Il Nome della Rosa: trama e significati dell’opera di Umberto Eco

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Il Nome della Rosa è ormai una delle opere della letteratura italiana più apprezzate a livello internazionale. Questo grazie anche alla miniserie televisiva italo-tedesca realizzata recentemente, che ha fatto molto discutere, sia dal punto cinematografico-artistico, sia per la fedeltà o meno al best-seller del 1980 di Umberto Eco. La serie è stata creata da Giacomo Battiato, Andrea Poroporati e Nigel Williams, risultando una co-produzione  tra Rai Fiction, Tele Mùnchen, 11 Marzo Film e Palomar. Al momento la serie risulta esser stata venduta in oltre 130 paesi, tanto da diventare la fiction italiana più venduta al mondo dopo Gomorra.

Tralasciando le valutazioni tecnico-artistiche, che preferiamo riservare agli esperti o ai presunti tali, ci dedicheremo qui ad una breve disamina della Trama dell’opera di Umberto Eco, per passare poi a qualche valutazione sul messaggio storico, filosofico e teologico della vicenda, contestualizzata alla fine del Medioevo, in un’epoca da molti studiosi già considerata di preludio all’Umanesimo.


La trama

Siamo nell’Italia del 1327: il frate francescano Guglielmo da Baskerville, con al seguito il giovane novizio Adso da Melk, si reca presso un’isolata abbazia benedettina  per partecipare ad una disputa sulla povertà tra i rappresentanti dell’Ordine francescano e quelli del papato temporaneamente dislocato ad Avignone, per la precaria situazione politica romana sin dal 1309. La sede del papato rimarrà ad Avignone fino al 1377, rappresentando uno dei periodi più tristi e bui per la Chiesa, non a caso denominato già dai coevi “cattività avignonese”. Il racconto è narrato dallo stesso Adso da Melk arrivato alla vecchiaia, in una sorta di analisi retrospettiva.

Quando i due personaggi arriveranno nell’abbazia, si troveranno  coinvolti in una catena di omicidi misteriosi. Lo sfondo storico è quello della lotta tra il potere dell’imperatore e quello del papa ed implicitamente la questione ancora non risolta della separazione tra potere politico e religioso. Il monastero benedettino, teatro della vicenda, di rigida regola cluniacense, non a caso è sede di una famosissima quanto misteriosa biblioteca, che racchiude gelosamente il sapere dell’umanità, sorvegliato e sottoposto al severo vaglio del controllo ecclesiastico.

È doveroso, a tale proposito, esporre qualche precisazione di ordine storico. Fino al 1397, quando arriverà a Firenze il primo insegnante di lingua greca, e fino alla caduta dell’impero romano d’Oriente nel 1453, quando saranno portati gli originali testi classici in Italia, soprattutto nelle biblioteche di Firenze, di Venezia e di Roma, l’Occidente conosceva gli scritti dei letterati e dei filosofi greci solo mediante commentari scritta in lingua latina, o mediante la traduzione di filosofi arabi come Avicenna o Averroè. Anche Dante, ad esempio, non aveva mai conosciuto il greco antico, ma nella Divina Commedia cita più volte Omero, solo attraverso i commentari scritti da autori latini. Pertanto, come vedremo nel seguito della rassegna, un manoscritto in lingua greca doveva rappresentare, ancorché nel tardo Medioevo, il sogno e nel contempo l’incubo di ogni rappresentante del clero che volesse difendere a tutti i costi l’ortodossia della fede tramandata.

Comunque, come anticipato in precedenza, Guglielmo era stato incaricato dall’imperatore per sostenere le tesi pauperistiche, che miravano a diminuire i privilegi del clero. Nell’attesa dell’arrivo della delegazione del papa, che invece è chiamata all’apologia della tesi opposta, cioè quella  mirante a difendere la ricchezza della Chiesa, l’abate è preoccupato che possa essere minata la propria giurisdizione sull’abbazia per l’inspiegabile morte del giovane confratello Adelmo. Decide allora di confidare nelle straordinarie capacità investigative di Guglielmo, ex inquisitore, perché possa risolvere il tragico omicidio. All’interno dell’abbazia molti monaci attribuiscono l’evento a cause soprannaturali, legate a numerose credenze circa l’imminente venuta dell’Anticristo. È giusto ricordare che il Medioevo è stato il periodo di maggior fortuna per la diffusione del libro dell’Apocalisse di Giovanni di Patmos (attribuito in maniera pseudoepigrafica a San Giovanni) e che l’iconografia del diavolo e dell’inferno è quella che avrà maggiore influsso sull’immaginario collettivo di tutte le epoche successive.

