La Regina degli Scacchi e l’importanza del fallimento

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Chi vi scrive non è particolarmente avvezzo alle serie tv. Certo, anch’egli è stato inevitabilmente attratto dalle esperienze (per certi versi fondamentali) vissute dai propri beniamini (in primis, e forse unica, Twin Peaks per David Lynch, da molti anni collocato, dal sottoscritto, in cima alla piramide evolutiva dei più grandi autori cinematografici di sempre), ma sono state davvero poche le ulteriori fascinazioni, mea culpa, per il prodotto seriale.

Consapevole di dover recuperare almeno due o tre produzioni seriamente degne di nota, nonché profondamente reduce dalla sconvolgente e ancora vivissima esperienza della più recente ripresa twinpeaksiana, chi vi scrive ha comunque prediletto la visione di esperimenti che, per così dire, non eccedevano in inutili e francamente irritanti prolissità. Emblematico, anche per personalissima inclinazione di gusto e fascinazione, per il sottoscritto, fu il caso della britannica Utopia, due stagioni distopiche risalenti al biennio 2013-2014, mai viste nel circuito distributivo italiano ma interamente recuperabili su YouTube con tanto di sottotitoli. Grande cura per la fotografia, scrittura certosina, caratterizzazione complessiva dei personaggi e cesellatura di villain realmente capaci di far tremare vene e polsi. Poi fu la volta di Black Mirror: stesse motivazioni argomentative (a tratti con notevoli escursioni lievemente filosofiche, se può essere lecito affermarlo) e particolare apprezzamento per una conformazione da serie di mediometraggi autoconclusivi, ideale per fare esperienza con rinnovata calma e attenzione.

Da poco, invece, è balzata all’attenzione dell’opinione pubblica La regina degli scacchi, quasi di pari passo con un personale (mai scontato, prima d’ora) avvicinamento a Netflix per cause anche di forza maggiore (inutile ribadire la sostanza della situazione globale che tutti stiamo vivendo). Niente di veramente accostabile a quanto più interessante per il sottoscritto dal punto di vista tematico (fatta eccezione per l’attività ludica che fa da perno all’intera narrazione) e, per certi versi, anche formale, ma produzione dotata di un nucleo attrattivo leggermente spostato verso caratteristiche strutturali che – si direbbe quasi – tendono a fare sempre meno sfoggio di cliffhanger (sarebbe curioso provare a riflettere un po’ sull’evoluzione del concetto stesso di serialità nell’epoca in cui un’intera produzione a puntate viene resa disponibile in un’unica data prestabilita) per protendere il tutto, invece, verso una ben più interessante architettura da lunghissimo film diviso in più parti.

Proprio questa (non in tutti i frangenti validissima) forma visivo-narrativa rende godibili anche ad un indisposto della serialità, come il sottoscritto, i sette episodi attraverso i quali il bravo Scott Frank (già apprezzata penna per L’altro delitto di Kenneth Branagh, Out of sight di Steven Soderbergh, Minority Report di Steven Spielberg e The interpreter di Sydney Pollack) costruisce sia sulla carta che sullo schermo una considerevole trasposizione del romanzo di partenza.

La regina degli scacchi, infatti, deriva dall’omonima opera letteraria firmata Walter Tevis (Lo spacconeIl colore dei soldi e L’uomo che cadde sulla Terra, tanto per citare qualche altra considerevole fonte di interesse personale) e datata 1983 (pare fosse già stata intenzione – irrisolta per tristi cause di forza maggiore – di un Heath Ledger deciso a compiere il primo passo da regista). La trasposizione che Frank propone, oltre a rivelarsi un ottimo prodotto filmico in sé – dotato anche di alcuni buoni spunti da un punto di vista autoriale ma prevalentemente di un pregevole lavoro riservato a fotografiascenografia e costumi, tutte voci abilmente in sincrono con lo scorrere cronologico della narrazione – sembra salire qualche gradino più in alto se considerata da un punto di vista anche sociologico e persino politico, se vogliamo (altrimenti perché quel finale?).

Il titolo originale de La regina degli scacchi, probabilmente, meglio influisce sulla comprensione di eventuali motivazioni contenutistiche: the queen’s gambit, infatti – il “gambetto di donna” – è un’antica mossa di apertura del gioco degli scacchi, il cui fulcro – il gambetto, appunto – viene giocato per “sacrificare” dei pedoni allo scopo di guadagnare spazi e tempi di sviluppo nel corso del gioco. È esattamente questo il percorso che la protagonista, Beth Harmon (interpretata dalla Anya Taylor-Joy di The witch e Split), inizia a tracciare quando (in una soluzione visivamente formale forse discutibile, a lungo andare, ma senz’altro efficace) si accorge di possedere un dono (il genio intuitivo che la conduce verso la scoperta di eccellere nel gioco degli scacchi) non privo di grossi punti deboli (la predilezione per alcool e tranquillanti) e, anche per questo, da governare con audacia e saggezza (studio, sacrificio, dedizione, affidamento ai propri reali maestri) per arrivare ad occupare un posto non secondario in un mondo remissivo e ostaggio di una prigionia scambiata per progresso collettivo.

