche nelle avventure asiatiche. Entrambi in Asia ebbero contatti con Krishnamurti e con la Società Teosofica, per la quale Helena tradusse Dottrina Segreta della Blavatsky.

Nicholas Roerich, Tsong-kha-pa, 1924

I rilievi montuosi raffigurati nell’immenso corpus di dipinti del pittore rappresentano un ricettacolo di saggezza a cui tutti gli uomini dovrebbero tendere, senza mai adagiarsi sui risultati ottenuti; la vita di Roerich si è modulata, infatti, sulla continua ricerca di un oltre: come Daumal aveva cercato il Monte Analogo, Roerich si muove alla conquista di Shambhala, la Risplendente, regno mitico e segreto, rifulgente di luce, luogo della pienezza spirituale. La tradizione indo-tibetana la vuole situata a nord dell’Himalaya, ma forse il suo lato più vero non è terreno, è invisibile. Shambhala rappresenta la Via dell’Agni Yoga, o Etica Vivente, disciplina yogica della quale i coniugi Roerich sono stati promotori, basata sullo sviluppo dell’energia psichica individuale come mezzo di armonia con quella cosmica. Il mito della città che risplende, Kalapa in sanscrito, è presente nel folklore orientale come trasmissione orale; a livello scritto le testimonianze sono innumerevoli, anche in zone geograficamente lontane tra loro, ne riscontriamo soprattutto tracce nei testi hindū (Veda e Purana). È il luogo della quarta dimensione, dove si smette di percepire il mondo con l’occhio fisico: a Shambhala tutto è basato sull’energia interiore. Tutto questo si trova in ogni singola raffigurazione roerichiana: l’artista ha cercato la Shambhala immateriale dipingendo, condensando il suo psichismo e il suo vissuto asiatico nelle intense raffigurazioni montane.

Naturalmente, essendo un artista, la mia aspirazione principale in Asia era dipingere, ed è difficile dire quando mai riuscirò a trasformare gli schizzi in cui ho registrato le mie impressioni in quadri, tanto generosi sono i doni dell’Asia. Nessuna conoscenza acquisita dai libri o nei musei ci rende capaci di esprimere l’Asia o altri luoghi senza averli visti con i nostri occhi e aver preso almeno qualche appunto, aver fatto qualche schizzo sul posto. L’abilità magica e intangibile dell’arte, la sua capacità di persuadere, deriva soltanto dalla continua accumulazione di impressioni reali; è vero, le montagne sono ovunque montagne, l’acqua è ovunque acqua, il cielo è ovunque cielo, e gli uomini sono ovunque uomini: eppure, se guardando le Alpi tentaste di dipingere l’Himalaia, mancherebbe qualcosa di inspiegabile e il quadro non sarebbe convincente.

Nelle tele di Roerich sembra di essere in una visione perfetta, meditativa, dove il tempo cronologico è sospeso; il paesaggio è ridotto all’essenziale ma, proprio per questo, carico di energia, permette di intuire il Satya Yuga, l’Età dell’Oro, della Verità e della Consapevolezza. Essendo immagine mentale più che fisica quella che si palesa, non c’è grande cura per la resa prospettica illusionistica e i colori sono forti, accesi, irreali e contrastanti. Nei dipinti si trovano diverse figure antropomorfe, spesso isolate, assorte nella meditazione. Si tratta di iniziati, asceti ed eremiti, avvolti nella natura, della quale diventano parte integrante, senza scalfirne lo splendore.

Nicholas Roerich, Beda il Predicatore, 1945

Nella sua concezione, i misteri escatologici sono celati sui monti, per questo l’uomo, di qualsiasi fede, anche inconsapevolmente, ha sempre teso a ritirarsi in alto, nella solitudine, lontano dal mondo illusorio: la luce siderale che dall’alto si percepisce fa parte del sottrarsi al saṃsāra, ciclo di vita, morte, rinascita. Ad esempio, in Beda il Predicatore l’annunciante è un tutt’uno con il mondo che lo circonda, ha la forma delle vette che gli sono davanti e delle rocce che gli sono a lato, splende per la luce del sole così come la natura intorno a lui. Lo stesso non fa l’uomo seduto, non casualmente, più in basso, in ombra, che fissa lo specchio d’acqua dorato con un misto di stupore e dolore, percependoli come enti altri rispetto al suo Io. Lo stesso avviene in Tsongkhapa (1924): il corpo del famoso maestro del Buddhismo tibetano prende la forma di un triangolo, come le vette intorno a lui, blu, il blu dell’etere e dei lapislazzuli che, secondo la cosmologia orientale, circondano il Monte Meru, sede degli Dei; forte stacco cromatico dal resto della composizione, tuttavia, provoca la sua veste, giallo-arancio: il colore del fuoco, dell’Agni Yoga, calore interno generato dalla meditazione.

