Wim Wenders: il viaggio come ricerca della nostra identità

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È complicato apprezzare il Nuovo Cinema Tedesco senza contestualizzarlo, è quasi impossibile capire la carica rivoluzionaria di registi come Wim Wenders, Werner Herzog e Rainer Werner Fassbinder senza guardare alla Seconda Guerra Mondiale e alla conseguente caduta del regime nazista. Dopo la caduta del nazismo il cinema tedesco ha vissuto un lunghissimo periodo di crisi: la divisione nelle due Germanie Est ed Ovest con annesse sfere di influenza rispettivamente dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti ha portato a una frammentazione dell’industria cinematografica. Se ad est del muro si sviluppa una discreta cinematografia, lo stesso certamente non si può dire del versante ovest, che paga a caro prezzo l’ovvio smantellamento totale dell’apparato cinematografico da parte degli statunitensi (come poter fare altrimenti d’altronde, dato che esso era nelle mani di un unico uomo che faceva di nome Joseph Goebbles), con annessa totale subordinazione della macchina cinema ai media a stelle e strisce.

Per vent’anni la produzione cinematografica della Germania Ovest è davvero poca cosa: vent’anni di deserto fino al 1962, anno della firma del Manifesto di Oberhausen. Kluge, Fassbinder, Von Trotta, Herzog e Wenders: questi i principali firmatari di un documento che si propone di voler creare un nuovo film tedesco a soggetto, liberato dalle convenzioni vigenti e da qualsiasi tendenza commercializzante. Ognuno di questi brillanti cineasti trovo un proprio diverso tema, un proprio diverso modo di espressione, per portare avanti la propria rivoluzione cinematografica: il tema scelto da Wim Wenders, forse il più famoso di tutti i registi del Nuovo Cinema Tedesco, è il viaggio.

Il viaggio si definisce su tre movimenti principali: partire, viaggiare, tornare. Partire significa abbandonare una condizione, interpretabile sia come fisica che come mentale, per cercarne un’altra: la partenza è l’abbandono del vecchio per la ricerca del nuovo. La parola “viaggio”, invece, deriva dal latino viaticum, significa dunque, sulla base della sua originaria definizione: “ciò che viene consumato durante la strada”; dunque per parlare di vero e proprio viaggio non è importante considerare solo il puro spostamento compiuto, ma il modo in cui si è viaggiato, gli scambi che ci sono stati per la strada. Il viaggio però deve essere completato dal ritorno: si parte sempre per tornare, anche nel caso in cui la meta non coincida geograficamente col punto di partenza, ma costituisca un Io nascosto da ritrovare.

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Wim Wenders con la sua fedele compagna di viaggio.

Il punto di partenza del viaggio di Wim Wenders è costituito dagli Stati Uniti, sì, quegli stessi Stati Uniti che hanno praticamente perpetrato un nuovo tipo di colonizzazione mediale ed economica sulla Germania Ovest dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il punto di partenza del viaggio di Wim Wenders è Alice nelle città (1974), il primo film della cosiddetta “trilogia della strada”, che comprende anche Falso Movimento (1975) e Nel corso del tempo (1976).

Come detto dunque in Alice nelle città Wenders parte dagli Stati Uniti col suo attore feticcio Rüdiger Voegler (protagonista di tutti e tre i film della trilogia), interpretante Philip Winter, un fotografo deluso dal sogno americano in procinto di prendere un aereo per tornare nella sua terra natia, la Germania Ovest. Per uno di quei strani casi della vita apparentemente immotivati e che sfuggono al rapporto causa-effetto, che si trovano molto spesso nel cinema di Wenders, a Voegler viene di fatto affidata una bambina di nove anni, con la quale compirà il ritorno in Germania e con la quale ritroverà se stesso sulle strade della propria terra natale. Il punto di partenza gli Stati Uniti e il caos interiore e il punto d’arrivo la Germania Ovest e la pace, dunque, ma abbiamo detto che essenziale è il modo in cui questo viaggio viene condotto: sono i mass media statunitensi a dominare l’immaginario del road movie wendersiano, tra canzoni rock (i Rolling Stones) e folk come colonna sonora e una televisione e una radio quasi sempre accese in sottofondo; e allora il regista sembra dirci che l’uomo tedesco contemporaneo può scoprire veramente se stesso solo attraverso quegli Stati Uniti che l’hanno pesantemente plasmato, solo attraverso il blues e la Coca-Cola, il folk e la Texaco.

