Dalle note all’mp3: storia del genio italiano in musica

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Vi siete mai chiesti chi ha scelto il nome delle note musicali, che tutti conosciamo?

Gli antichi non avevano una notazione musicale propriamente detta, limitandosi a indicare i suoni con le prime lettere dell’alfabeto. Nel Medioevo, a causa della crescente difficoltà nel memorizzare melodie sempre più lunghe e articolate, nacque l’esigenza di “notare”, sopra il testo da cantare, alcuni segni (detti neumi) che aiutassero i cantori a ricordare la direzione (ascendente o discendente) della linea melodica. Da questi embrionali aiuti mnemonici nacque, a poco a poco, la moderna notazione, le cui tappe storiche fondamentali sono: l’introduzione del tetragramma (rigo musicale composto da quattro linee, predecessore del pentagramma), l’attribuzione di un nome e di una durata alle note e alle diverse figure musicali.

Gli attuali nomi delle note in uso nei paesi latini risalgono al XII secolo e la loro definizione si deve a Guido d’Arezzo, noto anche col nome di Guido Monaco.

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Nato ad Arezzo, fra il 1025 e il 1035, insegnò la musica e il canto. Per aiutare i cantori, Guido d’Arezzo prese le iniziali dei versi dell’inno a San Giovanni Battista (Ut queant laxis) e le utilizzò per comporre la scala musicale:

Ecco il testo dell’inno:

Ut queant laxis
Resonare fibris
Mira gestorum
Famuli tuorum
Solve polluti
Labii reatum
Sancte Joannes

Traduzione: “Affinché i tuoi servi, a gola spiegata, possano esaltare le tue gesta meravigliose, togli, o San Giovanni, ogni impurità dalle loro labbra“.

Quest’inno era molto conosciuto, di conseguenza era facile abbinare la sillaba iniziale di ogni versetto al suono della nota corrispondente. In pratica, conoscendo la melodia della composizione, era possibile intonare esattamente i suoni corrispondenti all’inizio di ciascun versetto. Il nome Si, dato al settimo suono, fu aggiunto in seguito, ricavandolo dalle iniziali di Sancte Joannes.

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Nel XVII secolo in Italia la nota Ut venne sostituita con il nome attuale Do, da una proposta del musicologo Giovanni Battista Doni: formalmente la sillaba venne considerata difficile da pronunciare e sostituita da quella iniziale di Dominus, il Signore, ma probabilmente non ci si sbaglia a pensare che il cognome del musicologo abbia giocato una parte importante.

I primati italiani in campo musicale non si fermano qui. Dopo aver assegnato un nome alle note, il genio italiano si è espresso nell’ideazione di strumenti capaci di sfruttare il linguaggio musicale al meglio.

Bartolomeo Cristòfori (Padova 1655-Firenze 1732), cembalaro e liutaio, cercò di rendere possibile nel clavicembalo la graduazione del suono, sostituendo ai saltarelli a becco di penna, quelli a martello. Un’invenzione che trasformò il clavicembalo in “clavicembalo col piano e col forte“, un precursore cioè dell’odierno pianoforte.

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La sua intuizione fu di offrire al musicista la possibilità di imprimere espressività alle note suonate (modulando i “forti” e i “piano”). Un’espressività che il clavicembalo di quel tempo non permetteva (non era possibile, infatti, dosare la forza giacché le corde dello strumento erano letteralmente pizzicate). Per raggiungere lo scopo che si era prefissato, pensò che la corda non dovesse essere pizzicata bensì percossa da un martelletto. Altro genio inventivo legato al pianoforte è Domenico Del Mela che, nel 1739, concepì il primo pianoforte con tavola armonica verticale.