Ai monti come vaso alchemico, capaci di trasformare il vissuto di chi le pratica in oro, rimanda la raffigurazione di Zarathustra del 1931. Il profeta della filosofia dell’avvenire è su un’altura, in un angolo, in ombra, tiene in mano una ciotola da cui stilla polvere dorata; tutto ciò che è sotto di lui è scuro, solo il cielo dell’alba è a tinte cromatiche calde, infuocate, gialle e arancioni. In effetti, il mazdaico Zoroastro, nella finzione nietzschana, avvia il percorso di iniziazione quando si affranca dagli uomini ordinari, gli “uomini della pianura”, comprendendo le fallacità del manicheismo, dell’opposizione dualistica bene-male, iniziando a predicare l’avvento di un uomo nuovo, un Übermensch, capace di situare pensiero e azione al di là del bene e del male, fatti ancora troppo legati all’umanità come noi la conosciamo.

Nicholas Roerich, Zarathustra, 1931

L’eremitaggio è tale solo se permette di guardare con distacco alle passioni mondane e lo Zarathustra di Roerich, dall’alto della rupe, sembra dire al resto degli uomini:

Io non condivido più i vostri sentimenti: questa nube che vedo sotto di me, questa pesante oscurità di cui rido – ecco la vostra nube temporalesca.
Voi guardate in alto quando avete desiderio di elevarvi. E io guardo in basso, perché sono elevato.
Chi di voi riesce a ridere e ad essere elevato nello stesso momento?
Chi sale sul monte più alto ride di tutte le tragedie vere e fasulle.

Quella di Zoroastro è una conoscenza intuitiva e prediscorsiva, consapevole dell’illusorietà del mondo sensibile, dove, forse, l’unica cosa reale sono non i monti dove i piedi sono saldamente posati, ma quelli inarrivabili, analoghi.

Nicholas Roerich, Colui che ascoltava, 1925

Gli stessi principi possono essere applicati alla tela Colui che ascoltava, dove lo yogin Milarepa, il “mistico delle altezze tibetane” secondo Julius Evola, sottrattosi al fiume della vita per percepirsi davvero, ascolta le voci cosmiche provenienti da Shambhala: anch’egli a gambe incrociate su di un’altura, con la testa come vertice di una ideale figura triangolare, ascolta il muto comunicare delle rocce su cui poggia il suo corpo terreno, il silenzio dei ghiacci azzurrini che si estendono all’orizzonte, e capta interiormente la Risplendente, la cui luce aurea arriva da dietro i monti. Come Zarathustra, inorridito dalla volgarità della plebe di pianura, sale sui monti, così fa Milarepa.

J. Evola chiama Roerich il “Pittore delle nevi tibetane”, colui che ha saputo estrarre l’energia psichica insita nel regno al “limite delle nevi eterne”. Esistono, infatti, nel corpus dell’artista, svariate tele in cui il deserto bianco e il freddo sono protagonisti, dove non vi è presenza umana o pseudo tale, solo una gran luce bianca, quella dell’illuminazione spirituale; in Himalaya, in Montagne blu o in Due Mondi, tutte risalenti agli anni Trenta, la Via del Risveglio è ricercata in maniera semplice, lineare, nella semiebrezza data dall’altitudine, che, paradossalmente, non provoca intorpidimento ma una consapevolezza superiore, al di là della fallacità dei cinque sensi. Tutto è quieto, le campiture di colore sono ampie, lucide, il ghiaccio risplende, circondato dal blu del microcosmo spirituale; è un modo di dipingere adamantino ed essenziale, semplice e cristallino ma profondo, abissale, che provoca vertigine al solo pensiero di ciò che si potrebbe trovare nella parte inferiore del quadro: un abisso, fisico e metafisico. In particolare, in Himalaya l’aria rarefatta è resa con un delicatissimo, ma altrettanto efficace, gioco di sfumature; è una delle poche opere in cui i contorni non sono ben nitidi e marcati, ma nembi, roccia e ghiaccio si fondono e confondono nell’armonia universale. È l’archetipo delle Divine Vette che si esprime nel paesaggio:

Le montagne sono importanti in quanto svincolano dalle condizioni terrestri inferiori. In alta montagna ci si sente liberi dalle esigenze terrene consuete. Se per il corpo astrale la quota dei 3500 metri è importante, ogni cinquecento metri anche il corpo fisico muta la sua condizione. Sarebbe errore irreparabile voler adattare artificialmente le condizioni proprie della montagna alle abitudini terrene. Ricordate, e applicate.

Cover image: Nicholas Roerich, Himalaya (Montagne Blu), 1939

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