Aspettare e sperare: la filosofia del Conte di Montecristo

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“Il 24 febbraio 1815 la vedetta della Madonna della Guardia dette il segnale della nave a tre alberi Pharaon, che veniva da Smirne, Trieste e Napoli.

Com’è d’uso, un pilota costiero partì subito dal porto, passò vicino al Castello d’If e salì a bordo del naviglio fra il capo di Morgiou e l’isola di Rion.

Contemporaneamente com’è ugualmente d’uso, la piattaforma del forte San Giovanni si ricoprì di curiosi; poiché è sempre un avvenimento di grande interesse a Marsiglia l’arrivo di qualche bastimento, in particolare poi quando questo legno, come il Pharaon, si sapeva costruito, arredato e stivato nei cantieri della vecchia Phocée e appartenente ad un armatore della città.”

Inizia così il viaggio del lettore, a vele spiegate e in mare aperto, nel mondo di Edmond Dantés, il conte di Montecristo. Un incipit che è venato dal legno delle navi, dalla salsedine e dal vento sferzante delle coste, che lo rende un romanzo d’aria e di mare, da assaporare scrutando l’orizzonte dell’acqua e dell’anima.  

Il Conte di Montecristo non si percorre solo sulla riga dell’inchiostro, ma sulla scia della spuma e degli sbuffi del mare, sui sentieri che portano al minaccioso profilo del Castello d’If e seguendo la geografia e le rotte dei marinai, perlustrando le coste battute dal vento e dalla fatica. Anche chi non ha letto il monumentale romanzo d’appendice di Alexandre Dumas padre, conosce per sommi capi la storia di Edmond Dantés e della sua metamorfosi, da giovane e promettente capitano della nave mercantile Pharaon a Conte di Montecristo, Sinbad il Marinaio, Abate Busoni e Lord Wilmore: l’opera, completata nel 1844 e pubblicata nei due anni successivi come una serie in 18 parti, è una summa di temi capillari per l’uomo occidentale, come la giustizia (divina e non), la misericordia, il perdono e la vendetta.

Il Conte di Montecristo ha la monumentalità, l’auctoritas e lo spessore di una Bibbia contemporanea, da consultare con la stessa solerzia con cui si consulterebbero delle carte nautiche, perché vi è tracciata la fisionomia dell’homo occidentalis, nella sua grazia, nelle invidie, nei suoi sputi più abietti e nelle brutture più ripugnanti e nei morbi che gli infettano l’anima e il cuore. Il morbo che scorre tra le pagine dell’opera di Dumas, letale come veleno o fiele (non a caso uno dei capitoli è chiamato Tossicologia), e dolce come acqua di rose, è proprio il proposito di vendetta. Nulla colora e tinge le pagine del Conte di Montecristo più della vendetta, ancella di Edmond Dantés e sua fedele compagna di prigionia durante i quattordici anni di prigione nel castello d’If.         

Il marinaio Dantés (ormai nominato capitano della nave mercantile Pharaon dall’armatore Morrel) alla soglia dei vent’anni possiede tutto ciò che un giovane avrebbe potuto accarezzare col desiderio: una prestigiosa promozione, una fidanzata bellissima e devota (Mercédès Herrera, già oggetto delle attenzioni del cugino Fernand Mondego, che avrebbe fatto qualsiasi cosa per averla) e un padre affettuoso e pronto a sacrificare tutto per la felicità di suo figlio. 

Ma la vendetta non  è l’unico morbo a infettare il romanzo, perché anche l’invidia è una delle sanguisughe che ne feriscono il corpo: l’invidia, la semplice e banale invidia di tre uomini è la causa della rovina della vita di Dantés. La banalità del male si esemplifica nelle figure di Danglars, del già citato Fernand Mondego e di Gaspard Caderousse: Danglars è lo scrivano della nave, già da tempo desideroso di diventare capitano e prendere, con cupidigia, il posto che spettava a Dantés; Caderousse è il suo vicino di casa invidioso e Fernard Mondego avrebbe, come già sappiamo, fatto di tutto per poter sposare la bella Mércedès, ormai promessa sposa di Dantés. Come colpire l’inespugnabile figura di Edmond Dantés, favorito dal destino e votato ad una vita di soddisfazioni inenarrabili? L’invidia punge sempre nei meandri più sottili, puntellando le carni in modo subdolo e strisciante: ed ecco un complotto confezionato ad hoc, con la complicità di un magistrato e sostituto procuratore del re, Gérard de Villefort. Il complotto s’impernia sostanzialmente attorno ad una lettera anonima, scritta da Danglars, in cui Dantés viene accusato di essere un agente bonapartista, una vera e propria lettera scarlatta negli anni della Restaurazione Borbonica e nella Marsiglia del 1815. Il sostituto procuratore del re è consapevole dell’innocenza di Dantés, ma si mostra integerrimo e rigido nei suoi confronti, per poter raggiungere i suoi scopi, ossia entrare nelle grazie dei filomonarchici marchesi di Saint-Méran (di cui vuole sposare la figlia) e non destare sospetti circa la fede del suo stesso padre, Noirtier de Villefort, che è invece un fervente bonapartista ed ex membro del governo napoleonico, e che dopo un attacco apoplettico è capace di comunicare soltanto con lo sguardo, avendo il resto del corpo completamente paralizzato.  

