La Voce della Luna: l’ultimo film di Federico Fellini

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Questo articolo rivela elementi importanti della trama e della spiegazione de La Voce Della Luna, il film di Federico Fellini del 1990, svelandone i significati e gli eventi descritti. Se ne suggerisce dunque la lettura solo ed esclusivamente dopo aver visto il film, e non prima, per evitare di perdervi il gusto della prima visione.

Nel 1990 Federico Fellini aveva una vita di riconoscimenti e espressioni artistiche di successo, la fama di artista visionario in grado di produrre film dal fascino inimitabile, la capacità di muovere critiche sottili e mettere elementi fortemente personali nell’esperienza cinematografica e uno status intellettuale ormai conclamato anche fuori confine. Settant’anni di età, oltre venti film all’attivo, 4 oscar vinti e una miriade di altri riconoscimenti europei. Le ultime espressioni della vita di un artista sono quelle in cui si raggiunge l’equilibrio completo, quello dato dalla giusta combustione di saggezza e sensibilità. È il momento di raggiungere il proprio apice estetico. Quello stesso anno ci riuscì un altro conclamato regista internazionale, Akira Kurosawa con Sogni. Per Fellini fu La Voce Della Luna.

Non c’era cosa migliore di restare fedeli ai propri tratti distintivi, quelli più amati da critica e pubblico: prima di tutto l’amore per i luoghi della propria vita, che si realizza mettendo ancora in scena le campagne romagnole e i suoi villaggi fatti di gente semplice e spontanea, e i messaggi sociali messi qua e là ma tenuti ben nascosti, espressi coi riferimenti al contesto storico e politico di quel tempo, insieme a un attacco alla frenesia e all’alienazione della vita moderna. E poi i personaggi, ovviamente, i caratteristi che da sempre facevano di ogni film di Fellini un saggio al limite tra fantasia, caricatura e realtà.

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Paolo Villaggio, Roberto Benigni

Per realizzare i personaggi ci vogliono gli attori, e per gli attori la scelta di Fellini fu coraggiosa e molto contestata a quei tempi: Paolo Villaggio e Roberto Benigni. Due comici, insomma, almeno nel modo in cui erano visti da tutti fino a quel momento. Era il modo di Fellini di estrarre le qualità finora non valorizzate a sufficienza in due attori più complessi di quel che davano a vedere. Una mossa critica, un messaggio chiaro alla sterilità delle scelte del sistema cinematografico italiano. “Benigni e Villaggio sono due ricchezze ignorate e trascurate. Ignorarne il potenziale mi sembra una delle tante colpe che si possono imputare ai nostri produttori“, dichiarerà Fellini alla stampa. Qualcosa di molto simile a quanto fatto in passato da un’altra colonna del cinema italiano con un altro comico indiscusso dalle qualità inespresse: Pier Paolo Pasolini, Totò e Uccellacci e Uccellini.

Le recitazioni sono romantiche, di una sincerità disarmante, mettono in scena il teatro dell’assurdo in un fluire ininterrotto, sinuoso come un valzer, con le storie e le interpretazioni che si intrecciano come due amanti. Benigni è Ivo Salvini, il volto dell’emarginazione, un simpatico matto che vive in un mondo tutto suo, capace di vedere la bellezza dove gli altri vedono solo una pentola sul fuoco, una campagna umida, un pozzo d’acqua. Villaggio è il prefetto Gonnella, stacanovista e paranoico, capace di vedere esattamente ciò che si aspetta, in ogni momento, sfoggiando fiero la diffidenza di cui vive. Si racconta che praticamente non esisteva copione e molto era lasciato all’improvvisazione. Nel suo libro L’arte della Visione Fellini scriverà: “Proprio perché ho avuto come attori Benigni e Villaggio, attori che incarnano tutti e due l’archetipo degli attori-comici anche nel senso di randagi, girovaghi, ho potuto con loro mettere insieme un terzetto che mi ha permesso di inoltrarmi con più sicurezza in un film inventato giorno per giorno. Un itinerario che partiva dal buio… Ho fatto un bel viaggio, sottobraccio ad Arlecchino e Brighella, o forse meglio a Lucignolo e Pinocchio“. Le locandine e i manifesti sono curate da Milo Manara, che riesce perfettamente ad estrarre l’elemento fantasioso delle immagini vere, mentre le musiche sono di Nicola Piovani, romantiche e malinconiche come il film stesso.

Fu l’ultimo film portato a termine da Federico Fellini. Valse il David di Donatello al compianto Paolo Villaggio, il primo riconoscimento ufficiale della sua carriera, e diede nuovo prestigio ai due attori protagonisti, svelando finalmente nuove dimensioni della loro arte. La critica non fu mai totalmente convinta di questa scelta, restando generalmente scettica anche in fase di giudizio, mentre nel frattempo personalità importanti come Woody Allen e Martin Scorsese si sforzavano a fare in modo che il film venisse distribuito negli Stati Uniti. Fellini non lavorerà più a nessun nuovo film. Morirà tre anni dopo, lasciando che fosse La Voce Della Luna il proprio testamento estetico. Un personaggio diverso da chiunque altro per visione e senso dell’armonia, lontano da tutti, mai davvero integrato nel proprio tempo e nel proprio ambiente. Le ultime immagini del suo ultimo film vedono Ivo Salvini, il personaggio interpretato da Benigni, avvicinarsi a uno dei suoi amati pozzi nella campagna isolata, a notte fonda, dopo la sua ultima conversazione con la luna, commentando tra sé e sé: “Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…

Finale La voce della luna FELLINI / BENIGNI (Silenzio)

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