Van Gogh, Chopin e Kurosawa: quando l’arte classica inghiottì lo spettatore

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Akira Kurosawa, da molti considerato uno dei più grandi registi del secolo scorso, nel 1990 aveva 80 anni. Aveva già alle spalle quasi trenta lungometraggi e una lista di riconoscimenti internazionali da fare invidia a chiunque. Era nella parte finale della sua vita e della sua carriera, ne era consapevole e sapeva che il modo migliore di valorizzare questo status era fare uno di quei film intrisi di saggezza, bellezza e sfida al progresso del cinema moderno come solo i grandi registi sanno fare. Qualcosa che quello stesso anno fece anche Fellini, con La Voce Della Luna. Per Kurosawa, invece, fu Sogni: un film fatto di otto episodi ispirati ad altrettanti sogni ricorrenti che lo inseguivano in quegli anni, tra cui spicca il quinto, Corvi. Le vicende di uno studente d’arte in visita a una galleria dedicata a Vincent Van Gogh, che finisce letteralmente inghiottito dai suoi dipinti.

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Vincent Van Gogh – Campo di grano con volo di corvi

L’ammaliante fascino visivo dell’episodio è dato ovviamente dal susseguirsi di opere di Van Gogh, dentro cui il protagonista cammina, si perde, interagisce. Chiede indicazioni alla gente che li compone, percorre strade e sentieri misteriosi, alla ricerca dell’autore stesso di quelle tele. Van Gogh (interpretato da un irriconoscibile Martin Scorsese) è sfuggente, rapido, non si dà pace. Deve continuare a inseguire il sole, la luce giusta, non può fermarsi. Il grido di una locomotiva a vapore accompagna il suo cammino, fino al suo famoso campo di grano. Gli effetti speciali dell’intero percorso sono curati da un esperto d’eccezione, George Lucas, con la sua Industrial Light & Magic. L’effetto visivo poteva lasciare da solo a bocca aperta, ma a Kurosawa non bastava. Ci ha aggiunto anche un accompagnamento musicale da tuffo al cuore.

Il Preludio n. 15 di Chopin. Forse l’opera più famosa del pianista polacco, denominata “La Goccia” per quella nota insistente e costante che non smette di rintoccare dall’inizio alla fine della composizione: una presenza all’inizio rassicurante, ma che muta improvvisamente in minaccia, rischio, nella parte centrale dell’opera, riportando a galla tutti i demoni interiori di Chopin. Quel pezzo lo scrisse nel 1838, durante il suo soggiorno al monastero di Palma di Maiorca. Ci fu una brutta tempesta e George Sand (nome d’arte di  Amantine Dupin, la sua compagna) rientrò freneticamente da una passeggiata col figlio. Fu lei stessa a descrivere il modo in cui Chopin le spiegò la nascita di quel preludio: “Vide sé stesso annegare in un lago. Gocce pesanti di acqua ghiacciata cadevano a un ritmo regolare sul suo petto. Gli feci notare che c’era effettivamente una perdita dal soffitto, ma lui negò energicamente di averla sentita. Si offese, si sentì accusato di essere un artista imitativo. Il suo genio era ricolmo dei misteriosi suoni della natura, ma li trasformava in sublimi equivalenti nel pensiero musicale, rifiutando categoricamente la servile imitazione“.

Due geni disturbati e per nulla in pace con loro stessi, Chopin e Van Gogh, messi insieme dal tocco delicato, dalla maestria sopraffina dell’ultimo Kurosawa, nella sua fase più visionaria, più onirica. Il risultato finale è quello che vedete nell’estratto qui sopra (l’episodio completo è qui, dura meno di dieci minuti, il consiglio è di vederlo per intero). Una pellicola sulla potenza suprema dell’Arte, quella che afferra lo spettatore e lo avvolge, lo costringe a relazionarsi con l’oggetto osservato. L’esigenza di cogliere il significato intrinseco dell’opera si scontra con l’impossibilità, con l’inafferrabilità dell’oggetto stesso, che di fatto non ha alcuna intenzione di dare spiegazioni, di facilitare la lettura. Il privilegio della forma sul contenuto, del significante sul significato. Il fine ultimo dell’arte non è essere compresa, è aprire all’osservatore un mondo in cui perdersi. E per rappresentare quel mondo, nessuno era più indicato di un virtuoso del cinema d’autore come Kurosawa.

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