Trattandosi di un racconto ambientato tra gli sfavillanti anni ’50 e ’60 statunitensi, a ben vedere, La regina degli scacchi (attraverso la storia di una brillante ragazzina che diventa campionessa di scacchi, quindi sotto abiti da racconto di formazione) mette in tavola una non inedita ma acutamente dettagliata critica del “sogno americano”, e lo fa proprio prendendone in considerazione i sacri criteri fondanti rivelatisi (con decenni di senno di poi, ovviamente) pura falsità, mera finzione, artificioso contorno (come i film ascoltati ma non visti che fanno da sfondo alla narrazione) fardello (non solo) nazionale in grado di estrapolare la reale sostanza di ciò che può significare essere individui di valore oppure nascondere la propria essenza fallimentare dietro maschere di conformismo inscatolato e pronto all’uso.

Coraggio, duro lavoro (nel suo caso studio approfondito in supporto al talento e al genio intuitivo) e determinazione sono proprio le caratteristiche che contraddistinguono, nonostante i tragici eventi che l’hanno condotta all’orfanotrofio, il carattere di Beth. Ma non si tratta di dettagli che da soli, tra una caduta e l’altra, possono condurre al raggiungimento di un obiettivo (forse al taglio di traguardi minimi che, in certe anime, rischiano di rappresentare un pericoloso appiglio per convinzioni di sé che finiscono per rivelarsi fallaci al cospetto di prove esistenziali ben più impegnative).

Coesione e spirito di reale e concreta solidarietà, non spocchiosa sopraffazione del papabile forte sul debole estratto a sorte (predisposizione, il più delle volte, fallimentare o isolata in piscine di verdoni fuori dal mondo reale e oltre ogni ipotesi di concretezza esistenziale oltre che professionale o, in qualche modo, utile alla comunità), dovevano essere ma non sono stati i valori complementari per una genuina realizzazione di una parvenza di collettività. E proprio allo scopo di evidenziare ciò che avrebbe dovuto significare la vera sostanza dell’ “american dream” e che, invece, ha finito per mettere in risalto il vero volto di una nazione che proprio della sopraffazione ha fatto il suo nucleo fondativo, Frank (e questo, per chi vi scrive, è il tratto più affascinante della produzione in questione) procede anche e soprattutto oltre il personaggio di Beth Harmon, rendendo spesso ben più interessanti i ruoli, sia simbolici che puramente etici, degli altri concorrenti alla narrazione.

In primo luogo, il concetto dell’importanza fondamentale dell’avere (anzi scegliersi di propria spontanea volontà, come fa la piccola Beth fin da subito; e poi riconoscere e riservare doverosa memoria a) una figura di riferimento, dalla quale estrapolare alcuni dei tratti distintivi di un’identità che si percepisce di detenere, è un elemento a dir poco fondamentale per porre in essere le basi del proprio sé. Beth, non avendola mai riscontrata né in un padre assente né in una madre succube del periodo storico-sociale e tragicamente, in questo, ribelle, la cerca con forza e la trova, in principio, nel signor Scheibel (Bill Camp), custode dell’orfanotrofio in cui la ragazza è costretta a crescere. Al suo fianco l’identità nasce (scopre di avere predilezione e dono intuitivo per gli scacchi) e cresce (da lui apprende e accetta gli stimoli di studio e performativi) ma matura solo una volta superate le mura della “prigione” formativa (dalla quale comunque emergerà un’altra figura amichevole che sarà quasi decisiva per rimettere in sesto emotivamente un treno in corsa che rischia di deragliare).

Solo affrontando il mondo esterno (prima venendo adottata e poi partecipando ai vari tornei scacchistici in ordine di importanza) Beth ha la possibilità di essere affiancata e sostenuta da una madre/amica (la Alma a cui Marielle Heller presta un perfetto volto di sogni e ambizioni soppresse) e da una serie di semi-censure al proprio immediato desiderio di affermazione: su tutti Harry Beltik (Harry Melling) con la sua spocchia da campioncino del Kentucky, Benny Watts (Thomas Brodle-Sangster) con la sua superbia da vero campione nazionale e D.L.Townes (Jacob Fortune-Loy) col suo fascino ammaliante anche se, al contempo, permissivo.