Anche se all’ex inquisitore si concede la quasi totale libertà di manovra, si sovrappongono altre morti violente. Nell’ordine perde la vita dapprima Venanzio, giovane monaco traduttore dal greco e amico di Adelmo, poi è la volta di Berengario , aiutante bibliotecario, a cui il giovane Adelmo aveva concesso le proprie prestazioni di natura sessuale. E mentre i delegati del papa disputano con i francescani delegati dall’imperatore sul tema della povertà della Chiesa cattolica, anche altri monaci vengono misteriosamente uccisi. Senza entrare nei dettagli scenici, ma per seguire il filo conduttore che unisce il significato storico della trama, è molto importante la scoperta di Guglielmo che comprende come tutte le morti siano connesse ad un manoscritto greco custodito gelosamente nella biblioteca, costruita a similitudine di un complicato labirinto, a cui possono accedere soltanto il bibliotecario ed il suo aiutante.

Nella trama della fiction si dà un discreto spazio anche ai riferimenti alla setta dei seguaci di Dulcino. Questi era un frate predicatore e millenarista, che propugnava una vita di digiuni e di preghiere, chiedendo l’elemosina, non imponendo il celibato e predicando l’obbedienza alle Scritture ed il dovere di disobbedire anche al papa, quando questi si fosse allontanato dai precetti evangelici. Ciò scatenò l’ira della Chiesa che nel 1307 condannò al rogo Dolcino e continuò negli anni seguenti a perseguitare i suoi seguaci, come si vede in alcune scene de Il nome della rosa, in cui interi villaggi sono arsi al suolo. Ed ecco un altro tema che emerge dalla famosa opera di Eco: la contraddizione e la crudeltà delle pratiche inquisitorie della Chiesa, nonché l’ipocrisia delle azioni legali. In realtà le persecuzioni e le torture degli Inquisitori erano preparatorie al vero e proprio giudizio finale che doveva essere emesso da un’autorità secolare.

La situazione drammatica dell’abbazia diventa ancora più complessa, quando arriva l’inquisitore domenicano Bernardo Gui, rappresentante del Papa, che sorprendendo una fanciulla fornicare con un frate, non lontani da un gallo nero, non esita ad accusarli di svolgere riti satanici e di conseguenza di essere i responsabili delle misteriose uccisioni. Il tremendo inquisitore riesce ad estorcere una confessione dal povero Salvatore, riuscendo a fargli ammettere anche di essere stato un dolciniano. In maniera affrettata e senza possibilità di replica, Bernardo Gui li processa, dichiarandoli colpevoli degli omicidi avvenuti nel monastero, attribuendo indirettamente la responsabilità a Satana, tipico modo di pensare medioevale, secondo cui tutto era riconducibile al Principe delle Tenebre. In un gioco di specchi rovesciati, volendo anche fare un discorso di fede, appaiono “sataniche” le azioni spregiudicate dell’Inquisizione, che non esitava ad utilizzare le più violente forme di tortura per estorcere confessioni o per abusare delle credenze e delle superstizioni popolari che identificavano in alcuni animali, come il gallo nero o il gatto nero le espressioni terrene del Maligno.

Le digressioni storiche, filosofiche e teologiche della Serie tv sono ovviamente più rarefatte rispetto all’originario romanzo di Umberto Eco e l’atmosfera inquietante non sempre riesce a dare un quadro così suggestivo del pensiero tardo-medioevale. In ogni caso, barcamenandosi tra ragionamenti sottili e scene frenetiche, Guglielmo ed il novizio Adso riusciranno ad avvicinarsi alla verità, conquistando in primo luogo la capacità di entrare nel labirinto della biblioteca ed individuando il luogo dove è conservato il manoscritto che ha scatenato gli orribili omicidi. I due investigatori “ante litteram” scoprono che si tratta del secondo libro della Poetica di Aristotele, che tratta della commedia e del riso, constatando di persona che le pagine del libro sono avvelenate, con la conseguenza che uccidono coloro che lo sfogliano.