Anche il violino ha un padre italiano. Secondo molti, non c’è proprio un inventore del violino ma piuttosto un artigiano che seppe fissare i criteri base che sarebbero stati poi seguiti da tutti i suoi successori. Che sia stato Andrea Amati di Cremona o Gasparo da Salò di Brescia non importa, sempre d’italiani stiamo parlando. Le date potrebbero dare ragione ai cremonesi: in effetti, il violino più antico esistente risale al 1564 e fu realizzato da Andrea Amati. Questo violino del 1564 ha già tutte le caratteristiche fondamentali, sia nella forma sia nel funzionamento del violino moderno che conosciamo oggi. Cremona, d’altronde, è universalmente conosciuta come centro mondiale della liuteria. A quell’epoca, poi, visse davvero un periodo d’oro. Oltre alla famiglia Amati, c’erano, infatti, Giuseppe Guarneri Bartolomeo detto “del Gesu” per l’abitudine di firmare i suoi strumenti all’interno della cassa armonica con la sigla IHS – Jesus Hominu Salvator (Gesù redentore degli uomini), ma soprattutto il leggendario Antonio Stradivari.

La vita e le opere di questo maestro liutaio sono avvolte nel mistero. Non conosciamo con certezza né il luogo né la data della sua nascita. Nessuno è, inoltre, mai riuscito a capire cosa renda i suoi strumenti così unici; come sia stato possibile per il liutaio ottenere un suono potente, corposo e poetico al tempo stesso dai suoi violini. Da quel poco che si è scoperto, sembra che il maestro utilizzasse una vernice particolare la cui formula, però, rimane ancora oggi sconosciuta. Alcuni ricercatori l’hanno analizzata e ritengono che un ruolo di primo piano fosse giocato dalle ceneri vulcaniche tipiche dell’area cremonese. Le analisi hanno rilevato come la vernice usata da Stradivari fosse arricchita con cristalli minerali microscopici; una preparazione vitrea applicata per rafforzare il legno che, dopo una lunga esposizione al preparato, diventava quasi cristallizzato. Su questa base veniva applicato un isolante a base di albume e miele che separava lo strumento dal successivo e definitivo strato esterno di vernice.

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Ma non c’è solo la vernice alla base del suono straordinario di un violino Stradivari (oggi se ne sono conservati solo 50 esemplari). Un insieme di fattori concorre a renderlo unico. Il legno per prima cosa. Quello usato era scelto con molta cura: acero dei Balcani per il fondo, le fasce e il manico e abete rosso della Val di Fiemme per la tavola. La leggenda racconta come Stradivari facesse rotolare i tronchi e ne ascoltasse il suono per decidere su quali lavorare. Alcuni ricercatori sostengono che il maestro, in questa meticolosa cernita, sarebbe stato favorito oltre che dal suo intuito e talento anche da una condizione climatica particolare che segnò l’Europa continentale tra il 17° secolo e la prima metà del 18° secolo. Una piccola glaciazione che avrebbe causato la diminuzione dell’attività fotosintetica delle piante, riducendone la crescita e aumentando compattezza ed elasticità del legno. Come dire… a quel tempo i legni di quelle zone erano comunque di grande valore e privi di difetti.

Gli italiani non si sono limitati a ideare strumenti utilizzati tipicamente nella musica classica, come il pianoforte e il violino.

Pochi sanno che la chitarra elettrica, ad esempio, non fu inventata da Leo Fender nel 1948 come tutti, appassionati e non, abbiamo letto su libri e riviste ma da Valentino Airoldi, di Galliate, nel 1937, ben 11 anni prima di Leo Fender. Avete letto bene. Non ci credete? Eppure esistono le prove. Basta leggere la didascalia della foto sgranata che lo ritrae assieme alla sua invenzione sulle pagine de “Il Popolo – Gazzetta della Sera”. Ma chi era questo sconosciuto genio italiano? Un tecnico della Stipel (Società telefonica interregionale piemontese e lombarda) che nel tempo libero amava suonare con gli amici e che, proprio come i suoi colleghi americani, aveva il problema di far sentire la sua chitarra in mezzo agli altri strumenti. Decise così di applicare alla musica la sua competenza in fatto di telefonia e trasmissione del suono. Usando dei comuni ricevitori telefonici costruì un meccanismo fatto da due calamite e due bobine, poi lo sistemò sul manico di una chitarra alla quale aveva tolto la cassa armonica e allacciò il tutto alla presa “phono” della radio. Il suono delle corde usciva forte e chiaro dall’altoparlante. Era nata la chitarra elettrica. Un’invenzione semplice e geniale come solo le grandi invenzioni sanno essere. Airoldi, però, non aveva alle spalle un’azienda produttrice di strumenti musicali, né, tantomeno, la scaltrezza e spregiudicatezza affaristica che oltreoceano evidentemente possedevano.

