Charles Bukowski: dentro la filosofia delle sue opere

“La verità profonda, per fare qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta nella semplicità. La vita è profonda nella sua semplicità”

La frase sopra citata appartiene a Hollywood, Hollywood!, penultimo romanzo di Charles Bukowski uscito nel 1989.

In questa frase è racchiuso lo stile di scrittura di Hank, così come amava farsi chiamare, sempre che avesse mai desiderato avere uno stile ben definito, identificato poi, nel filone del realismo sporco.

La semplicità. Niente concetti troppo filosofici o paroloni da intellettuali, solo ed esclusivamente la semplicità. La stessa di una sveglia che suona e di un uomo che impreca perché gli tocca alzarsi per un lavoro che odia, la stessa di una birra tra amici che parlano di donne e scommesse, la semplicità della vita quotidiana di un uomo qualsiasi.

Ecco, Buk, prima di diventare uno scrittore aveva vissuto per ben cinquantuno anni una vita normale, ma non senza eccessi ed episodi surreali, ed anonima. Per vita anonima e normale si intende un’esistenza condotta da migliaia di persone; lavori saltuari, un susseguirsi di relazioni, scommesse, povertà e sbronze.

E forse, aver vissuto quella condizione, a lungo e intensamente, gli aveva dato la consapevolezza di quanto fosse molto più interessante raccontare la vita semplice e senza eroismi di un postino brutto, e sempre in bolletta, che quella di un attore famoso e fascinoso.

Così, dopo aver vissuto per mezzo secolo e un anno, si vide pubblicare il primo romanzo, autobiografico, Post office.

Il libro, suddiviso in sei capitoli, narra le vicende di Henry Chinaski, alter ego dello scrittore cui nottate, scandite da sbronze e orgasmi, finiscono alle 5 del mattino, l’ora in cui suona la sveglia per andare alle poste a prendere le lettere da portare in giro, e proprio attraverso le sue esperienze racconta anche una società a tratti spregevole e frustrata, come Janko, collega di Henry, e a tratti ingenua e precaria, in cui massima ispirazione è raggiungere stabilità e sicurezza economica.

E mentre tra indirizzi da cercare e incontri surreali le giornate passano, in sé, cova sempre il desiderio di scrivere un romanzo.

“Alla mattina era mattina e io ero ancora vivo. Magari scrivo un romanzo, pensai. E lo scrissi.”

Dopo aver ottenuto il posto fisso, Henry, si accorge che quella routine non fa per lui e si licenzia.

Seguono viaggi e relazioni, scommesse perse, ancora ubriacature e colpi di fortuna, ma alla fine il protagonista si ritrova sempre solo.

La solitudine. Altra compagna fedele e mai assente nella vita di Bukowski e di conseguenza in quella di Henry Chinaski.

Di questa sensazione è pregno Panino al prosciutto, pubblicato undici anni dopo Post office, che racconta in modo semi-autobiografico l’infanzia, l’adolescenza e i primissimi vent’anni.

Infatti il romanzo si conclude nel 1941, quando Hank ha ventuno anni.

In panino al prosciutto c’è il rapporto con il padre violento, infatti una delle paure dello scrittore era diventare come il genitore.

Ci sono i primi accenni di vita randagia e l’emarginazione di cui il giovane Chinaski era vittima a causa dell’acne che “lo faceva apparire orribile a sé stesso e agli altri” e la condizione di escluso sfociò nell’alcol, nella passione per i libri e per la scrittura, infatti, solo attraverso la scrittura riusciva ad intravedere un’occasione di riscatto.

“Una bella poesia è come una birra fredda quando ne hai bisogno, una bella poesia può farti stringere la mano a Mozart, una bella poesia può farti giocare a dadi con il demonio e può farti vincere.”

Ma le vicissitudini personali, anche in questo romanzo come in Post office, si intrecciano con le storie di un intero paese, e qui ci sono gli echi della crisi economica durante la Grande depressione.

Prima parlavamo di solitudine, e anche in questo romanzo, tra tante avventure, spiacevoli e meno, e un celato desiderio di essere amato, il nostro Hanry Chinaski alla fine resta da solo.

Cosa abbiamo detto poco fa? Che solo attraverso la scrittura il giovane Hank riuscisse a percepire una speranza di riscatto?

Stando a quanto Charles Bukowski dichiarò più di una volta questa affermazione non è per niente falsa, infatti, passava le nottate in compagnia di non si sa quante bottiglie di birra e della sua macchina da scrivere a trasformare soprattutto la tristezza e i suoi difetti più brutali in racconti, ma oltre a questo di cosa raccontava? Abbiamo accennato a romanzi riguardanti la sua adolescenza e al suo periodo da “postino”, ma Buk, anche trattando l’amore con cinismo e disincanto scrisse una delle poesie più belle e delicate su questo argomento che accomuna tutti i mortali.

Quando Dio creò l’amore non ci ha aiutato molto
quando Dio creò i cani non ha aiutato molto i cani
quando Dio creò le piante fu una cosa nella norma
quando Dio creò l’odio ci ha dato una normale cosa utile
quando Dio creò Me creò Me
quando Dio creò la scimmia stava dormendo
quando creò la giraffa era ubriaco
quando creò i narcotici era su di giri
e quando creò il suicidio era a terra

Quando creò te distesa a letto
sapeva cosa stava facendo
era ubriaco e su di giri
e creò le montagne e il mare e il fuoco
allo stesso tempo

Ha fatto qualche errore
ma quando creò te distesa a letto
fece tutto il Suo Sacro Universo.

Scrisse della sua smania di sentirsi sempre fuori posto ovunque.

Brucia all’inferno
questa parte di me che non si trova bene in nessun posto
mentre le altre persone trovano cose
da fare
nel tempo che hanno
posti dove andare
insieme
cose da
dirsi.

Io sto
bruciando all’inferno
da qualche parte nel nord del Messico.
Qui i fiori non crescono.

Non sono come
gli altri
gli altri sono come
gli altri.

Si assomigliano tutti:
si riuniscano
si ritrovano
si accalcano
sono
allegri e soddisfatti
e io sto
bruciando all’inferno.

Il mio cuore ha mille anni.
Non sono come
gli altri.
Morirei nei loro prati da picnic
soffocato dalle loro bandiere
indebolito dalle loro canzoni
non amato dai loro soldati
trafitto dal loro umorismo
assassinato dalle loro preoccupazioni.

Non sono come
gli altri.
Io sto
bruciando all’inferno.

L’inferno di
me stesso.

Raccontò del suo amore per la figlia e per i gatti, del suo alcolismo e di pedofilia. Scrisse soprattutto di se stesso, e non provò mai a migliorarsi attraverso le parole. Si sentiva un perdente e descrisse il suo alter ego come un perdente, non come un eroe integro interessato a salvare il mondo. Ma se Charles Bukowski fosse stato un vincente, un buon partito da prendere come esempio, un uomo senza macchia, non sarebbe mai riuscito a trasformare la sua vita in una serie di romanzi immortali. Buk ha trasformato i suoi peggiori difetti in punti di forza.

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