Federer, Nadal, Djokovic: chi è il più grande di tutti?

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Parlare del GOAT, in qualsiasi ambito sportivo, è sempre un argomento un po’ difficile per un redattore. Intanto, perché non esiste – e non è un problema da poco – in secondo luogo perché, per corta o lunga che la si voglia menare, si finirà sempre per scontentare tutti. Soprattutto in tema tennistico.

Ma andiamo con ordine. I lettori che masticano bene l’inglese ma sono a corto di nozioni sportive, potrebbero giustamente aver pensato che ci si accinga a parlare di capre (goat, per l’appunto, nella perfida Albione), ma no, il simpatico ovino non c’entra.

Greatest Of All Times è la definizione che sta alla base dell’acronimo e di tante accese discussioni di sportivi da social.

Chissà perché, la disputa è quantomai sanguinosa se spostata sul rettangolo di gioco del tennis: truppe di fanatici tifosi di Federer, Nadal e Djokovic sarebbero pronte a immolarsi per sostenere la causa di questo o quel campione.

Facciamo subito un po’ di chiarezza: il GOAT è un concetto che sta ben oltre la metafisica, soprattutto per uno sport come il tennis. Chi – sano di mente – oserebbe paragonare il gioco da nobili gentiluomini inglesi della fine dell’800 con quello ipermuscolare dei giorni d’oggi? Il tennis è forse lo sport che ha conosciuto più cambiamenti dagli albori a oggi, sebbene la maggior parte dei regolamenti siano rimasti invariati.

Sono infatti cambiate le attrezzature: si è passati da racchette in legno, poco o nulla rigide e potenti, con minuscoli piatti corde, ad attrezzi in materiale composito che permettono di scagliare la pallina a velocità supersoniche e che hanno imposto un cambio nella tipologia di gioco paragonabile alla rivoluzione copernicana; è cambiata la preparazione, con atleti che passano gran parte della loro vita ad allenarsi, in campo o in palestra, sotto l’occhio vigile di allenatori e nutrizionisti, confrontati coi simpatici gentiluomini che giocavano a tennis più per affermare il loro status sociale che per fame di successi; i moderni campioni, infine, sono attorniati da uno stuolo di mental coach, psicologi, preparatori, portaborse, social media manager ed esperti di marketing, tanto da costituire delle piccole multinazionali con indotti da grande azienda.

Ciononostante, la discussione su chi sia il più grande di tutti i tempi è sempre sulla bocca di tutti, con buona pace di qualsiasi logica, forse perché il tema fa vendere un sacco, e a buoni dividendi è difficile dire di no. Un altro fattore da tenere in buona considerazione è la bizzarra situazione del tennis che vige da una decina d’anni se non di più: mai prima, e per così tanti anni, si era assistito a un perfetto triumvirato come quello che oppone Roger Federer, Rafael Nadal e Novak Djokovic.

Per chi pensasse di avere pronta la risposta in tasca e risolvere alla base il problema ricorrendo meccanicamente ai numeri nudi e crudi, lo diciamo subito: la questione non è così semplice. Innanzitutto, quali numeri andrebbero analizzati? Il tennis non è la formula uno, dove puoi semplicemente contare chi ha vinto più titoli o al limite gare. Il tennis è sport complesso, fatto di centinaia di grandi statistiche che si perdono in mille rivoli minori; vogliamo considerare i tornei vinti? Oppure ci dobbiamo fermare agli slam? I confronti diretti vanno tenuti in considerazione o sono solo fumo negli occhi? E ancora, come si fa a stabilire se i tre super campioni odierni possano vantare la loro incredibile longevità perché effettivamente fenomeni unici nella storia o perché privi di avversari, dato un ricambio generazionale pressoché inesistente?
Tutte domande piuttosto complicate e spesso senza risposta.

I freddi numeri, intanto.