Mr. Sheibel, Alma, Beltik, Watts, Townes: quasi tutti, a primo approccio, sono deliziosamente tratteggiati con più o meno accentuati strati di indecisione distintiva, scontrosità, spesso sarcasmo, a volte anche sommessa crudeltà in quanto posizionati sulla scacchiera dell’esistenza diegetica come l’emblema dell’ostacolo da abbattere per essere vincenti. Tutti, però, confluiscono in situazioni ed eventi che li vedono evolversi gradualmente verso una consapevolezza di sé che rischia di annullare (per alcuni cancella effettivamente) quanto di buono fatto fin lì per tramutare tutto in riassestamento e riorganizzazione individuale in funzione di un tranquillo (fino a un certo punto) benessere (fino a un certo punto anche quello per alcuni, nullo per altri) da mero tassello di una quotidianità fittizia ed edulcorata.

Anche l’importanza del fallimento (inteso in quanto tale: non mero crollo depressivo di certezze ma prevalentemente consapevolezza di averne delle altre ben diverse), dunque, gioca un ruolo tutt’altro che secondario. Fallisce Beltik, passando da campioncino del Kentucky a studente dai risultati alterni ma con obiettivi di vita “normale”. Fallisce Watts, infrangendosi più volte contro il muro invalicabile che impedisce il volo al suo talento sconfinato relegandolo nello scantinato delle eccellenze messe governativamente in disparte in quanto fallimentari, appunto, nel contrastare la potenza russa (unica utilità possibile) anche in questo suo difficilmente neutralizzabile punto forte. Fallisce anche Townes, prima battuto da Beth e poi sconfitto da una fragilità affettiva che lo porta a darsi indiscriminatamente senza però mai ricevere. Fallisce anche Jolene, anima gemella di orfanotrofio che nessuno vuole adottare in quanto nera, pur riuscendo a cavalcare i tempi trovando spazio per le sue idee politiche e sociali. Tutti, però, si riuniscono (o si ritrovano uniti) al fianco di Beth e la sostengono, passo dopo passo, per aiutarla a vincere la sua partita più importante. Perché il talento, quello vero, va coltivato, certo, ma anche riconosciuto e sostenuto, non ostracizzato per dinamiche preimpostate. Pena l’oblio di qualunque ipotesi per un sé plausibile e accettabile non da un freddo e spigoloso esterno, ma dalla propria stessa persona.

Non a caso, inoltre, proprio il concetto di fallimento viene rappresentato anche in una sostanziale ambivalenza di percezione: l’altra faccia di quello che, tassello dopo tassello, rientra nella schiera di quei fallimenti necessari per una rinascita, sia essa corposa o forzatamente inconsapevole, è il fallimento travestito da cambiamento necessario per stabilire un’ipotesi di affermazione dettata dalle leggi non scritte dei tempi correnti. Fallisce, in questo, il padre adottivo di Beth, con la sua strafottente saccenza da uomo d’affari destinato all’oblio economico e morale come ogni americano medio senza sogni realizzabili né idee di compimento. Fallisce, di riflesso, la madre/amica Alma, che affoga nell’alcol e nei tranquillanti i sogni infranti che alla madre di Beth, invece, erano costati la vita. E fallisce anche la direttrice dell’orfanotrofio, forte di amorevole autoritàe senso di giustizia formativa, prima, e debole di ipercattolica atrofia mentale, poi.

Beth segue la sua strada tenuta in pista da tutti questi imprescindibili cordoli, tra eccessi da essi riconosciuti e tenuti a bada in quanto errori similmente commessi, così come anche tra diversi e variegati approcci al prossimo (empatici quanto puramente sessuali) in una costante e imperterrita ricerca di appoggi instaurata dalla consapevolezza di non potercela fare in completa solitudine. Beth (e, con lei, quello che doveva, semmai, realmente essere una qualunque parvenza di “american dream”) segue una strada che solo se battuta fino in fondo con costanza, dedizione, impegno e sacrificio (carateristiche intese, però, esclusivamente nella loro essenza più concreta e reale, non favolistica) può condurre dinanzi al vero volto di una verità sopita pur di non mostrare evidenti segni di cedimento. Fino a giungere all’abbraccio paterno del grande campione (magnifico il Vasily Borgov con le sembianze di Marcin Dorociński) che la spaventa ma che l’ha sempre osservata con attenzione e rispetto, che l’ha vista sbagliare e che adesso la aspetta per farsi battere (quindi fallire, contravvenendo alle imposizioni di vittoria dall’alto) e spalancare ai suoi occhi il proprio ruolo nel mondo. Un abbraccio paterno che nella realtà viene identificato come un’inadempienza storica imperdonabile ma che nella fiction (talvolta più vera del vero) può apertamente valere il senso più intimo e profondo del rimorso di un’intera nazione che, per come stanno andando le cose su alcuni fronti (soprattutto audiovisivi di provenienza mnemonica e sbocco umanistico) continua, in qualche modo, a fare i conti con se stessa.

Articolo pubblicato originariamente su La Seconda Visione e concesso ad Auralcrave per la ripubblicazione.

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