L’antefatto risiede in questo, nell’invidia capace di scarnificare la razionalità di qualsiasi essere vivente e di demolire le vite di coloro che sembrano cari agli dei. Ed è dall’invidia che lacera l’esistenza, che ha inizio uno degli affreschi più torvi, imponenti e foschi di tutta la letteratura mondiale, quello che tratteggia l’arrivo e la permanenza di Edmond Dantés nel castello d’If, con conseguente fuga.

Il Castello D’If, stagliato al largo di Marsiglia, diventa la tomba muta e claustrofobica di un Dantès ormai cadavere in vita che, incredulo e incapace di comprensione anche solo minimamente il motivo della reclusione nel castello, varca le soglie di una follia ansimante e febbricitante. Decide addirittura di lasciarsi morire, privandosi spontaneamente di quel tozzo di pane sporco e di quell’acqua putrida servita dai carcerieri, per sprofondare poco a poco nelle viscere dell’oblio. L’aria mefitica e opprimente della prigione gli aveva fatto desiderare il nulla eterno, ma proprio al culmine del desiderio di morte, proprio a un soffio del punto di non ritorno tra la vita e il niente, un’ultima letale zaffata di coraggio provvede a risvegliargli i nervi che avevano vacillato.    
Le mura del castello vedono Dantès passare da spaurito e confuso giovane a uomo e, seppur in una situazione mortifera, quelle stesse mura testimoniano un incontro che si configurerà come il grande evento della sua vita, il battesimo del conte di Montecristo propriamente detto: l’incontro con l’abate Faria. 

L’ecclesiastico di origine genovese Faria, anch’egli prigioniero del castello d’If, è considerato matto dai suoi carcerieri: poliglotta e di finissima e sterminata cultura e conoscenza multidisciplinare, era stato il segretario del conte Guido Spada, della nobile casata di Terni e Roma, ed era stato arrestato nel 1808 dai gendarmi della principessa di Piombino Elisa, sorella dell’imperatore, con l’accusa di aver pubblicato e divulgato uno scritto favorevole all’unità d’Italia. Dall’indole paterna, col fuoco della conoscenza che arroventa le braci dei suoi occhi, Faria è depositario del segreto del tesoro degli Spada, custodito e ben nascosto nell’isola di Montecristo, non lontana dall’isola d’Elba. Negli anni di prigionia comune, Spada e Dantès esplorano assieme un arcipelago di cultura sterminata, e il vecchio abate impartisce al suo amico lezioni di latino, greco, economia, astronomia, facendo germogliare in lui un ricchissimo bagaglio culturale, ma soprattutto lo aiuta a ricostruire l’esegesi della sua condanna. Tutto, grazie a Faria, appare improvvisamente chiaro, e Dantès non ha più dubbi sui mandanti della disfatta della sua esistenza.

Le scene in cui Dantès e Faria studiano e si fanno compagnia, sono tra le più commoventi e strazianti del romanzo, pregne di un amore paterno che ricorda quasi l’iniziazione di Virgilio a Dante, scene rese sacre dal fuoco inestinguibile della conoscenza. L’ormai orfano Dantés (suo padre era morto di fame nel frattempo, come un cane nell’indifferenza dei vicini) ritrova nelle mani callose di quell’abate il tocco paterno di cui aveva dimenticato la pressione, e comincia a prendersi cura del vecchio anche durante i suoi attacchi apoplettici che lo lasciavano tramortito ed esanime, e che prima o poi gli sarebbero stati fatali. Faria si fa promettere dal suo amico che sarebbe riuscito ad evadere e si sarebbe recato a Montecristo, dove avrebbe recuperato il bottino e da lì avrebbe iniziato una nuova vita. Purtroppo l’ultimo attacco apoplettico chiude per sempre le palpebre del vecchio, che muore con la parola “Montecristo” che gli sigilla le labbra, e al Dantés orfano per la seconda volta, tocca evadere da solo. Aveva vissuto quegli anni da cadavere in vita e ne sarebbe uscito allo stesso modo: prende il posto del vecchio morto coricandosi nel suo sudario, e i carcerieri, incapaci di riconoscere lo scambio, trasportano il corpo sbagliato fuori dalla prigione d’If.        