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Per farla breve, Airoldi non brevettò la sua invenzione e non prese contatti con i fabbricanti di strumenti musicali, così la sua chitarra rimase una curiosità da condividere con gli amici, un passatempo al quale dedicarsi nel tempo libero. E così, mentre il nome di Fender ascendeva all’Olimpo della musica, quello di Airoldi fu consegnato all’oblio.
Pensate… se la storia avesse reso giustizia all’ingegnere piemontese, oggi parleremmo della Airoldi bianca di Hendrix o della Airoldi Sunburst di Jimmy Page.

Per chiudere questa panoramica, ancora due curiosità.

La prima riguarda l’Opera, il termine italiano di utilizzo internazionale per il genere teatrale e musicale in cui l’azione scenica è abbinata alla musica e al canto. Non è un caso che la parola “opera” sia usata invariabilmente in tutte le lingue del mondo: anche se pure altre nazioni possiedono tradizioni operistiche d’innegabile importanza e valore, il melodramma è nato e si è sviluppato in Italia. Siamo stati noi, già dal sedicesimo secolo a inventare e diffondere il Teatro Musicale con Claudio Monteverdi che compose il celebre Orfeo per la corte Gonzaga, gettando le prime basi dei futuri melodrammi di epoca romantica.

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Attraverso questa forma d’arte la nostra lingua è diventata un fondamento del linguaggio musicale. Nel mondo, non solo in Italia. Tutti, da Mozart a Cajkovskij hanno poi scritto in italiano, sulle partiture, le loro indicazioni agogiche per l’orchestra (cantabile, moderato, presto, prestissimo etc…). Un primato quello dell’Opera Italiana che ha trovato anche il giusto riconoscimento come patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco. L’Opera è fatta da noi ma soprattutto di noi, dei nostri sentimenti, della nostra espressività, della nostra ironia, della nostra storia, dei nostri pregi e difetti. Siamo l’Opera.

Per scoprire l’altra curiosità dobbiamo andare a Villardora, a pochi chilometri da Torino, inerpicandoci per le stradine immerse nel verde della Val Susa. Arrivati in paese, un viottolo scosceso ci porta a una villa circondata da vigne. Proprio qui, dove il paesaggio sembra uscire dal passato, abita l’uomo che ha portato la rivoluzione digitale nelle case di milioni di persone, creando le fondamenta di quella che oggi conosciamo come musica liquida. La sua creatura più famosa, l’Mp3, ha permesso per la prima volta di trasmettere audio su internet con una qualità accettabile. Sto parlando di Leonardo Chiariglione, un ingegnere piemontese d’indole schiva, più disposto a parlare del lavoro che di se stesso.

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Forse per questo il suo nome è poco noto. Ex vicepresidente dei Telecom Italia Lab, nel 1988 ha fondato e da allora dirige il Moving picture expert group (Mpeg), il gruppo di esperti internazionali che ha creato non solo l’Mp3 ma tutti gli standard più usati per la trasmissione digitale di audio e video. Nel 1999 il settimanale Time l’ha eletto fra le 50 personalità più innovative nel campo della tecnologia e il suo curriculum comprende molti premi internazionali.

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