Human Traffic: tra paranoie, insicurezze e la necessità di un nuovo inno nazionale

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Questo articolo racconta il film Human Traffic di Justin Kerrigan in un formato che intende essere più di una semplice recensione: lo scopo è andare oltre il significato del film e fornire una analisi e una spiegazione delle idee e delle dinamiche che gli hanno dato vita.

Cardiff, 1999. Siamo al culmine del voltare pagina, il mondo si sta progressivamente automatizzando, pronto ad oltrepassare soglia digitale e virtuale che conosciamo oggi. Nelle sale usciva il primo Matrix e credere nell’esistenza di una realtà dietro quel velo di meccanismi sociali che regolano la quotidianità inizia a diventare un obbligo, spinto da un senso di claustrofobia. Per alcuni addirittura una fede, e in quanto tale conosce dei propri rituali e luoghi di culto: la controcultura rave era esplosa a piena potenza nei sobborghi di mezza Europa, il weekend è la santa messa e nell’ecstasy prende forma a tutti gli effetti l’eucarestia. Nell’esordio cinematografico di Justin Kerrigan, con un’iconica soundtrack curata dal DJ Pete Tong, Nina, Koop, Moff, Lulu e infine Jip sono a pieno titolo adepti di questa corrente, portatori di un messaggio di speranza: poter raggiungere, anche solo per un attimo, un paradiso fatto di puro edonismo, elevato fino a far assottigliare pericolosamente ogni linea tra realtà e fantasia.

“[…] Dimentichiamo il dolore e il male della vita, e vorremmo essere altrove. Non ci sentiamo più minacciati dalla gente. Tutte le nostre insicurezze sono evaporate. Siamo nelle nuvole. Completamente aperti. Siamo esseri dello spazio, in orbita attorno alla Terra e – sì – il mondo appare meraviglioso da quassù. Siamo ninfolettici, desiderosi di qualcosa che non si può avere. Rischiamo la follia per qualche attimo di luce. […] Vi diciamo “addio”. In fondo, vogliamo essere solo felici, sì, sì.”

Così riflette Jip, il protagonista della pellicola, in un attimo di lucidità interiore. Il venerdì sera, atteso con l’acquolina alla gola per tutta la settimana, diventa il lasciapassare che permette a migliaia di giovani sparsi per tutto il Regno Unito di esprimere le loro pulsioni più represse, e le droghe sintetiche sono la chiave per oltrepassare quella dimensione. A differenza di Trainspotting (citato anche in uno dei vari siparietti del film raffigurante un’intervista a Nina e Lulu), la fuga nelle sostanze stupefacenti non deraglia in tuguri senza fine di nichilismo e abbandono, ma conduce alla libertà; 48 ore vitali, in cui si catalizzano e condensano tutte le spaccature emotive, sociali e psicologiche di Jip e dei suoi amici, messe a nudo senza alcun senso di pudore. Attraverso divertenti monologhi interiori e scenette immaginarie le paranoie dei personaggi prendono forma, talvolta persino vita, ed è proprio il continuo gioco tra dialogo esteriore ed interiore su cui poggia l’essenza cult del film, grazie ad un linguaggio autenticamente espressivo della scena rave, impreziosito da citazioni d’autore, sequenze grottesche e momenti di grande riflessione – impossibile non citare la rivelazione di Moff su Star Wars, o il sermone introduttivo del weekend a cura del profeta Bill Hicks.

Techno Generation Anthem (Human Traffic, 1999)

Ma da cosa fuggono i personaggi, e con loro tutto lo sciame che popola il movimento rave? Nel film ci vengono introdotti subito i protagonisti attraverso un ritratto delle loro ansie. Koop non saprà mai se riuscirà a diventare un DJ di successo e trasporta la sua insicurezza anche in ambito relazionale, Nina si è appena licenziata da una catena di fast food, rappresentata con automazioni robotiche e soprasseduta da un capo viscido, Lulu è continuamente vittima di relazioni infelici, Moff è uno dei tanti giovani che non ha trovato posto nella società, continuamente assalito dai genitori, che incarnano un perfetto ritratto della middle class inglese reduce da una gioventù ricca di ottimismo e benestare. E infine Jip, schiavo di un lavoro che odia, è costantemente martellato da un continuo senso di irrisoluzione e da paranoie sessuali. Tutti i personaggi sono schiacciati da una famiglia con cui non condividono rapporti puri, da una società che segmenta e meccanizza i loro ritmi e che li rende incapaci di esternare le loro emozioni perché ritenute incomprese se non addirittura inutili.  Vivono una vita parallela durante la settimana, in cui sono costretti a indossare un abito soffocante che devono tollerare per avere la possibilità materiale di poter arrivare al fine settimana e poter cancellare tutti questi pensieri.

“Non ho un amico a cui piaccia il proprio lavoro, tutti contano i giorni fino al venerdì! Non sono pronto a diventare così miserabile!” urla Moff al padre, durante uno dei suoi sfoghi: lo specchio di una generazione che non riesce a trovare una sua collocazione, senza dover ricorrere a maschere e finzioni da adulti, senza doversi costringere ad una fuga da quei meccanismi, tanto effimera quanto autodistruttiva, che durerà fino al momento in cui gli effetti dell’ecstasy iniziano a svanire e le ansie e paranoie sociali prendono il sopravvento, fagocitando tutta l’atmosfera presente. Ma vale la pena, ogni weekend, varcare quella soglia per vivere 48 ore fuori da questo mondo, bagnandosi nei fiumi lisergici di quella chemical generation che il giovane fratello di Nina guarda con occhi sognanti. Per loro vale la pena perché è lì che possono riconoscersi parti di un insieme, di una società caotica ma armonica, che vive i suoi momenti di estrema felicità collettiva e che nel suo essere artificiale e sintetica si rivela comunque più genuina e spirituale di un relazionarsi quotidiano fatto di continua ipocrisia e finto interesse, di sorrisini e piccole bugie dette per tirarsi avanti fino a fine giornata. Salvo poi ritornare ogni domenica al punto di inizio di quel fine settimana, seduti in un pub circondati da persone con cui non si ha la benché minima voglia di rapportarsi col pensiero che sta per sopraggiungere una nuova settimana lavorativa. Allora questo sì che può essere il momento ideale per Jip per lanciare un nuovo inno nazionale, uno che possa cantare gonfiandosi il petto sentendolo realmente rappresentativo per sé e per una generazione senza tempo che vive sospesa in un’affannata e spasmodica ricerca di sé stessi, costantemente abbagliata dalle luci di traffico e insegne al neon, travolti a piena velocità dalla nevrosi dei tempi moderni.

I’m trying to be myself, understand everyone
It’s a mission and a half
Looking at everyone, trying to learn something
But I’m getting more confused
It’s hard being cool


Our generation, alienation
Have we a soul?
Techno emergency, virtual reality
We’re running out of new ideas
Who is the Queen?

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