Ma il cimitero del castello d’If è il mare.     

La scena in cui Dantès si libera repentinamente degli stracci del cadavere e della palla di piombo che gli avevano messo al piede per seppellirlo in fondo al mare, e nuota instancabilmente nelle acque nere a notte fonda, sono da sussulti al cuore e spasmi allo stomaco, il lettore precipita letteralmente in apnea e trattiene il fiato, per poi riemergere nelle luci di una pallida mattinata nel mar Mediterraneo. 

Dantès rimane sul fondo del mare.     

Dai flutti riemerge Montecristo, la nuova identità dell’uomo. Pupille velate di malinconia, bocca corrucciata e volto marmoreo: la nuova maschera di Dantès è quella di Montecristo, che getta via le spoglie mortali per diventare un vero e proprio messaggero e araldo del destino, sceso in terra per vendicare chi gli ha strappato quattordici anni di vita e che ha utilizzato la giustizia solo per gabbarlo e imprigionarlo. Se la giustizia degli uomini ha fallito, non lo farà quella di Dio, che deve essere per forza tutta dalla sua parte. La vendetta di Dantés è lucida, visionaria e intelligente, lenta e glaciale, non subitanea e repentina. 

In una sorta di contrappasso dantesco, Montecristo sceglie chirurgicamente le armi con cui colpire coloro che l’hanno rovinato: chi ha affamato suo padre morirà di fame e mendicherà un tozzo di pane, chi l’ha reso folle morirà proprio tra gli stenti della follia, chi gli ha tolto l’amore facendolo morire di dolore, sarà portato a suicidarsi con un colpo di pistola. Montecristo è sangue rappreso, è boia e giudice divino, tanto spietato con i nemici quanto generoso e amorevole nell’aiutare i suoi vecchi amici in difficoltà (tramite i suoi travestimenti, come quello di Sinbad il marinaio, porterà aiuto all’armatore Morrel ormai sull’orlo del fallimento).

Montecristo aleggia per tutto il romanzo come una sorta di vampiro, come un mietitore misterioso e con le lacrime represse di un passato mai del tutto ricacciato indietro. Aspettare e sperare sono i concetti cardine su cui si fonda tutta la sua azione, così come la distinzione mai ferrea tra il bene e il male: l’intreccio del romanzo, che si stagli agli occhi del lettore con una prosa asciutta e senza orpelli di sorta, porta spesso a ribaltare i colori della bontà e della cattiveria, (Montecristo alla fine si affeziona addirittura alla figlia del suo peggior nemico, Villefort), perché nessun essere umano è completamente puro ed esente da azioni turpi e impronunciabili, così come nessuna vendetta, per quanto anelata, è in grado di soddisfare pienamente.

Aspettare e sperare: il romanzo di Dumas offre un vero e proprio spaccato della società del tempo, un quadro agghiacciante e adamantino dell’umanità corrotta, vile, oscena e angelica al tempo stesso, e affida al lettore un ultimo, disperato messaggio. L’attesa e la speranza non sono soltanto due parole, ma due veri e propri sistemi di pensiero, che sostengono lo spirito anche quando vacilla, quando tutto è tremulo e sembra sgretolarsi. Aspettare e sperare, perché la colonna portante su cui si poggia quest’opera monumentale di milleduecento pagine è la sofferenza che conduce alla felicità: bisogna aver sofferto in modo inimmaginabile per poter difendere il proprio angolo di felicità su questa terra, prenderselo con gli artigli, rinascere dal fondo del mare e trasfigurarsi nella proiezione di un nuovo Io.                    

“Non vi è né felicità né infelicità a questo mondo, è soltanto il paragone di uno stato ad un altro, ecco tutto. Quegli solo che ha provato l’estremo dolore è atto a gustare la suprema felicità. Bisognava aver bramato la morte, per sapere quale bene è vivere. Vivete dunque e siate felici, figli prediletti del mio cuore, e non dimenticate mai che, fino al giorno in cui Iddio si degnerà di svelare all’uomo l’avvenire, tutta l’umana saggezza sarà riposta in queste due parole: aspettare e sperare.”

Cover Image: Karl Fitzgerald, Il Conte di Monte Cristo

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