Chiamatemi Medea, sono qui per raccontarvi una storia più che secolare che ha avuto una tale quantità di trasformazioni da indurmi a voler mettere un punto fermo a questa interminabile deriva. Vi dirò la mia versione dei fatti, e la metterò a confronto con quello che di me hanno scritto poeti, filosofi e letterati. Voglio sgombrare una volta per tutte il campo da menzogne, illazioni, fantasie e congetture, ristabilendo i termini esatti della verità.
Se Camilleri può per Tiresia, chi siamo noi per non provarci al cospetto di un personaggio tanto calunniato? Sì, avete letto bene. Calunniato! Ma lasciamo la parola alla diretta interessata. Ha tanti e interessanti punti di vista da proporci.
Sul mio conto, sempre la stessa storia. Sono stata principessa della Colchide, aiutai Giasone a rubare il Vello d’oro seguendolo fino in Grecia. Venni ripudiata da colui per il quale avevo lasciato tutto: voleva celebrare nuove nozze con la figlia del re Creonte. Avete detto che mi sono sporcata del sangue della giovane Glauce e di suo padre e che, madre di tutte le vendette, abbia deciso di punire mio marito uccidendo i nostri figli.
Ho visto un film l’altro giorno, in cui quattro donne rinchiuse in un ospedale psichiatrico giudiziario cantano e balbettano le loro storie. Sono tutte infanticide e la pellicola (Maternity Blues) nasce da un testo teatrale di Grazia Verasani che, come al solito, mi tira in ballo dal momento che si chiama “From Medea”. Il film in realtà parla, in qualche modo, della depressione post-partum ma – ancora non so per quale motivo – ogni volta che s’affrontano tematiche simili viene fuori la famigerata madre assassina della tragedia euripidea, cioè io.
Non per vantarmi, ma di me scrivono poeti e drammaturghi fin dall’alba dei tempi. Dei miei molti alter ego latini, resta solo la versione di Seneca che però mi condanna fin dalle prime righe tratteggiandomi come un mostro. La rivoluzione di Euripide si consuma tutta qui: sì, la vendetta è atroce, ma allo stesso tempo è da considerarsi un schiaffo a quello stato di sottomissione e disuguaglianza che la società dei maschi da sempre imponeva a tutte le donne. Nella tragedia greca, in qualche modo, vengo assolta tant’è che alla fine per me non si spalancano le porte degli inferi ma, addirittura, lascio la scena sul carro alato del Sole, trainato da draghi alati, direzione Atene dove mi attende a braccia aperte il buon Egeo.
La realtà è che, in questo mito, la complessità di elementi di cui è sovraccarico l’avete sottovalutata. La mia storia si presta a ogni tipo di lettura.

Innanzitutto, partiamo dal principio. Io sono barbara, non è vero? Sono una maga, in me vivono sconvolgenti poteri stregoneschi. Appartengo a un mondo primitivo, a una terra arretrata e irrazionale come la Colchide, lontana dalla civiltà della Grecia. I cittadini di Corinto, dunque, mi hanno sempre guardata con intolleranza. Sono straniera. Per questo le voci che giravano sul mio conto, alla fine, hanno attecchito.
Dicevano che avevo ucciso mio padre Eeta, re della Colchide, e mio fratello Apsirto per facilitare la fuga degli argonauti e tutto questo in nome dell’amore per Giasone. La verità e che, farete fatica ad ammetterlo, ma sono stata vittima di razzismo. Per Corinto ero l’emigrante del Terzo Mondo, la clandestina da emarginare. Qualcuno se n’è reso conto. Mi rappresenta così Corrado Alvaro e tutto sommato anche Pier Paolo Pasolini che in quello spaesamento che contraddistingue l’interpretazione della Callas racchiude tutta la sintesi della mia condizione di emarginata.
Chi più di tutti, però, ha saputo inquadrare la frustrazione della mia calunniata esistenza è stata senza ombra di dubbio Christa Wolf. Nel suo romanzo teatrale (Medea. Voci.) mette in scena una donna mal vista nel paese che la ospita esattamente come lei stessa – socialista dopo la caduta del muro di Berlino – si sentiva in una nazione riunificata che però stentava a riconoscere e accettare, ricevendo in cambio gli stessi sentimenti nei suoi riguardi.
Ecco, finalmente la verità tra quelle righe.
Non sono stata io a uccidere i miei figli! Il sangue del mio sangue è stato lapidato, letteralmente, dagli abitanti di Corinto! Odio, odio per la straniera nei loro occhi e nelle loro parole, perché la mia presenza, a parer di tutti, aveva portato solo disgrazie in città. E Glauce, la figlia di Creonte, non è morta per il veleno di cui io avrei imbevuto la sua veste e i suoi gioielli. Glauce si è suicidata in seguito alla scoperta di un orribile delitto di cui il padre si era macchiato. Non sono stata io! E mio fratello, Apsirto… non l’ho ucciso io, ma mio padre!
Euripide si fece pagare, lo scrive anche Robert Graves (nel suo saggio, Il mito greco); fu corrotto dai corinzi per falsificare tutto, per risparmiare loro l’infamia dell’infanticidio riversando tutto su di me, ultima degli esseri umani.
Insomma, Christa Wolf riporta tutto alla luce. Anche quando scrive che non ho mai sofferto più di tanto per Giasone, che avevo un nuovo amore e che se sono stata mandata in esilio è stato solo ed esclusivamente perché straniera, barbara e dunque pericolosa, in un regime maschilista in cui una donna non poteva che rappresentare il migliore dei capri espiatori. Doveste istruire un processo contro la storia fatta dai vincitori che sempre demonizza i diversi e gli sconfitti, contate pure su Medea. Non voglio che siano cancellati i miei delitti – se credete ce ne siano stati – né censurare alcunché: vorrei solo, semplicemente, che vi concedeste il rischio di rileggere la storia con sguardo critico, magari analizzandola anche da altri punti di vista.
Almeno, ogni tanto.
One comment