Ecco perché ci piace La regina degli scacchi

Come può qualcosa di così poco popular come gli scacchi suscitare un così grande interesse come quello che sta avendo la miniserie Netflix The Queen’s Gambit (La regina degli scacchi)?

La storia è tratta dal romanzo omonimo del 1983 scritto da Walter Tavis, che non è esattamente uno scrittore qualunque: il suo esordio lo fa con Lo Spaccone, dal quale è stato tratto il film con Paul Newman. Suo anche L’uomo che cadde sulla Terra, da cui venne poi l’omonimo film con David Bowie.

La sceneggiatura de La regina degli scacchi, in realtà, non è delle più originali: una povera orfana che attraverso un’abilità o un tratto caratteriale diverso dagli altri riesce a stravolgere la sua vita e a diventare ricca e famosa. Sembrerebbe il solito american dream in versione rosa, ed in parte certamente lo è. Questo è il principale punto debole della serie, ovvero la mancanza di originalità.

Sarebbe però superficiale liquidare in questo modo questo lavoro, che tutto sommato scorre con molta leggerezza una puntata dopo l’altra e riesce a catturare lo spettatore in un modo che forse non tutti si aspetterebbero, conoscendo un po’ la storia.

A compensare un plot molto classico c’è innanzitutto la protagonista Elizabeth Harmon, interpretata da Anya Taylor-Joy, che letteralmente “buca lo schermo”. È infatti impossibile – per uomini o donne, non importa – non rimanere ipnotizzati dal suo sguardo assolutamente magnetico, dalla fisicità eterea, dalle movenze, dai cromatismi in perfetta sintonia con tutto il resto.

C’è infatti una estrema attenzione per il dettaglio estetico: dai costumi, alla scenografia, alla fotografia, tutto è curato con precisione maniacale. Il tema della scacchiera è poi riproposto sulla carta da parati, sugli abiti di Beth, sugli arredi. Tutto riconduce sempre lì, tutto rimanda a quella che è la sua ossessione: gli scacchi.

La costante precisione dell’azione si riscontra anche nelle partite di scacchi giocate. Tutte le mosse fatte da Beth si basano su quelle di competizioni reali. La partita in cui Beth sconfigge Harry Beltik ottenendo il titolo di campionessa del Kentucky, per esempio, è una famosa partita giocata nel 1955 a Riga, in Lettonia. Allo stesso modo l’epica partita in cui Beth affronta il campione russo Vasily Borgov è stata giocata realmente a Biel, in Svizzera nel 1993. Per garantire queste verosimiglianze, ha lavorato come consulente della serie il campione di scacchi Bruce Pandolfini, considerato il più grande maestro di scacchi negli Stati Uniti. Per l’occasione, è stato interpellato anche Garry Kasparov, che proprio negli anni della guerra fredda vinse diversi tornei.

Altro aspetto decisivo per la riuscita della serie è stato quello di aver caratterizzato Beth, come ogni supereroe che si rispetti, di un grande dono, ma anche di una grande debolezza: nel suo caso sono le dipendenze. Così anche lei, a modo suo, diventa subito un’amatissima eroina del pubblico, nel quale riesce a far scattare un’identificazione catartica: anche lei soffre, anche lei ha un lato oscuro, anche lei sbaglia, proprio come tutti noi.

La tematica del riscatto femminile è ovviamente preponderante, e anche se non c’è nulla di nuovo, non si ricorderà mai abbastanza come tantissimi aspetti del mondo che conosciamo fossero all’epoca interdetti alle donne: l’universo degli scacchi è uno di questi. Eppure Beth, che per certi versi ricorda la storia di rivincita della pattinatrice statunitense Tonya Harding, riesce chiaramente a dominare grazie all’unica caratteristica davvero importante, cioè l’intelligenza. In questo caso la sua è molto acuta, e con essa riesce non solo a vincere le partite una dopo l’altra ma a infliggere vere e proprie umiliazioni agli avversari.

Dunque, una donna che è riuscita con la sua sola scaltrezza intellettiva, un passo dopo l’altro, a trovare il suo spazio nel mondo e poi anche un equilibrio con se stessa.

Infine il contesto storico, che rimane un po’ sullo sfondo anche se decisamente importante. La storia si svolge infatti in pieno periodo di guerra fredda tra Stati Uniti e Russia, che si riflette in ogni aspetto, non ultimo quello culturale. La competizione è ai massimi livelli e all’epoca i russi vantano i più grandi scacchisti al mondo. Non passano di certo inosservati alcuni messaggi lanciati qua e là. Il primo, che mette in evidenza la differenza di una passione – quella per gli scacchi – tra americani e russi: i primi un po’ vanesi e interessati più alla competizione e alla celebrità, al pari di pop star (e Beth ne fa certamente parte). I secondi, mossi forse da una passione più autentica e da un amore per il gioco degli scacchi che è altamente simbolico, e per questo praticato anche in strada, da gente comune.

Il secondo aspetto, che Beth impiegherà un po’ di tempo a capire, è che si può vincere solo insieme e l’individualismo, benché supportato da notevoli doti, non è mai da solo la soluzione.

La storia di Beth sembra parzialmente ispirata a una storia vera: è quella di una donna ungherese, Judit Polgar, la più grande giocatrice di scacchi di sempre. Polgar, nata nel 1976, è infatti stata la più giovane giocatrice a entrare nella top ten dei migliori scacchisti al mondo. Raggiunse il quinto posto quando aveva solo 12 anni, diventando Gran Maestro quando ne aveva 15 e battendo un record storico.

Nessuno, prima di lei, aveva conquistato il titolo di Gran Maestro alla stessa età. E fu famosa fino a quando, tre anni dopo, un ragazzino esattamente un anno più giovane di lei le soffiò il record, lasciando però intatta la sua reputazione di più grande giocatrice di tutti i tempi.

È indubbio quindi che The Queen’s Gambit è un piccolo grande omaggio a quegli aspetti di cui avremmo bisogno ora più che mai, in questi tempi oscuri: un omaggio all’intelligenza, alla forza e alla determinazione.

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