Che tu sia per me il coltello: il significato delle parole

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“Myriam tu non mi conosci e quando ti scrivo sembra anche a me di non conoscermi.”

Inizia così il romanzo Che tu sia per me il coltello di David Grossman, con le parole di Yair, un uomo di 33 anni che, dopo aver notato una donna sconosciuta ad un raduno del liceo ritrarsi in maniera particolare in se stessa, decide di scriverle e di proporle uno scambio di lettere, un puro rapporto epistolare. Ciò che Yair le chiede sono soltanto parole e nessun tipo di incontro fisico, il semplice fluire del corpo dei pensieri, tutto ciò che ognuno di noi nel mondo reale solitamente tiene per sé e che non si sognerebbe mai di raccontare a qualcuno.

Myriam, accetta la proposta, rimane quasi colpita dalla richiesta così profonda di quest’uomo. Ed è proprio l’estraneità il presupposto che permette loro di iniziare una storia senza vincoli, pura e fantasiosa, che offre al lettore la possibilità di riflettere su un tema in particolare: l’importanza delle parole e come esse possano creare mondi immaginari dove è possibile anche incontrarsi. I due, infatti, attraverso l’uso preciso della parola e credendo nella forza che essa possa esercitare, costruiscono una vita parallela fondata sull’immaginazione, svelando i segreti più intimi della coscienza.

Iniziano così a scriversi, incessantemente, di qualsiasi cosa. Lasciano scorrere le parole e con l’immaginazione si ritrovano in luoghi lontani e in situazioni particolari: in “luoghi dove la gente si incontra così, per caso: ai giardini pubblici, in ufficio, per strada, magari in un negozio di verdura.” oppure nel salotto di Yair, in piena notte nel silenzio assoluto. “Ti ho invitata a stare con me e tu hai accettato.” Decidono di dare dei nomi fittizi ai lori familiari, quasi a voler creare un nuovo universo dove sono loro a dettare le leggi, un universo il più possibile lontano dalla realtà. Nel corso delle lettere spesso vengono introdotti fatti autobiografici, piccoli particolari di vita, momenti che sfuggono alla logica razionale. Ed è così che Yair, ad esempio, racconta a Myriam di quella volta in cui si è messo a ballare nudo in mezzo al bosco e di come sua moglie ne sia rimasta stupita e ferita; oppure di quella volta in cui ha incontrato un piccione morente e di come esso lo abbia colpito a tal punto da spingerlo a fotografarlo (questi sono infatti episodi considerati “strani” che nessuno di noi avrebbe il coraggio di raccontare a coloro che ci circondano ogni giorno). 

Anche se il rapporto tra i due è puramente epistolare ed evanescente, non mancano elementi erotici, anzi, Grossman attraverso la ripetizione di parole come “acqua” oppure lo stesso nome Myriam (che in ebraico si scrive come “acqua” “maim” con la semplice aggiunta di una “r” ) vuole farci comprendere quanta sensualità possano a volte racchiudere le parole e quanti impulsi possano generare. Vi è una parte del libro che esempliflica in maniera eccellente questo concetto, quando Yair scrive:

“Non avevo mai immaginato che conoscere il linguaggio di un estraneo potesse essere eccitante come il primo contatto con il suo corpo, il suo profumo, la sua pelle e i nei. È così anche per te?”

Le parole che usiamo parlano di noi perché ci appartengono, perché sono una parte del nostro corpo e nel mondo di Yair e di Myriam sono l’unica possibile chiave per la conoscenza dell’altro. Spesso, nel corso della nostra vita, tendiamo ad abusare di tutto ciò che ci circonda, crediamo che nulla abbia valore eppure siamo costantemente alla ricerca di senso. E così anche le parole perdono la loro primo proposito: comunicare un messaggio, mettere in relazione due universi. Ciò che hanno scelto di compiere Yair e Myriam non è nient’altro che avere fiducia nelle parole, che, se utilizzate nella maniera giusta, possono essere portatrici di verità nascoste. 

Vorremmo dunque lasciarvi una riflessione: riusciamo a dare il giusto peso alle parole? E soprattutto, siamo consapevoli della forza che esse hanno nella nostra vita e nelle nostre relazioni umane? 

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