I simbolismi e le interpretazioni

Occorre soffermarsi sull’espediente narrativo dell’antico manoscritto. Umberto Eco utilizza tale espediente per sottolineare che si tratta di una storia fittizia e che nulla può essere ritenuto vero, facendo riferimento ad un testo più volte trascritto e tradotto, con molteplici errori di copiatura, al punto da far perdere il “vero storico”. Ma l’autore si riferiva davvero al secondo libro della Poetica di Aristotele sulla “commedia”, o a anche questa è un’allusione metaforica che rimanda ad altro?  In verità questo testo è inesistente, perché tale parte dell’opera aristotelica è andata perduta. “Commedia” è il titolo dell’opera di Dante, in quanto l’aggettivo “divina” fu aggiunto solo in seguito. La scelta del riferimento alla Poetica si spiega con il fortissimo legame tra Dante ed Aristotele, in quanto il famoso poeta fiorentino definisce lo Stagirita “maestro di coloro che sanno” e l’opera dantesca ha una struttura “tolemaico-aristotelica”. E nell’opera vi sono altri importanti riferimenti a Dante, come il nome dell’assassino “Jorge da Burgos” che spesso adopera espressioni che sono connesse a San Bernardo di Chiaravalle. Si tratta di un codice allusivo di duplice livello: 1) San Bernardo è colui che guida Dante in Paradiso per arrivare alla Candida Rosa dei Beati. La scelta di questo santo non appare casuale, essendo il creatore della regola templare, al punto che molte ricostruzioni storiche hanno affermato che Dante fosse templare e rosacroce; 2) lo stesso nome dell’assassino che richiama in maniera evidente lo scrittore argentino Jorge Luis Borges, appassionato di Dante, tanto che le sue opere sono state definite “intrise di immanentismo dantesco” e che, nei suoi saggi, ha fatto molti riferimenti simbolici alla rosa. Si deduce, pertanto, che il libro misterioso che non dovrebbe mai essere aperto non è altro che la “Divina Commedia” di Dante. E, proprio come il capolavoro dell’esiliato fiorentino, le chiavi di lettura del romanzo Il nome della rosa, come della fiction televisiva, appaiono quattro: letterale, allegorica, morale ed anagogica.

Il Nome della rosa ci propone, inoltre, in maniera quasi ossessiva l’idea dell’infinita onnipotenza divina, tema che mal si conciliava con l’ordine medioevale. Se Dio, infatti, fosse infinitamente onnipotente non sarebbe determinato neanche dalla sua stessa ragione, potendo seguire infinite razionalità. Ciò arriverebbe a mettere in discussione l’idea stessa di verità e le sicurezze che ne derivano. Il colto Guglielmo di Baskerville vive, pertanto, una profonda crisi intellettuale, arrivando, al termine della vicenda, solo ad una delle possibili verità che nasce, quasi per caso, da numerosi errori che si susseguono ed interagiscono. Non è difficile cogliere una metafora di ciò che sta avvenendo nella nostra epoca contemporanea, con tutti i vorticosi cambiamenti, che hanno portato a capovolgimenti esponenziali, così profondi da farci mutare opinione sui nostri rapporti con la realtà. E nell’anno di composizione del romanzo da parte di Umberto Eco, il 1980, non può sfuggire una chiara allusione alla delicata situazione politica degli anni ’70 ed agli omicidi cosiddetti della “Rosa Rossa”, tra cui quello di Aldo Moro, che molti attribuiscono ad un disegno segreto di un’organizzazione occulta cominciato proprio negli anni di piombo.

Sul piano storico, i personaggi rappresentano due epoche e due mentalità completamente diverse: da un alto gli esponenti del pensiero medioevale che sta tramontando, dall’altro il nuovo mondo, che culmina nella personalità di Guglielmo, che ha sete di conoscenze ed indaga con metodo scientifico senza indulgere troppo nelle credenze popolari e nelle forme di superstizione. Il titolo stesso richiama la frase tratta dal De contemptu mundi di Bernardo Cluniacense, riportato nella parte finale dell’omonimo romanzo: Stat rosa pristina nomine,nomina nuda tenemus (la rosa primigenia ormai esiste solo in quanto nome: noi possediamo nudi nomi). Da ciò si ricava che il “concetto universale” non contiene in sè una realtà vera e propria, ma è soltanto un nome. Ricorrono spesso, nel dipanarsi della vicenda, i riferimenti all’idea, secondo cui, alla fine di ogni cosa non resta che un nome o un ricordo. Avverrà lo stesso per la biblioteca ed i libri che saranno distrutti dal fuoco, così come il mondo conosciuto dal giovane novizio Adso lascerà il passo a quello nuovo dell’anziano narratore che è lo stesso Adso.

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