Cosa potrebbe definire meglio l’America se non una frontiera da esplorare, una comunità da fondare, un sogno individuale da realizzare? Quello è il suo codice genetico, iscritto nelle sue leggi costitutive e sempre palpitante nella sua produzione artistica più alta.
Così fu per il movimento hippie nella seconda metà degli anni ‘60: lo spirito pionieristico e libertario dei padri della nazione si era trasfuso nella generazione dei giovani nati durante la guerra, spingendoli alla ricerca di un mondo nuovo e diverso, sperimentando nuove ma antiche modalità di vita comunitaria e conquistando frontiere di libertà e uguaglianza di cui ancora godiamo.
Nell’immaginario mediatico la California era il luogo di ambientazione di quella rivoluzione; la colonna sonora che ne scandiva i passi arrivava da San Francisco dove, a partire dalla metà del decennio, un’intera generazione si era radunata – come una carovana armata di sogni – pronta a oltrepassare i confini della geografia culturale fino ad allora conosciuta.
Dovendo individuare, tra i molti, un personaggio fortemente rappresentativo – iconico – di quel movimento, questi non potrebbe che essere David Crosby: figura cruciale nello sviluppo della cultura hippie nelle sue diverse fasi, al suo nome associamo subito quel faccione bonario dall’espressione sognante e quei baffoni da cowboy che ben rappresentano lo spirito della frontiera sempre radicato nella cultura americana.
“Croz” il leone della California, nonché una delle voci più belle di quella generazione, è stato realmente pioniere e innovatore formidabile se consideriamo il nomadismo musicale e geografico che ne ha accompagnato la carriera: originario di Los Angeles e figlio d’arte, si trasferì ben presto a Est per cercare fortuna e ispirazione al Greenwich Village, fucina della rinascita folk americana; ma non senza essere transitato per Chicago, dove formò un duo acustico con un musicista di colore, dando vita a uno dei primi esperimenti di coppia musicale mista che gli States avessero conosciuto, ma che all’epoca non erano pronti ad accogliere.
Con Roger McGuinn fu tra i fondatori dei Byrds nella natia California, dove all’anima folk-rock unì il suo personalissimo stile che tanta influenza avrebbe avuto sulla nascente scena psichedelica: durante la sua permanenza nella band (1964-1967) fu tra i primi e più entusiasti sperimentatori di LSD, ritenuto strumento di esplorazione e medium di viaggio, tanto da promuoverne l’uso presso i Beatles durante il loro tour americano dell’estate 1965.
Nel frattempo la Summer of Love del ’67 era esplosa, l’euforia del sogno hippie aveva raggiunto il suo climax e il Festival di Monterey si era trasformato nella sliding door involontaria per molti musicisti: durante l’evento si era visto Crosby suonare sul palco con i rimaneggiati Buffalo Springfield di Stephen Stills come sostituto del dimissionario Neil Young; e di lì a breve il baffuto David avrebbe lasciato i Byrds per divergenze artistiche – tanto progressive le sue intuizioni musicali quanto tradizionaliste lo sarebbero diventate quelle di McGuinn e soci.
Alla rottura con la band californiana si deve la genesi di una delle canzoni che meglio esprimono lo spirito dei tempi: Wooden Ships, scritta a tre mani con gli amici Paul Kantner dei Jefferson Airplane e Stephen Stills, orfano dei Buffalo Springfield.
Trovatosi disoccupato alla fine del 1967, Crosby decise di acquistare una barca a vela per dedicarsi alla navigazione, assecondando le proprie abilità di marinaio-navigatore acquisite in gioventù: fu così che trovò uno yacht chiamato Mayan, un gioiello costruito in Belize con pregiatissimo mogano proveniente dall’Honduras, e se ne innamorò.
Ormeggiato a Fort Lauderdale, Florida, il vascello divenne teatro dell’incontro con gli altri due musicisti, invitati da Crosby per un weekend di svago nei primi mesi del 1968. Protetti e ispirati da quel guscio di legno che si muoveva silenzioso sulla superficie del mare, i tre amici ebbero estro e atmosfera ideali per una prolungata jam chitarristica: quando il padrone di casa intonò una serie di vecchi accordi rispolverati dalla memoria, trovò immediata sponda nelle liriche improvvisate di Paul Kantner – a cui si deve il refrain “wooden ships on the water, very free and easy” – mentre il perfezionista Stills già sperimentava arrangiamenti adeguati e aggiungeva un celebre verso nel finale. Fu un vero e proprio processo organico e collettivo di costruzione del brano, riferirà poi Crosby, simile a un rituale ancestrale, alla maniera degli antichi pionieri accampati intorno a un fuoco.