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La splendida locandina di Alice nelle città (1974).

Ma allora dov’è finita la grande storia tedesca? Dove sono finite quelle radici inestricabili, quel fortissimo senso di appartenenza alla propria patria che ha cementato il più grande regime totalitario del ventesimo secolo? Dov’è finita la comune identità germanica che unisce Germina Ovest e Germania Est? Nel suo viaggio alla ricerca della propria identità di tedesco Wenders torna indietro, torna al Dante tedesco, torna al padre della lingua e della letteratura germaniche, torna a Johann Wolfgang Goethe e al suo Wilhelm Meister. Il romanzo di formazione goethiano è infatti alla base del secondo film della trilogia, l’unico a colori e forse il più criptico, ovvero Falso Movimento. Il solito Rüdiger Voegler è un giovane aspirante scrittore che compie un viaggio verso Bonn alla ricerca dell’ispirazione e di se stesso; in questo viaggio troverà diverse figure delle proprie passioni e della propria vita: scisso tra una sorta di strano e raggiungibilissimo amor sacro (simboleggiato dalla ragazzina Mignon) e un amor profano anch’esso alla portata ma non voluto (simboleggiato da Therese), il personaggio interpretato da Voegler si ritroverà soprattutto ad affrontare il proprio passato, o meglio il passato di ogni tedesco, ovvero il nazismo, simboleggiato dal padre di Mignon, un ex-aguzzino nazista.

Ora, questo è davvero un momento capitale per il cinema tedesco: quasi nessuno aveva avuto il coraggio di riguardare con occhio critico alle nefandezze del proprio passato storico, quasi nessuno aveva avuto il coraggio di non porre un’improvvisa frattura nel tempo tra la Germania oggi e la Germania nazista; Wenders nel racconto goethiano, e dunque nella matrice dell’arte tedesca, mette in uno stesso spazio l’uomo contemporaneo tedesco e l’uomo tedesco nazista, normalizzando il personaggio dell’ex-aguzzino, cercando un confronto e non demonizzandolo (che è poi il peggior modo di trattare la Storia con la “s” maiuscola, qualsiasi essa sia). Ma nel finale se il protagonista sembra trovare la propria identità artistica scambiando una penna con una macchina da presa, lo stesso non si può dire della propria identità personale: inquadrato di spalle su uno scenario che ricorda il quadro romantico Viandante sul mare di nebbia di Freidrich, il protagonista si lascia andare a un monologo interiore in cui analizza l’assenza di un progresso interiore nonostante i movimenti fatti nella vita (aver abbandonato i propri compagni, lo stesso viaggio fatto), rimanendo spiazzato di fronte all’inerzia delle proprie azioni, all’inerzia delle azioni del popolo tedesco: rimanendo di fatto spiazzato di fronte al falso movimento che c’è stato (o meglio, non c’è stato) nel passaggio dal nazismo alla Germania Ovest.

Wenders dunque non trova pace neanche andando alla ricerca delle proprie radici storiche e culturali di tedesco, dunque in Nel corso del tempo decide di viaggiare nel cinema attraverso un proiezionista incarnato dal solito Voegler, accompagnato in maniera totalmente casuale (ancora il caso che entra nelle vite dei personaggi wendersiani) da un logopedista infantile. Ci troviamo di fatto di fronte ad un Alice nelle città colmo di citazioni cinematografiche (da Lang a Ray, da Ford a Ozu) che si interroga sulla morte del cinema contemporaneo rivolgendosi nostalgicamente al cinema pre-nazista. È come se il cineasta, incapace di trovare una propria identità, si rivolgesse feticisticamente alla propria cinefilia per trovare un senso alla propria vita: il risultato è un’opera fiume di tre ore girata in pellicola e praticamente in presa diretta che sembra ammettere anche alquanto serenamente che non è più possibile creare niente, che tutto è già stato fatto (citazionismo e ripresa spasmodica del tema del viaggio).

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Hanns (Robert Lander) e Bruno (Rüdiger Voegler) durante il loro viaggio.