Federer per ora primeggia un po’ in tutte le statistiche più importanti: 20 tornei del Grande Slam contro i 19 di Nadal e i 17 di Djokovic; 103 tornei ATP contro gli 85 di Nadal e i 79 del serbo; Federer è recordman anche per quanto riguarda le settimane in cima alla classifica. Caso risolto? No di certo. In primis perché Roger è il più anziano dei tre, e solo per un peculiare caso sportivo ce lo ritroviamo a quasi 39 anni ancora bello vispo a regalare gioie tecniche sui campi di mezzo mondo; ergo, gli avversari più giovani sono ancora ben in tempo a polverizzare i suoi tanti record. A voler essere precisi, inoltre, non tutti i record che contano sono appannaggio dei tre campionissimi: ad esempio è Jimmy Connors a detenere il maggior numero di vittorie nei tornei ATP. Oppure Bjorn Borg, l’orso svedese, è ancora il tennista con la miglior media vittorie nei tornei Slam, e solo il suo precoce ritiro a 25 anni lo ha probabilmente privato di record che oggi sarebbero imbattibili; e John McEnroe, l’irascibile genio di New York, forse il più grande talento della storia di questo sport, detiene ancora il primato dell’annata più devastante – quel 1984 in cui registrò uno score di 82 vittorie e 3 sconfitte – oltre a quello del numero di tornei vinti tra singolare e doppio, la mostruosa cifra di 150.

E che dire di Rod Laver, unico nell’impresa di realizzare il Grande Slam per ben due volte – nel 1962 e nel ’69 – quando peraltro il filotto riuscì solo un’altra volta a Donald Budge nel lontano 1938? Non solo, Laver fu anche penalizzato dall’annosa diatriba tra professionisti e dilettanti, che lo tenne lontano dai tornei più importanti per almeno sette anni, quelli migliori per lui.

E allora la saggezza compagna dei buoni cronisti di tennis ci impone di lasciar perdere i freddi numeri, o almeno di non basare le considerazioni solo su questi. In fondo il tennis è a metà tra uno sport e una vera e propria arte, col giocatore solo sul palcoscenico come l’attore che sulle assi di un teatro – sotto lo sguardo di decine di persone – si accinge a declamare un monologo di Shakespeare. Lasciamo da parte per un attimo la secolare storia del tennis e dei suoi grandi campioni e torniamo a concentrarci sui tre grandi ancora in attività.

Se ci volessimo basare sui pareri di illustri campioni del passato, il risultato sarebbe probabilmente univoco: quasi tutti, al di là di antipatie personali, propendono per il genio svizzero di Federer, pochi altri per l’incredibile tenacia agonistica di Nadal. Djokovic è quello che fa più fatica ad essere accettato, nonostante i suoi risultati siano non solo all’altezza degli altri due ma, in prospettiva, anche migliori. Perché?

Per dare una risposta ci dobbiamo addentrare nella labile terra di confine tra sport e arte.

Rafael Nadal

Lo stile di Federer è quello del predestinato; il suo gioco pare preso pari pari da un manuale di tecnica tennistica. I suoi colpi, giocati con una naturalezza senza pari – caratteristica che si lega alla sua paurosa longevità – sono una gioia per gli occhi, in più il suo tennis a tutto campo ha sempre fatto innamorare sia gli amanti del moderno gioco esplosivo e atletico, sia i fautori della vecchia scuola, fatta di tocco e sensibilità. Il grande David Foster Wallace è arrivato a definire le sue giocate “un’esperienza religiosa”, e favolosi talenti del passato come Laver, McEnroe e il nostro Panatta lo hanno senza esitazioni adottato nella “hall of fame” dei benedetti da Nostro Signore.

Nadal, fin da subito, è apparso come la sua nemesi, all’opposto in tutto. Il gioco, innanzitutto, difensivo e basato sì su colpi eccezionali, ma più ancora sulla capacità di non mollare fino all’ultimo punto e sulla predisposizione a dare tutto, con generosità infinita.

I due, insomma, hanno da sempre rappresentato l’archetipo del dualismo tra il genio che non ha bisogno più di tanto di applicarsi per risultare il migliore – il semidio Federer – e l’eroe popolare, Nadal, che con astuzia, agonismo e preparazione meticolosa, riesce a sopperire al minore talento. Non è un caso che Roger paia quasi volare sul campo, novello Nureyev, senza stillare una goccia di sudore, mentre Rafa se ne sta a remare oltre la linea di fondo, coi muscoli costretti in orridi completi smanicati, sudando come la fontana di Trevi e sbuffando come un geyser islandese.