Ne scaturì una canzone suggestiva e ricca di riferimenti biblici, di cui vennero incise due versioni differenti: Crosby e Stills la pubblicarono nel disco d’esordio del trio che formarono di lì a breve insieme a Graham Nash, nel maggio del 1969. Paul Kantner la incluse, ampliata e modificata nel testo, nel classico dei Jefferson Airplane Volunteers, nel novembre dello stesso anno.
Entrambi la eseguirono a Woodstock ed entrambi continuarono a considerarla patrimonio comune alle due band: molto più di una semplice collaborazione professionale, il brano rappresenta il frutto musicale di un’amicizia sincera e il naturale esito dello spirito comunitario che permeava il milieu della controcultura di San Francisco.
(demo di Wooden Ships eseguita nell’abitazione dei Jefferson Airplane ad Haight Ashbury, con David Crosby – 1968)
Canzone di ispirazione pacifista e visione apocalittica, racconta di un futuro in cui la guerra ha portato alla catastrofe atomica il pianeta – lo si capisce dal riferimento agli uomini che vestono tute argentate anti-radiazioni “Silver people on the shoreline let us be…”: la comunità eletta degli hippies decide perciò di abbandonare questo mondo, una terra straniera che non ha bisogno di loro, organizzando un esodo su navi di legno simili ad arche destinate a fondare una nuova e migliore civiltà, in cui si potrà ritrovare il sorriso – lead her away from this foreign land. Far away, where we might laugh again. We are leaving, you don’t need us.
La versione di Crosby, Stills & Nash è quella di maggiore fama, musicalmente più ricca e coinvolgente: un saliscendi di emozioni e stati d’animo, una strabiliante combinazione di opposti che si alternano e integrano – il titolo originale doveva infatti essere “Positively Negative”. Questo crogiolo di stili perfeziona il canone psichedelico caro a David Crosby: rock-blues, jazz, folk, oriente, space-rock, tutto galleggia in un’atmosfera trasognata per poi mischiarsi o separarsi come un fluido dentro un alambicco, guidato dal crescere o dallo spegnersi dell’intensità emozionale.
Il brano poggia su ampie e potenti arcate di basso e robuste dosi di elettricità, in mezzo alle quali si snoda la storia, languida e malinconica, affidata alle voci di Stills e Crosby e punteggiata dai tocchi liquidi delle tastiere e da una morbida chitarra di impronta jazz. Il dialogo vocale risulta emozionante nella sua complementarietà, diviso tra il timbro chiuso ma lucido del texano Stills e la sensualità cristallina di Crosby, morbido e come rapito in una trance mistica. Il refrain è un inno liturgico perfetto per essere cantato da folle oceaniche, trascinante poiché corale. La chiusura infine, con la voce di Crosby che sfuma come in un sogno, ci regala suggestioni ulteriori: sembra di vederla, quella nave di legno, perdersi nel mare e scomparire all’orizzonte non si sa bene dove.
Molto più di un semplice manifesto pacifista, Wooden Ships è un inno alla speranza e un omaggio inconsapevole alla mitologia delle origini, quella della frontiera e delle comunità quacchere: imbevuta di uno speciale senso del sacro, si dispiega con il calore della fede, ora epica e vigorosa, ora visionaria e malinconica, insieme distopica e utopica.
Il sentirsi un’entità separata e non compatibile con l’establishment si tradusse ben presto per il movimento hippie in una fuga dal mondo, un isolamento paragonabile a quello delle antiche confraternite religiose: l’utopia cominciò a traslocare dalla realtà all’arte, di lì a breve il ripiegamento intimista avrebbe soppiantato lo spirito comunitario e il passaggio dal noi all’io accompagnato la mutazione della scena californiana da subcultura a mainstream.
La marea montante della Summer of Love, conclusasi con un funerale simbolico e fagocitata dai media, aveva già cominciato il suo riflusso: l’escalation della guerra in Vietnam e gli spari della polizia sui manifestanti avrebbero mostrato il volto feroce dell’America; eventi tragici come l’Altamont Free Concert e delittuosi come gli omicidi della Manson Family macchiato di sangue i fiori; l’eroina sarebbe sopraggiunta a guastare definitivamente l’idillio.
Il sogno cominciava così il suo languido tramonto: fu sufficiente aspettare il 1970 affinché Paul Kantner desse alle stampe il suo Blows against the Empire a nome Jefferson Starship – a cui contribuirono tutti gli amici della Bay Area – un ideale seguito delle navi di legno in cui immaginava di abbandonare la Terra a bordo di un’astronave, per fondare su un altro pianeta una comunità all’insegna dei principi di pace e amore.
Ma toccò ancora una volta a David Crosby, già seriamente provato dall’abuso di Lsd, con l’imprescindibile If I could only remember my name… del 1971, chiudere definitivamente la stagione del sogno hippie con un disco solista che porta in copertina l’immagine di un tramonto e nel titolo un’ammissione di sconfitta: l’impossibilità di ritrovare ciò che siamo stati, poiché bruciato troppo in fretta.