Il pasto nudo: l’abisso della dipendenza secondo William S. Burroughs

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“Mi risvegliai da La Malattia all’età di quarantacinque anni, calmo e sano di mente, e in salute ragionevolmente buona salvo che per un fegato indebolito e quell’aria di carne presa a prestito comune a coloro che sopravvivono a La Malattia […] la maggior parte dei sopravvissuti non ricordano il delirio nei dettagli. Io a quanto sembra presi annotazioni dettagliate sulla malattia e sul delirio […] la Malattia è tossicomania ed io sono stato un tossicomane per quindici anni”.

È con queste parole che William S. Burroughs decide di cominciare quella che diventerà nel giro di pochi anni la sua opera più nota, Il Pasto nudo (The Naked Lunch), per introdurci dalla porta principale, senza troppi fronzoli moralistici o inutili retoriche, in quella che per diversi anni è stata la sua piccola Stanzetta dei Giochi, il suo torvo Regno dell’Evasione Quotidiana: signori e signore, Vostra Signora la Tossicodipendenza.

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William S. Burroughs

I balocchi con cui Burroughs si trastulla sono infatti le droghe, gli arnesi e gli strumenti con cui introduce nel suo corpo “lungo e sottile” (secondo le parole dell’amico J. Kerouac) il demone inquieto che lo serve e tormenta al tempo stesso. Burroughs, completamente calato in quella che definisce “un’algebra del bisogno”, è la cavia cosciente delle proprie sperimentazioni psicotrope, e in quanto tale si sente in diritto di rovesciare addosso al lettore, senza riserve di sorta, il proprio pluriennale vissuto di tossicomane. Il Pasto Nudo è sì una sorta di diario lisergico, a tratti imperscrutabile, ermetico, delirante, ma è anche un quadro espressionista dalle tinte sempre nuove e inaspettate, in cui il pictor mirabilis Burroughs racconta le derive d’una coscienza bistrattata dalla droga, dipingendo al contempo una sorta di vicenda da alcuni definita di fantascienza (anche se personalmente non ritengo il termine appropriato), i cui protagonisti, di peripezia in peripezia, scandagliano i baratri delle proprie visioni allucinate. Burroughs descrive perfettamente la caduta oltre quello che de Andrè definiva, nel suo Cantico dei drogati, il “confine ai bordi dell’infinito”. (Un’interpretazione fantascientifica del romanzo è offerta anche dall’omonimo film di D. Cronenberg del 1991, che privilegia gli aspetti più immaginifici e “narrativi” della vicenda, a scapito di quelli maggiormente legati alla questione della tossicodipendenza).

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La copertina del film di David Cronenberg

Burroughs fa parte di quella rada schiera di autori che, pur non essendo assurti all’Olimpo della Gloria Imperitura -di un Hemingway o di un Kerouac o di un Roth, per intenderci- è comunque riuscito, all’interno di una nicchia neanche troppo ristretta, a fare di sé un’icona, descrivendo in prosa la propria disperazione esistenziale dai margini del movimento della beat generation. Lo scrittore è infatti amico di Kerouac e di Ginsberg, li conosce nella New York fumosa, furiosa, degli anni ’40, quella stessa New York da cui prende le mosse la Sacra Bibba della Beat Generation: Sulla Strada di J. Kerouac.

Burroughs è il vecchio Old Bull Lee da cui Jack e Neal soggiornano qualche giorno a New Orleans, nel bel mezzo del loro pellegrinaggio americano; è il “santone” che Allen Ginsberg -senz’ombra di dubbio il più eminente e iconico poeta della beat generation- elegge a proprio padre spirituale negli anni di fuoco della giovinezza, e con cui intrattiene anche una lunga relazione omosessuale. Kerouac ci presenta Burroughs in questi termini:

“Ci vorrebbe una notte intera per raccontare di Old Bull Lee; per adesso diciamo solo che faceva l’insegnante, e a buon diritto, si può dire, perché passava tutto il tempo a imparare; e le cose che imparava erano quelle che considerava e chiamava i fatti della vita; le imparava non solo per necessità, ma per scelta. Aveva trascinato quel suo corpo lungo e sottile in giro per tutti gli Stati Uniti, e in gran parte dell’Europa e del Nordafrica, ai suoi tempi, solo per vedere cosa succedeva; negli anni Trenta aveva sposato una contessa russa in esilio solo per strapparla ai nazisti. […] Faceva tutte queste cose solo per sperimentarle. Ora si dedicava allo studio della tossicodipendenza”.