Il viaggio in camion lunga la linea che divide le due Germanie assume dunque invece i tratti di un giro-tondo senza via d’uscita, in cui il cineasta sembra aver accettato la condizione frammentata dell’uomo contemporaneo tedesco. La serenità di Wenders si avverte anche nella scelta della colonna sonora: essa è prettamente rock e folk e dalle spiccate tinte statunitensi, ma è in realtà opera di un gruppo tedesco, gli Improved Sound Limited, non sembra esserci dunque più nessuna differenza apparente tra la Germania Ovest e gli Stati Uniti che l’hanno colonizzata e in un certo senso creata.

È utile prenderci una piccola pausa dal viaggio nel cinema di Wim Wenders per portare avanti un breve paragone con un altro cineasta a lui contemporaneo: se, infatti, il viaggio in Wenders è dunque un qualcosa comunque di costruttivo e strutturante, un mezzo utile per partire alla ricerca di sé, lo stesso non si può certo dire per Werner Herzog, altro basilare esponente del Nuovo Cinema Tedesco. In Aguirre, furore di Dio (1972) e in Fitzcarraldo (1982) un folle e spiritato Klaus Kinski è prima un condottiero alla ricerca della fantomatica El Dorado in Sud America, e poi un inglese che vuole portare l’opera lirica nella foresta amazzonica. In entrambi i casi Kinski è l’emblema dell’uomo che cerca di sfidare la natura, è l’emanazione filmica del superuomo, un superuomo che però finisce per essere annientato dalla natura stessa: il viaggio nel Sud America filmato dalla macchina da presa di Herzog è dunque antitetico a quello wendersiano perché antitetici sono i modi di rapportarsi alla natura dei due registi, se infatti Herzog vuole dominare la natura, e ne viene conseguentemente distrutto, Wenders trova nel piacere dello sguardo, dell’immagine e della citazione cinematografica, il senso del proprio cinema.

Il paesaggio infatti se già era iniziato ad essere strutturante a livello emotivo sui personaggi in Nel corso del tempo, in Paris, Texas (1984), diventa davvero un’estensione dei sentimenti del protagonista, interpretato dal grandissimo Harry Dean Stanton. Il protagonista è un uomo in uno stato di pieno caos interiore, dopo l’abbandono dell’amata moglie e del figlio a causa dei propri seri problemi di alcolismo e di gelosia. In quest’ottica il desolato deserto filmato con lunghissimi piani sequenza dal cineasta tedesco diventa davvero paesaggio dell’anima del protagonista, piena emanazione del suo vuoto interiore, del suo senso di perdizione e di mancanza di effettivi punti fermi a cui aggrapparsi nella propria vita. Grazie all’aiuto del fratello, Stanton riuscirà pian piano a recuperare il rapporto col figlio (splendida per la poetica semplicità espressiva la sequenza in cui il bambino cerca di imitare la camminata del padre camminando sul marciapiede opposto), e si lancerà con esso in un viaggio di ricerca della moglie a Houston.

Qui scoprirà che la donna si è ridotta a lavorare in uno squallido peep-show per guadagnarsi da vivere; ecco dunque che nasce quella che forse è la migliore sequenza del cinema di Wim Wenders. I due parlano ai due lati lati della cornetta, separati da uno specchio che permette all’uomo di vedere la moglie, ma non alla donna di vedere l’ex-marito, a meno che ella non spenga la luce della sala in cui si esibisce. Il direttore della fotografia Robby Müller gioca con la luce egli stesso facendo vedere entrambi i personaggi allo spettatore, e creando dunque in esso un forte senso di desolata tristezza, data dall’essere coscienti della situazione ma impossibilitati nel risolverla (che è poi la condizione fissa dello spettatore cinematografico, sulla quale Hitchcock farà una grande riflessione nel suo La Finestra sul Cortile del 1954): lo spettatore vede il legame tra marito e moglie, ma loro non sono capaci di guardarsi l’un l’altro.

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Sentirsi, ma non potersi vedere.