In questo dualismo – ça va sans dire – Djokovic, ultimo arrivato, terzo incomodo con caratteristiche meno marcate, ha sempre faticato a inserirsi.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati” – è l’abusata citazione di Bertold Brecht, ma la situazione del giovane Novak era ancora più disperata, avendo trovato occupati sia il posto della “ragione” – dalla perfezione di Federer – che quello del “torto”, dal mesomorfo spagnolo.

Come noto, Djokovic si è preso il suo posto sul campo, a suon di rutilanti successi, anche se va rilevato per onestà intellettuale che il Federer con cui si è confrontato è soltanto l’ombra di quello di inizio carriera; basti pensare che quando Novak di Serbia vinceva il primo titolo slam, nel 2008 in Australia, Federer aveva già vinto ben dodici titoli.

Novak Djokovic

Fatto sta che Djokovic può vantarsi di essere in vantaggio nelle rispettive rivalità coi due avversari; statistica però ben poco significativa se depurata delle differenze d’età, tanto che Federer, primo in tutte le altre, è in svantaggio in tutti i confronti diretti.

Ma se Djokovic è riuscito tra immani fatiche a equipararsi agli altri due in campo, è ancora ben lontano nell’ultimo settore che dobbiamo considerare: il sentimento popolare.

Proprio tra i tifosi e gli appassionati – due categorie differenti quando non opposte – Federer pare esibire il vantaggio più incolmabile; e più che le sordide risse da social, ci viene in soccorso un fattore scivoloso ma adattissimo a fare da termometro: l’atteggiamento del marketing verso i tre. Non è un caso che per anni Federer e Nadal siano stati i pupilli di un noto marchio americano, quello col logo a virgola. E a ben ragione, visto che coi due opposti si era assicurato le due fette di mercato principali, quella stregata dallo stile e dalla classe dello svizzero, e quella più affine alla generosità e all’immagine certo più grezza del maiorchino Rafa.
Federer, ligio alla sua immagine, negli anni ha sempre impersonato la figura classica e impeccabile, senza cadute di stile: mai una parola di troppo verso i contendenti, mai una mancanza di rispetto. Talento, stile ed eleganza fatti persona, insomma.

Nadal dal canto suo, ha costruito il suo impero su alcune doti sovrapposte – rispetto, correttezza – e altre opposte, come l’agonismo urlato, la fisicità e la generosità.

Nobiltà e proletariato, insomma. Un solo personaggio nella storia del tennis era stato veicolo di marketing più efficace: John McEnroe, dato che nella sua bipolarità incarnava allo stesso tempo talento e sregolatezza, bellezza e provocazione. Tanto che lo stesso marchio di cui sopra fece carte false per averlo e ora, nella sua sede principale, un’intera ala gli è intitolata.

Ed è proprio in questo campo che Djokovic, imbattibile sul campo, incontra le più grandi difficoltà. All’inizio ha cercato di smarcarsi dai due creando il personaggio del simpatico burlone, incline allo scherzo e alle imitazioni. Una certa antipatia naturale e il poco successo delle sue performance lo hanno convinto a cambiare strada; il personaggio che Novak tuttora impersona è quello dell’atleta dedito in tutto e per tutto alla disciplina, dalla nutrizione – è vegetariano – alla solidità mentale quasi robotica in campo. Ultimamente, però, visto che i due continuano a navigare lontani come successo umano – che si traduce in guadagni più alti – è risbucato il Novak buontempone, con tanto di ospitata a Sanremo e iniziative a “sorpresa” con tifosi e giovani fan. L’operazione simpatia avrà successo e Djokovic potrà ambire al titolo di GOAT anche nell’immaginario degli appassionati? Staremo a vedere, per ora però i numeri sono impietosi e Federer vale come patrimonio personale una cifra più che doppia rispetto agli avversari.

In conclusione, la sentenza su chi sia il GOAT tra Federer, Nadal e Djokovic non può che essere una: tutti prosciolti perché il fatto non sussiste.

E la speranza è quella di vederli in campo a contendersi l’invisibile trofeo il più a lungo possibile.

Cover image: metro.co.uk

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