The Naked Lunch, ci verrebbe da dire, è il figlio legittimo e più riuscito di questa dipendenza.

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Si possono raccontare molte cose circa quest’opera folle che si intitola The Naked Lunch (volete davvero chiamarla romanzo?!), come ad esempio che viene pubblicata per la prima volta in Francia, nel 1958, per la Olympia Press, e solo nel 1962 in America per la Groove Press (in Italia sarà data alle stampe nel 1964, per la Sugar Edizioni, per interessamento della mai troppo compianta Fernanda Pivano); che la prima edizione francese è del tutto diversa da quella d’oltreoceano di ben quattro anni dopo, che si basa infatti su una revisione precedente del testo; che fa parte di una tetralogia che include romanzi più e meno meritevoli, più o meno riusciti, tra cui i più noti restano ancor oggi La Macchina Morbida (1961), Il Biglietto che esplose (1962) e Nova Express (1964); che il titolo è stato suggerito a Burroughs da Kerouac, che prende a prestito una frase contenuta nella poesia di Ginsberg dal titolo Sul lavoro di Burroughs.

Ma l’essenza di quest’opera, così sperimentale, apocalittica, acida, resta comunque di difficilissima definizione. È un libro sulla droga e sulla dipendenza, senz’altro, ma non è solo questo. È la distruzione della forma letteraria che riflette come in uno specchio la dissoluzione, la decostruzione fisica e spirituale del tossico. È James Joyce che agonizza sull’uscio della Morte da Sostanza, è “fantascienza” impregnata di tossicità, è la destruttrazione del linguaggio, della semantica più tradizionale, che va di pari passo con l’implosione della psiche dell’autore, ex drogato e tossico, che ha vissuto in prima persona quella deflagrazione esistenziale a cui l’abuso di droghe conduce.

Non è un’opera di facile lettura, questo è certo, e non è nemmeno un’opera per moralisti, questo è ancora più certo. Ci vuole una certa comunanza spirituale con l’autore, probabilmente, per cogliere in modo sufficientemente chiaro il significato de Il Pasto Nudo, per far sì che quanto evocato a parole dallo sciamano Burroughs ci entri nelle vene e ci offra una visione di sé limpida e distinta, senza lasciarci sgomenti per la violenza verbale con cui ci si presenta agli occhi. Violenza ermetica, quanto di più complesso e indigesto possa esistere. Roba per stomaci forti.

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William S. Burroughs e Kurt Cobain

Non è un caso, infatti, se nell’ottobre del 1993, pochi anni prima della morte dello scrittore, Kurt Cobain, che sarebbe invece passato a miglior vita di lì a pochi mesi, decise di incontrare Burroughs nel corso di una tourneè in Kansas. Da questo incontro nacque poi una traccia sonora, una sorta di reading in cui Cobain sgranava rumore dalla chitarra elettrica, accompagnando la voce rugosa dell’ormai decrepito scrittore americano, il quale, compitamente e con una certa eleganza -tipica dell’inusuale e contraddittorio personaggio-, recitava senza troppo entusiasmo una propria poesia. L’effetto che produce questa follia-a-due è straniante, alienante, disperato, pregno d’infinita disperazione esistenziale. Alcune foto immortalano quel giorno e l’effetto-nostalgia è immediato. Si percepisce infatti un approccio all’esistenza e all’arte che, per quanto distruttivo possa essere stato, ha in qualche modo genuinamente rappresentato una tensione artistica mai risolta, propria della creatività sopra le righe di artisti non certo venuti alla celebrità grazie ai talent della domenica. Una comunione d’intenti e di spiriti mai così perfetta, tanto che i due restarono reciprocamente molto colpiti, quasi scottati, da quell’incontro tanto voluto da Cobain.

Fugace la vita di Cobain, lunga quella di Burroughs, invece, che nacque nel 1914 e morì nel 1997. Ad ogni modo disperate entrambe: Cobain -probabilmente- omicida di se stesso; Burroughs della moglie nel 1951, quando, tentando di imitare Guglielmo Tell, la passò da parte a parte con un colpo di pistola.

The Naked Lunch non poteva che essere l’incubo delizioso che è.

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