Stanton alla fine deciderà di far capire all’ex moglie la propria identità, per poi farla ricongiungere col figlio, prima di andarsene nuovamente via, tornando al nulla da cui è venuto. Paris, Texas è dunque il primo film di Wenders in cui il viaggio diviene davvero pienamente circolare, con una partenza dal deserto e un ritorno nello stesso deserto, con un viaggio che ha però portato dei cambiamenti all’interno del viaggiatore, che è ora cosciente dei motivi dell’abbandono da parte dei suoi cari ed è soprattutto matrice del loro ricongiungimento.

Ma la cosa basilare della pellicola è che essa è una produzione statunitense: Wenders era partito dagli Stati Uniti con Alice nelle città e ritorna alla fine negli stessi Stati Uniti con Paris, Texas; il viaggio è stato dunque la Germania Ovest, la ricerca della propria identità, che lo ha riportato circolarmente nella propria vera patria culturale. Ma il viaggio del cineasta tedesco non si conclude qui, c’è ancora tempo per il suo più grande successo: Il cielo sopra Berlino (1987).

La trama dell’opera è a dir poco celebre: nella Berlino degli anni ottanta due angeli vegliano sui cittadini osservando, memorizzando e preservando la realtà; uno dei due, Damiel (interpretato dal nuovo attore feticcio di Wenders, Bruno Ganz), si innamorerà così tanto di una trapezista da decidere di abbandonare la propria condizione trascendentale per diventare un umano e poter avere una relazione con lei. L’incontro tra i due avverrà, in pieno stile Wenders, durante un concerto di Nick Cave and The Bad Seeds, qui Damiel e Marion (questo il nome della trapezista) si guarderanno come se si conoscessero da sempre, e cominceranno la loro vita terrena insieme (perché in realtà Damiel le era stato sempre molto vicino spiritualmente).

L’elemento de Il cielo sopra Berlino che più mi preme analizzare ai fini del nostro tema portante del viaggio, è la motivazione per cui Damiel decide di abbandonare la propria condizione ultraterrena: egli vuole sentire sulla propria pelle ogni minima sfaccettatura della vita, dal caffè caldo alle zanzare che pungono in primavera, dal primo sole estivo sul volto alla carezza di una persona cara; insomma il viaggio di Damiel dal cielo alla terra è un vero e proprio atto d’amore del regista verso la vita, nonostante la mancanza di identità, nonostante la presenza fissa di quel muro, nonostante tutto. Damiel è quindi in un certo senso veramente una simbolica emanazione di Wenders stesso: il cineasta sembra dirci che è stanco di guardare da lontano la vita degli altri attraverso una macchina da presa, di viaggiare nelle loro teste per analizzarne problemi e incomprensioni; Wenders al termine del suo viaggio capisce che la vita in quanto tale è il dono più prezioso che abbiamo e che quindi va vissuta in ogni minima sfaccettatura.

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Chi è l’angelo e chi è l’essere umano?

In realtà il viaggio degli angeli non terminerà qui: in Così lontano, così vicino (1993), toccherà all’altro angelo Cassiel (interpretato da Otto Sander), di “scendere” sulla terra; la sua permanenza, tuttavia, non sarà serena come quella del suo collega Damiel: Cassiel verrà ucciso, ma dopo la sua morte tornerà alla propria condizione angelica. Wenders sembra dunque rappresentarci l’ambivalenza del suo modo di approcciarsi alla vita: protagonista quando quella vita lo accetta (Damiel) e spettatore quando la stessa vita lo rinnega (Cassiel), ma sempre e comunque perdutamente innamorato di essa.

Significativamente quindi il viaggio di Wim Wenders nella sua amata Berlino si conclude anche qui circolarmente, come il suo viaggio tra le terre statunitensi: si parte dal cielo, dalla condizione di spettatore, si passa nella vita, e poi si ritorna nel cielo. E allora quello di Wenders è davvero un viaggio in pienissima regola: partito dagli Stati Uniti (Alice nelle città) e dal cielo (Il cielo sopra Berlino), egli passa dalla Germania, e più in particolare da Berlino, per trovare la propria identità, prima di tornare negli Stati Uniti (Paris, Texas) e in cielo (Così lontano, così vicino); prima, cioè, di tornare alla propria condizione di spettatore delle immagini del mondo e di regista che in presa diretta coglie estratti d’amore per quello stesso mondo, prima di tornare dunque in se stesso, con però una consapevolezza  e una serenità completamente diverse.

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